Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storia tout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della verità in fieri.

A questo scopo va compreso con effetto attivo e retroattivo il lavoro – e le peculiarità - del fondamentale Segreti di Stato (2003) di Benvenuti, occorre innanzitutto partire da un’analisi comparata con Salvatore Giuliano (1962), il capolavoro di Francesco Rosi che per primo si è occupato della strage del primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra. Diversamente, si corre il rischio di contrapporre un film all’altro. O un autore all’altro, sulla base. Innanzitutto, per dirimere la questione sul piano linguistico, va detto che sia il film di Rosi che quello di Benvenuti agiscono sul piano iconico, del distacco critico e dell’astrazione, non su quello immediatamente riproduttivo. Ciò risulta più chiaro in Segreti di Stato, in cui l’autore evita accuratamente di ricostruire in maniera “realistica” gli eventi. O i cinegiornali. Egli sceglie ogni sorta di rielaborazione iconica che dia l’idea dell’artificio e dell’interpretazione: i disegni monocolore e contornati su carta o sulla lavagna, i plastici, lo specchio, le fotografie-carte, oggetti come gli accendini o le sigarette disposti su un tavolo del carcere o sulla scrivania del professore in modo da restituire le posizioni di chi sparò a Portella. E sin dall’incipit del suo film su Portella esibisce, come Welles nella sequenza del cinegiornale News on the March di Quarto potere (Citizen Kane 1941), l’«enunciazione simulata». Benvenuti insomma marca le distanze dalla realtà ostentando la ricostruzione cinematografica dei fatti compiuta dai cinegiornali come pratica discorsiva menzognera. Le differenze tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato riguardano il particolare approccio iconologico ai fatti rievocati. Il grado, questo sì: diverso, di astrazione. Si può dire che Rosi scelga icone di tipo realistico, dinamiche, quelle che Eco definisce icone «temporate». E provvede, anche con interventi antifrastici, come si è visto, a contraddire lo stesso effetto di realtà che tali icone dotate di movimento evocano nello spettatore. Benvenuti invece predilige icone fisse, in grado di ingenerare un effetto maggiore, o alternativo, di straniamento. Alla base dei differenti procedimenti adottati in Salvatore Giuliano e in Segreti di Stato, ci sembra essere il rapporto istituito sempre da Eco già richiamato nel capitolo precedente tra «ratio facilis» (Rosi, il quale ha comunque alle spalle il neorealismo e il magistero viscontiano) e «ratio difficilis» (Benvenuti, che appartiene a una generazione successiva e prende le mosse da altri modelli di rappresentazione cinematografica, dal Rossellini televisivo a Straub-Huillet). Un perfetto esempio di rapporto tra queste due «ratio» lo si trova all’interno dello stesso Segreti di Stato, quando il perito fa notare all’avvocato che i bossoli ritrovati a Portella, a causa delle loro dimensioni, generano “confusione”: il calibro 9 è più piccolo del 6,5. Il calibro e il rapporto sono inversamente proporzionali («ratio difficilis»), contrariamente alle impressioni («ratio facilis»). Sui contadini in festa erano stati sparati e ritrovati proiettili calibro 9 (dalla squadra di Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana), scambiati “facilmente” per 6,5 (effettivamente quelli impiegati dalla squadra di Giuliano). Ragion per cui, conclude il perito: «Il proiettile calibro 6,5 è stato collocato in mezzo agli altri solo per confondere le idee».

Questi diversi indirizzi di stile dimostrano più che mai come il metodo politico-indiziario prescinda da soluzioni formali preordinate, oltre che da premesse di “genere”, adattandosi alle esigenze, pur contrastanti, di messa in scena e in inquadratura orientate, comunque, alla acquisizione progressiva di una verità occultata. Sempre a proposito di Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, su cui giova insistere, il problema della conoscenza si riflette a livello di costruzione del racconto. Se si tiene ben presente quanto appena osservato sulle corrispondenti soluzioni, si capisce la necessità nel film di Rosi, rispetto alla linearità di quello di Benvenuti, di una struttura organizzata secondo la logica non didascalica dei flashback, onde arginare l’impatto realistico delle immagini. 

Segreti di Stato, compiendo un percorso inaugurato da Salvatore Giuliano, ci aiuta oggi, con il senno di poi a ripensare al binomio cinema e politica in Italia, dove l’aggettivo “politico”, accostato al sostantivo “cinema”, desta ancora non poco imbarazzo. Quando si discute di cinema e politica è difficile trovare un comune denominatore, salvo arrendersi all’evidenza, cioè alla disparità dei punti di vista e all’idea consolatoria che ogni film, a suo modo, è politico. Eppure proprio in Italia la connotazione politica dei film ha trovato un sostrato storico insostituibile. Leonardo Sciascia ha scritto: «La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere»

L’assenza di verità politica tutta italiana ha determinato un rapporto intrinseco tra politica e cinema basato sulla possibilità che i film, alcuni film, e gli autori, alcuni autori, possano aver scelto lo schermo, il grande schermo, per cercare una verità attraverso una attenta ricerca e analisi di quegli indizi in grado di restituire anche solo parzialmente e ipoteticamente la verità su una serie di misteri e di segreti. Segreti di Stato. Di fronte a uno Stato che “non può processare se stesso”, ci sono stati film, dai primi anni Cinquanta a oggi, che hanno adottato il metodo indiziario per spingersi oltre la verità istituzionale, oltre gli omissis, oltre le reticenze o gli insabbiamenti. Film «politico-indiziari» che si sono un po’ costituiti parte civile in un processo contro il «deficit di verità». La strage di Portella della Ginestra del 1947, la prima strage di Stato, che come ricordava Sciascia ha creato una sorta di tragico e duraturo indotto, ha anche determinato nel cinema italiano in sessant’anni un interesse senza precedenti, con conseguenze attive sul piano della conoscenza collettiva, storica e politica. Se Salvatore Giuliano ha costituito per decenni un punto di non ritorno sull’argomento, si contano altri otto film, solo italiani, realizzati o rimasti nel limbo della progettualità. Il primo? La terra trema (1948) di Luchino Visconti, che doveva in origine essere un film sulla strage, a ridosso degli avvenimenti. L’ultimo? Per l’appunto, Segreti di Stato, che ha dimostrato didatticamente come la partita sia ancora aperta, sulla scorta di un auspicio di Danilo Dolci: «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage».  

Ha avanzato nuove e allarmanti ipotesi che hanno ribadito quella “sovranità limitata” italiana nello scenario internazionale siglato – per sempre? – dalla spartizione di Yalta del 1943. Nella penultima sequenza del film fatti e personaggi eccellenti vengono accostati come carte da gioco in un inquietante ma realistico solitario. Che il vento (la scomparsa dei fatti istituzionalizzata o l’illusione di essere informati in abbondanza, equivalente simmetrico dell’ignoranza?) provvede a spazzare via.

Paolo Benvenuti è uno storiografo che parla la lingua del cinema. Da questa premessa deriva anche la convinzione, ferma, della possibilità di leggere, o rileggere, l’intera storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri su base rigorosamente documentale, sgombrando anche il campo da strade maestre ideologiche che hanno pesato e pesano da oltre mezzo secolo e solo per inerzia si sono protratte decennio dopo decennio. E soprattutto alla luce di un malessere diffuso, una stizza, una forte delusione, un’inquietudine senza sbocchi, un costante bisogno di beffarsi dei padri o dei fratelli maggiori, unito ad un sottile vena di frustrazione, amarezza o malinconia. Seppure dentro parametri discorsivi cinematografici e soluzioni stilistiche divergenti, sono sintomi riferibili a una svolta tradita, un appuntamento con la storia auspicato, mistificato e mancato, una possibilità incompiuta di realtà aperta e di trasparenza socio-politica che risale agli anni del neorealismo e assume caratteri di lunga durata, comunque si manifestino. Caratteri che hanno generato un sottosistema testuale – e inevitabilmente, per dirla con Bellour, un «sistema inconscio» - in cui si avvicendano forme sparse di continuità e di contrapposizione generazionale, ossessioni ricorrenti, scelte di consenso e atti di negazione dichiarata, gesti liberatori e disperati, fughe, ripetizioni doverose e drastici rifiuti. Ma che partecipano, tutti questi sintomi, nel loro complesso e nella loro complessità, di tale storia. La storia del cinema, certo. Una storia non a circuito chiuso, e in molti punti da riscrivere, che riflette spesso in modo speculare, con le ampie zone di indicibilità, di sentieri smarriti, false piste, analisi puntuali, puntigliose e nel contempo fuorvianti, la storia tout court: la storia segreta italiana o la storia dei segreti italiani, delle ombre, dei misteri, della verità in fieri.

A questo scopo va compreso con effetto attivo e retroattivo il lavoro – e le peculiarità - del fondamentale Segreti di Stato (2003) di Benvenuti, occorre innanzitutto partire da un’analisi comparata con Salvatore Giuliano (1962), il capolavoro di Francesco Rosi che per primo si è occupato della strage del primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra. Diversamente, si corre il rischio di contrapporre un film all’altro. O un autore all’altro, sulla base. Innanzitutto, per dirimere la questione sul piano linguistico, va detto che sia il film di Rosi che quello di Benvenuti agiscono sul piano iconico, del distacco critico e dell’astrazione, non su quello immediatamente riproduttivo. Ciò risulta più chiaro in Segreti di Stato, in cui l’autore evita accuratamente di ricostruire in maniera “realistica” gli eventi. O i cinegiornali. Egli sceglie ogni sorta di rielaborazione iconica che dia l’idea dell’artificio e dell’interpretazione: i disegni monocolore e contornati su carta o sulla lavagna, i plastici, lo specchio, le fotografie-carte, oggetti come gli accendini o le sigarette disposti su un tavolo del carcere o sulla scrivania del professore in modo da restituire le posizioni di chi sparò a Portella. E sin dall’incipit del suo film su Portella esibisce, come Welles nella sequenza del cinegiornale News on the March di Quarto potere (Citizen Kane 1941), l’«enunciazione simulata». Benvenuti insomma marca le distanze dalla realtà ostentando la ricostruzione cinematografica dei fatti compiuta dai cinegiornali come pratica discorsiva menzognera. Le differenze tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato riguardano il particolare approccio iconologico ai fatti rievocati. Il grado, questo sì: diverso, di astrazione. Si può dire che Rosi scelga icone di tipo realistico, dinamiche, quelle che Eco definisce icone «temporate». E provvede, anche con interventi antifrastici, come si è visto, a contraddire lo stesso effetto di realtà che tali icone dotate di movimento evocano nello spettatore. Benvenuti invece predilige icone fisse, in grado di ingenerare un effetto maggiore, o alternativo, di straniamento. Alla base dei differenti procedimenti adottati in Salvatore Giuliano e in Segreti di Stato, ci sembra essere il rapporto istituito sempre da Eco già richiamato nel capitolo precedente tra «ratio facilis» (Rosi, il quale ha comunque alle spalle il neorealismo e il magistero viscontiano) e «ratio difficilis» (Benvenuti, che appartiene a una generazione successiva e prende le mosse da altri modelli di rappresentazione cinematografica, dal Rossellini televisivo a Straub-Huillet). Un perfetto esempio di rapporto tra queste due «ratio» lo si trova all’interno dello stesso Segreti di Stato, quando il perito fa notare all’avvocato che i bossoli ritrovati a Portella, a causa delle loro dimensioni, generano “confusione”: il calibro 9 è più piccolo del 6,5. Il calibro e il rapporto sono inversamente proporzionali («ratio difficilis»), contrariamente alle impressioni («ratio facilis»). Sui contadini in festa erano stati sparati e ritrovati proiettili calibro 9 (dalla squadra di Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana), scambiati “facilmente” per 6,5 (effettivamente quelli impiegati dalla squadra di Giuliano). Ragion per cui, conclude il perito: «Il proiettile calibro 6,5 è stato collocato in mezzo agli altri solo per confondere le idee».

Questi diversi indirizzi di stile dimostrano più che mai come il metodo politico-indiziario prescinda da soluzioni formali preordinate, oltre che da premesse di “genere”, adattandosi alle esigenze, pur contrastanti, di messa in scena e in inquadratura orientate, comunque, alla acquisizione progressiva di una verità occultata. Sempre a proposito di Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, su cui giova insistere, il problema della conoscenza si riflette a livello di costruzione del racconto. Se si tiene ben presente quanto appena osservato sulle corrispondenti soluzioni, si capisce la necessità nel film di Rosi, rispetto alla linearità di quello di Benvenuti, di una struttura organizzata secondo la logica non didascalica dei flashback, onde arginare l’impatto realistico delle immagini. 

Segreti di Stato, compiendo un percorso inaugurato da Salvatore Giuliano, ci aiuta oggi, con il senno di poi a ripensare al binomio cinema e politica in Italia, dove l’aggettivo “politico”, accostato al sostantivo “cinema”, desta ancora non poco imbarazzo. Quando si discute di cinema e politica è difficile trovare un comune denominatore, salvo arrendersi all’evidenza, cioè alla disparità dei punti di vista e all’idea consolatoria che ogni film, a suo modo, è politico. Eppure proprio in Italia la connotazione politica dei film ha trovato un sostrato storico insostituibile. Leonardo Sciascia ha scritto: «La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere»

L’assenza di verità politica tutta italiana ha determinato un rapporto intrinseco tra politica e cinema basato sulla possibilità che i film, alcuni film, e gli autori, alcuni autori, possano aver scelto lo schermo, il grande schermo, per cercare una verità attraverso una attenta ricerca e analisi di quegli indizi in grado di restituire anche solo parzialmente e ipoteticamente la verità su una serie di misteri e di segreti. Segreti di Stato. Di fronte a uno Stato che “non può processare se stesso”, ci sono stati film, dai primi anni Cinquanta a oggi, che hanno adottato il metodo indiziario per spingersi oltre la verità istituzionale, oltre gli omissis, oltre le reticenze o gli insabbiamenti. Film «politico-indiziari» che si sono un po’ costituiti parte civile in un processo contro il «deficit di verità». La strage di Portella della Ginestra del 1947, la prima strage di Stato, che come ricordava Sciascia ha creato una sorta di tragico e duraturo indotto, ha anche determinato nel cinema italiano in sessant’anni un interesse senza precedenti, con conseguenze attive sul piano della conoscenza collettiva, storica e politica. Se Salvatore Giuliano ha costituito per decenni un punto di non ritorno sull’argomento, si contano altri otto film, solo italiani, realizzati o rimasti nel limbo della progettualità. Il primo? La terra trema (1948) di Luchino Visconti, che doveva in origine essere un film sulla strage, a ridosso degli avvenimenti. L’ultimo? Per l’appunto, Segreti di Stato, che ha dimostrato didatticamente come la partita sia ancora aperta, sulla scorta di un auspicio di Danilo Dolci: «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage».  

Ha avanzato nuove e allarmanti ipotesi che hanno ribadito quella “sovranità limitata” italiana nello scenario internazionale siglato – per sempre? – dalla spartizione di Yalta del 1943. Nella penultima sequenza del film fatti e personaggi eccellenti vengono accostati come carte da gioco in un inquietante ma realistico solitario. Che il vento (la scomparsa dei fatti istituzionalizzata o l’illusione di essere informati in abbondanza, equivalente simmetrico dell’ignoranza?) provvede a spazzare via.

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