Il cinema di Susanna Nicchiarelli è il palinsesto, così evidente, icastico, dell'evoluzione di una poetica: all'inizio magari ancora incerta, invischiata nei processi di una narrazione corriva; poi, da Nico in poi, sorprendentemente inspessita di contrappunti, chiaroscuri, assunti. Processo che giunge alla definitiva maturazione con Miss Marx in cui la sostanza, la dimensione dell'immagine acquista una preminenza sulla narrazione, mostrando le ombre delle cose e degli esseri, che si fanno anche ombre psicologiche: come intercapedini d'aria adombrata che si frappongono tra le figure contrastando la comunicazione.

Se ne evince un'atmosfera di solitudine, non solo delle persone, e specificamente Nico, Eleanor, ecc., ma proprio degli oggetti, degli scorci, ammutoliti, latenti, come persi nel proprio destino di penombra: dal quale attingono una forza istintuale, originaria, che si sprigiona però da quegli stessi oggetti, dall’inchiostro sui fogli ingialliti, dal giardino dissestato, dai vortici dei capelli nella danza; sempre, tutti, messi lì, inseriti nel quadro come impressioni, macchie di colore a doppio registro, a mostrare questa dicotomia tragica, nel controcampo, appunto, del possibile, dell’umbratile che si fa luce – folgorante, prima del finale, il sole radiante dal pallore di Eleanor, dagli occhi quieti, dalla voce lenta, gentile, calma, dalla fantasia composta delle vesti: apparsa così, questa donna che è il nodo di una contraddizione in atto, ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà, emblema di  tutte le lotte e tutte le conquiste e tutte le ideologie, che sta per scomparire, della quale intuiamo che qualcosa rimane, ancora, nella dimensione, appunto, del visibile, in quel raggio d’azione che Susanna Nicchiarelli omette, rilevando ciò che non c’è all’interno del campo ma fuori, nella parte tenuta al riparo dall’obiettivo –  camera d’aria che si sposta in assenza d’aria, e si vedono la stanza vuota e il cane, la domestica che intuisce, che trema.

Così, ad esempio, potrebbero essere lette come duali scene nelle quali Eleanor esce dalla fabbrica, la macchina da presa la inquadra stretta sul volto, per allargare la visione poi di fronte a lei, dove luccicano due pupille taglienti nella folla anonima: si fa spazio la Nicchiarelli con lo sguardo di Miss Marx in mezzo agli individui che la donna crede di proteggere, per i quali crede di battersi (portando avanti l’eredità paterna di quel sogno di giustizia e di felicità che la accompagna da bambina), attraversa i vicoli stretti seguendo quei passi decisi, arriva alla luce fioca di una baracca, al seno che sanguina  rinsecchito della madre, al pianto devastante, affamato del neonato. È anche questa “ombra”, presa di coscienza che cercare di «aiutare» non basta, il risvolto delle ideologie, lato nascosto, grido sepolto: ed è questa estetica del controcampo a percorrere il cinema di Susanna Nicchiarelli come scelta di porre all’attenzione dello spettatore la complessità del vivere e del guardare e del guardarsi vivere, con le debolezze e gli interrogativi propri ed altrui, nella ricerca costante di un motivo per essere amati, mediante la costruzione di un’identità dell’immagine contraddittoria, stratificata, al ritmo dell’evoluzione delle cose, dell’umano, sia che esso guardi col naso all’insù la magia della lanterna magica nei colletti inamidati, sia che si veda oggetto di un film da altri imposto, soprattutto quando a morire, per primi, sono i sentimenti che fino a un momento prima avevano retto il peso del sopportabile, del vivibile.

Un’estetica della dilatazione dei punti di vista, del dissesto emotivo che si riversa come un temporale sulla lettera che Tussy legge, tra i capelli che libera, disarticolata, terribilmente nuova e diversa come la musica vorticosa che arriva dal futuro e che le si propaga come fiamma battente dal lino della camicetta sottile: a fior di pelle e d’occhi.

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