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  • Il cinema di Giuseppe Gaudino si muove – al limite nello scarto, nello scatto tra fotogramma e fotogramma, nel tratto umbratile, chiaroscurale che separa la sagoma dalla sagoma – su un versante non-mimetico, anzi si direbbe consapevolmente anti-mimetico, nonostante lo spunto sia antropologico.

  • Presentata nel corso della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia,Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera è un’opera molto intima diretta da Andrey Tarkovskij, figlio omonimo del regista russo, che si sofferma sulla figura del padre, raccontandolo come uomo, come persona ma soprattutto come artista. Il film va oltre la definizione di documentario; è un omaggio, un ricordo personale che il regista ha del padre dopo trent’anni dalla sua morte, pone direttamente lo spettatore davanti a Tarkovskij, senza filtri, il suo pensiero raccontato dalle parole, dalla stessa voce del regista russo, lavorando con registrazioni audio, più di 800 ore, raccolte negli anni, insieme a immagini dai set e a personalissimi frammenti di vita. Il film è diviso in capitoli, ogni capitolo è dedicato a un film e ogni film cristallizza un determinato momento della vita del regista. La sua vita è nelle sue opere, ci sono i luoghi in cui sono stati girati i suoi film, contenitori di memoria, che anche a distanza di tempo continuano a conservare la magia emozionale dei set, poesia e mistero si incontrano per raccontare la sospensione del tempo. Viene ricordata la continuità poetica e culturale, tramandata di padre in figlio, dal poeta Arsenij al regista Andrej. Andrej Tarkovskij, come riportato in questo racconto filmico del figlio, attribuiva all’arte un senso di sacralità che avvicinava l’uomo al divino, l’arte intesa come una sublimazione della religione, e viceversa, il gesto artistico rende più prossima l’umanità a Dio, fare cinema è la preghiera del titolo del film, il leit motiv di questa opera, fare arte è l’offerta che il regista russo dona al suo pubblico, «i miei film sono la mia preghiera».

    Tarkovskij affermava che i film non vanno capiti, ma vanno sentiti e si devono guardare con gli occhi di un bambino, perché i bambini sono spogli di qualsiasi costruzione mentale, bisogna lasciarsi stupire, così questo documentario è un incontro emotivo tra lo sguardo di Tarkovskij e quello dello spettatore perché come affermava Rilke, inLettere a un giovane poeta, «Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato».

    L’immagine è una lirica che abbraccia l’assoluto, racchiude l’essenza di luoghi distanti e presenti, traslando l’anima sul corpo filmico, impregnato dalla poesia di un altrove di cui si avverte l’esigenza e la necessità della sua presenza. Il murmŭr del vento accompagna l’occhio nell’infinita bellezza della natura, tra gli argentei alberi di ulivo, nelle campagne, tra le zolle brulle della terra scura lavorata dagli uomini, si insinua sottile nei silenzi assoluti avvolti dalla nebbia, dalla brina che imbianca i paesaggi umidi di lacrime e di memoria.

    Il linguaggio si affida così alla visione, alla sua purezza, a quell’immagine che, tarkovskijanamente, «non può essere interpretata […] che possiede una quantità illimitata di legami con il mondo, con l’assoluto, con l’infinito» (Tarkovskij 2012, p. 1). Una narrazione sensoriale, epidermica, che scorre sulla pelle e attraverso i ricettori più sensibili, una trasposizione immaginifica e reale del tempo, dilatato e sospeso, in una realtà in bilico tra l’onirico e l’esperito, tanto tangibile quanto intangibile, in maniera equanime, in cui l’arte e la vita si fondono in un connubio unico, alimentato dalla santificazione dell’immagine. «Tutto quello che non esprime speranza, che non si basa su un livello spirituale, non ha relazione con l’arte», sottolinea nel film il regista.

    Prima di definirsi regista Tarkovskij si raccontava attraverso le sue opere come poeta; la forma del tempo è un racconto lirico di anime in una danza mossa dal vento, tra il presente e il passato, in un futuro in cui l’uomo è un granello di assoluto. Tarkovskij sosteneva che «Il tempo è uno stato. È la fiamma nella quale vive la salamandra dell’anima dell’uomo. Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono le due facce di una stessa medaglia»

    Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera nasce da una necessità spirituale del figlio di raccontare il padre, di confrontarsi con l’artista, di ritrovare le sue parole, un viaggio emozionale e lirico attraverso i sentimenti famigliari, un omaggio accorato all’uomo. Il corpo filmico è il corpo umano, in una coincidenza fisica, in una compenetrazione totale, la vita si fa opera cinematografica e il cinema si muta in vita. L’immagine deraglia sulla vita, sua sovrapposizione, l’una interseca l’altra in una vicendevole narrazione, offrendo nello scorrere delle sequenze filmiche la ricerca della bellezza intesa come flusso magmatico dell’esistere, tarkovskijanamente, «contenitore di bellezza perché contenitore e contenuto di verità».

  • L'attenzione, lo sguardo sempre aperto, vibrante, verso personaggi conturbanti, eccessivi nel senso dello straripamento delle facoltà dell'essere, eccedenza che, a ben guardare, scandisce, realizza appieno l'essere secondo ingiunzione nietzschiana: ecce homo; è uno dei fuochi, delle messe a fuoco, del cinema di Michele Placido, dando ormai per pronto il suoCaravaggio che idealmente si ricongiunge al Dino Campana diUn viaggio chiamato amore. È in ragione di questi eccessi o straripamenti d'io, di queste necessitate enfasi nelle movenze dei personaggi, accesi dagli spasmi dei nervi, dei desideri sormontanti; di certi squilibri nella messa in scena che questo cinema resta uno dei più connotati e interessanti del panorama italiano contemporaneo.

  • Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storiatout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della veritàin fieri.

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