Il cinema di Giuseppe Gaudino si muove – al limite nello scarto, nello scatto tra fotogramma e fotogramma, nel tratto umbratile, chiaroscurale che separa la sagoma dalla sagoma – su un versante non-mimetico, anzi si direbbe consapevolmente anti-mimetico, nonostante lo spunto sia antropologico.

Si muove in un ecosistema espressionista in cui lo sguardo dell'autore piuttosto che assorbire passivamente l'immagine proveniente dalla realtà, la scava, la penetra facendone emergere le essenze ctonie, profonde, viscose, con le quali poi allestisce una messa in scena che si fa, si sfa di simboli, miti (è uno sfarinarsi delle figure mentre ritornano dal passato, una perdita di contorni, uno smemorarsi del movimento), quindi di ellissi narrative in cui le figure vagano come fantasmi carnei, spasmodici alla ricerca del proprio spazio, del proprio tempo che, alla fine non possono che essere lo spazio e il tempo del cinema, questo piano d'esistenza arcano in cui si gioca nietzschianamente il giro di lune, il ritornare a essere delle cose.

Ecco allora il continuo inquieto rispecchiarsi del contemporaneo con le proprie origini arcaiche, mitiche. L'affiorare di un che di animato (di disegno animato) nel suo cinema, è il rivenire delle immagini dalle profondità del tempo che non può che essere fisiologicamente onirico, fantasmatico: un meccanismo, la nudità della meccanica semovenza delle sagome, frutto di un salto di frames, di una perdita di fotogrammi avvenuta nel corso di questa reminiscenza. Per questo, per essere forse il maggior esponente di un'estetica minoritaria quanto esaltante, Gaudino è una figura centrale nel cinema italiano, ammantata essa stessa di mito, se si pensa che devono passare diciott'anni prima che all'esordio di Giro di lune tra terra e mare (1997) succeda il suo secondo lungometraggio di finzione, Per Amor Vostro presentato nel 2015 alla Mostra di Venezia nell'attesa fremente di tutti quelli che ancora portavano negli occhi i bagliori, i riflessi di un giro di lune.

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