Chiudere e aprire gli occhi sembra essere il tratto distintivo di Pietro (2010), film durissimo, di una violenza intollerabile e necessaria, perfettamente congruente con l’intento programmatico di porre dinanzi allo sguardo dello spettatore il lato oscuro della luna: la parte tenuta in ombra di un Paese che viene fotografato per com’era in quegli anni e che purtroppo resta ostinatamente e inconsapevolmente – ma l’incoscienza è colpevole, ugualmente, si percepisce tra le righe di questo film scritto per finire con la parola detta, finalmente, liberata, arrivata al destinatario disattento, dopo tanto silenzio – invischiato nei propri storici, ontologici presupposti individualistici, discriminanti. Le verità di cui Daniele Gaglianone si fa coraggiosamente portavoce scompaiono compaiono in un chiudere spalancare le pupille; che, nel gioco dissacrante della mano che s’abbassa dalla fronte fino al naso, scrosci di risa, buffoneria tragica ad unire due solitudini lancinanti poiché non si sa, ad un certo punto, se quella del protagonista o quella di suo fratello sia più sopportabile, diventa lama che scivola sul campo visivo di Pietro, la stessa che affonda nello strazio della carne lacerata in una rivendicazione d’esser-ci, scavando, allo stesso tempo, nella produzione di senso e nella coscienza di chi guarda.

Ma chi ha bisogno di vedere, di capire? Lo spacciatore (che invece ha “visto” in Pietro un possibile soldato nel mercato della droga)? Lo sfruttatore (il quale ritiene che Pietro e quelli “come” lui possano fare in quel modo quel tipo di lavoro)? Il fratello di Pietro (oggetto di cure a attenzioni continue da parte del protagonista mentre in una scena del film, sul tram, quando Pietro prende il fratello e lo sposta, letteralmente, di posto, lo fa sedere al posto suo, gli viene rinfacciato d’essere venuto al mondo: «Se non era per te […] Per guardare a lui non mi ha fatto studiare, mi sono rovinato la vita […] Tu sei mio fratello? Manco mi somiglia! […]»), che riversa sull’inattualità di una sensibilità come poche, di una gentilezza e di una dedizione come poche tutta la miseria che è sua e non solo sua, tutta la colpa su chi non ha colpa? Dov’ è la ragionevolezza? Chi vede le cose? Quando Pietro tenta di essere “come” gli altri, portando la sua ragazza dove il fratello e gli amici sono soliti fare scempio della sua umanità, del suo amore, con lazzi e risate, cori da stadio, si chiude invece in gabbia, in una gabbia più crudele che se fosse stato, ancora una volta, da solo: l’obiettivo riprende con movimenti circolari, attornia, stringe, le orecchie fischiano, il volto si contrae, rapidamente si diventa Pietro, si è Pietro, la sua percezione ovattata del mondo, a tratti acuta, terribile, mentre chi sta a guardare dall’altro lato dello schermo è tirato dentro quella gabbia, è costretto a sentire quello che Pietro sente, perde l’equilibrio.

Lo sguardo del protagonista è l’unico che “si vede” nel film, i primi piani fissi sui suoi occhi sono gli unici di cui abbiamo percezione; il resto del film è tutto un seguire di spalle, sottrarre alla vista, rendere invisibile: ed è questa scelta che attiene alla volontà di attribuire a Pietro un certo livello di conoscenza non solo di sé ma delle cose, di consapevolezza del mondo circostante che lo attanaglia e lo schiaccia, dalla cui violenza si libera nell’unico modo che in quel momento gli è possibile, sebbene poi non gli risparmi altri vincoli, altro dolore. Perché gli ultimi, i reietti, i non visti, i non ascoltati, i non presenti sulla cartografia identitaria ufficiale scontano a modo proprio la propria marginalità, la frustrazione che ne deriva sui prossimi di miseria, in una staffetta che non ha fine; in uno degli ultimi piani sequenza, prima che la favola-cinema ci riporti a quello che resta alla nostra percezione di fruitori dell’opera – e dunque anche ad interrogarci sulle impronte che la visione ha lasciato sulla storia, nostra, individuale di spettatori, e di altri che vedranno, quindi collettiva, in una costruzione di significati che, toccato il punto di raccordo, se ne discosta subito, si amplia, amplificandosi in altri significati che si stratificano via via – si assiste al dilagare delle fluidità dell’occhio che somiglia al precipitare dell’acqua, che ingombra il campo: quasi consistente, lenta, densa come olio alle spalle di Pietro che si gira, sparisce.

Per la durata di tutto il film l’attenzione è continuamente spostata su qualcos’altro tramite l’uso chirurgico che Daniele Gaglianone fa dell’obiettivo, mosso, decentrato, instabile, tendente ad una messa a fuoco persa nel momento immediatamente successivo alla conquista delle scene, sulle quali poi si focalizza lo sguardo, mentre gli oggetti inquadrati si allontanano, si deformano. Ogni cosa va verso il fuori fuoco, verso l’esautorazione del suono o al contrario verso la sua intensificazione, in un assembramento simbolico di corrispondenze, pezzi di visione: libri per terra, stralci di disegni, di mani, pavimento, muri incrostati, per mettere ordine, tentare di trovare un posto in cui stare. Ma è soltanto nei pochissimi momenti di sole, la mano che accarezza per un attimo la schiena della ragazza, per strada, in un gesto semplice di protezione, o nel tram a guardare dal finestrino, senza essere visto, che Pietro sente meno forte d’essere solo; o nel tramonto che implode.

La misura di questo “vedere” è quindi condotta in modo assolutamente funzionale ai movimenti di macchina, rapsodici, spiazzanti, deformanti, ai quali il regista consegna la propria σϕραγίς, il sigillo cioè di quell’operazione di presa d’atto di uno stato delle cose che l’idea-cinema di Gaglianone veicola, nel solco di quello che Merleau-Ponty, in L’occhio e lo spirito, definisce «visione in atto», che non scinde, né vuole farlo, tra visione come «pensiero» e visione come «corpo», anche e soprattutto perché entrambe queste visioni, dell’occhio e del pensiero, si definiscono e si ridefiniscono incessantemente a partire da una fisicità, quella del corpo-macchina e quella del prolungamento del corpo-occhio che diventano domanda, graffio senza risposta sulla desolazione che resta: «[…] Ero contento che arrivava l’ora di disegno […] Mi piacevano pure le poesie. Adesso non le so più. Forse una che diceva “nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore” […]».

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