Dal lato oscuro della Luna, quella sua faccia buia e crivellata, sottratta allo sguardo e alla luce, sprotetta e dunque più esposta alla furia meteoritica, a quello non meno impenetrabile e martoriato del cuore umano. Che si tratti di un viaggio interspaziale, dalla Terra a Nettuno, o della spedizione amazzonica di un esploratore alla ricerca di una città perduta, James Gray sa perfettamente che ogni esplorazione scatena inevitabilmente un’implorazione, che ciò che scorre fuori non può che rifluire all’interno, che ogni scoperta porta con sé uno scoperchiamento, lo sgorgare di una materia nuova, ignota.

In questo, Ad Astra non è che un’espansione astrale di Civiltà Perduta, il suo film precedente; un cambio di scenario che non intacca affatto il nucleo ferroso della sua ricerca di uomo e cineasta. Fatto di un inquieto e ostinato interrogarsi su ciò che davvero, intimamente, innesca l’agire umano e conforma l’identità con cui si sta al mondo, col mondo; su ciò che, pensiero dopo pensiero, scelta dopo scelta, diventa il nostro racconto, il nostro verbo, il nostro “essere”. A partire – e non potrebbe essere diversamente, se la riflessione deve essere realmente ab ovo – da ciò che possediamo dalla nascita e riceviamo in eredità. Che non è solo sangue, geni, umori, ma anche primissima pedagogia genitoriale, dialettica psichica tra genitore e genito. Eccoci allora arrivati al padre, questa entità totemica con cui sia in Civiltà Perduta che in Ad Astra James Gray sembra voler fare definitivamente i conti, una volta per tutte, dopo aver affrontato lo stesso tema, in modo più obliquo e meno diretto, in I padroni della notte e Two Lovers.

Per anni e anni Roy (Brad Pitt) è convinto della morte di suo padre (Tommy Lee Jones), riverito astronauta del programma spaziale statunitense, ossessionato dalla ricerca di forme di vita intelligente tra le stelle, e per anni crede di dovergli somigliare il più possibile, di dover essere come lui. È solo l’enigmatica e sinistra ricomparsa del padre ad attivare in lui un contraddittorio, un necessario processo di confronto e revisione, di smitizzazione e decondizionamento. Che lo porterà a vedere finalmente se stesso, smarcandosi per sempre, pur tra le lacrime, dalla presa dell’ombra paterna, in uno scioglimento sofferto eppure salvifico del nodo genitore-figlio che riporta alla mente l’amara verità di quel passaggio dell’Ulisse in cui Joyce fa dire a Stephan Bloom, figlio di Leopold, che “un padre è un male necessario”.

A mutare, radicalmente e irreversibilmente, è la focalizzazione, la prospettiva: completamente volta (o meglio votata, fissata, inchiodata) all’esterno, al “fuori, quella del padre; progressivamente ripiegata verso l’interno, verso il “dentro”, quella del figlio. Così mentre l’uno ha perso la vita (intesa come patrimonio di attimi ma anche come presupposto, come qualità necessaria degli esseri animati) a chiedersi: «Is there anybody out there?» (così si legge, programmaticamente, su uno stampato affisso a mo’ di mantra dal vecchio cosmonauta), l’altro comprende man mano l’importanza di domandarsi: «Is there anybody in here?».
Ed è dallo sguardo che comincia questa (ri)appropriazione della soggettività, quest’andare verso la propria condizione di soggetto, agente piuttosto che agito. Non è certo un caso che Gray faccia un uso ripetuto di soggettive, mascherini e superfici riflettenti (stupefacente la citazione di Odissea nello spazio con il riflesso di un pezzo di navicella spaziale sul casco da astronauta a disegnare l’occhio di HAL) mentre Ron lentamente approda alla nuova visione con cui “rivedrà” il suo passato e il suo futuro. Un mutamento che non è certo agevole o indolore. Banalmente si potrebbe dire, anzi, riprendendo la celebre paronomasia che il titolo fatalmente richiama – “per aspera ad astra” – che non si dà la luce senza l’oscurità, che non c’è lucentezza e splendore se prima non c’è travaglio, sofferenza, dolore. Dove per aspera, le asperità, s’intende non tanto o non solo il patimento fisico, ma la tribolazione dei nervi e dello spirito, che viene dalla fatica di essere se stessi e non più altro da sé, di sentirsi pieni, accompagnati, etimologicamente partecipi dello stesso vitto, cioè dello stesso vivere, e non più soli, abbandonati.

Is there anybody in here, allora? Solo se c’è qualcuno da amare, risponde James Gray.

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