Di quell’ammasso informe che ci ostiniamo a chiamare realtà, quel poco che gli occhi vedono e le orecchie captano, Antonio Capuano ha sempre cercato l’arcano. Tutto ciò che sta, etimologicamente, dentro l’arca e non fuori; che rimane quindi nascosto, imperscrutato, insondato, almeno finché qualche ape dell’invisibile – per dirla con Rilke – non arriva a bottinare il miele del visibile (che va estratto dai fiori, come da un’arca, appunto) per ricondurlo al favo d’oro dell’invisibile, e cioè il (non) luogo delle storie, delle preghiere, di Dio, di una realtà finalmente completa, perché comprensiva di tutto ciò che sfugge ai sensi.

Il suo cinema fa esattamente questo: prende la realtà, spesso quella della periferia urbana e di Napoli, e la scoperchia ed espone a furia di interrogarla con la macchina da presa, con il mito (si pensi a Luna rossa e all’Orestea di Eschilo), con l’ironia, con la realtà stessa. In Bagnoli Jungle (2015) a parlare è ciò che è stato abbandonato, dimenticato. Parlano relitti e derelitti, scheletri di creature industriali (il polo siderurgico ex Ilva, poi Italsider, dismesso nel 1992) e umane (Giggino, ad esempio, il primo dei tre protagonisti), su cui Capuano posa uno sguardo orizzontale, silenzioso e profondamente umano.

Ci dicono della desolazione amara in cui il potere può lasciare cose e persone, di aria e acqua avvelenata, di interi pezzi di società prima illusi e poi ignorati, di un presente difficile e di un futuro ancora chimerico e annerito. Eppure non tutto è perduto: nella giungla di Bagnoli c’è ancora la forza di ballare sul ciglio della strada, di correre e giocare a calcio, di rappare e sclerare, di emozionarsi per la maglia di Maradona o per il corpo di una donna. Di danzare tra i rifiuti e di innamorarsi, persino, tra la consegna di una spesa e l’altra, tra una passeggiata in carrozzina al tramonto e una manifestazione. Perché questo è quanto ci è rimasto e da questo ventre ferito dobbiamo tornare al mondo.

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