Appartiene agli amanti, la notte, come cantava Patti Smith in un brano molto noto donatole da Springsteen, non a caso innestato sulle immagini di quella prodigiosa fantasticheria erotico-subacquea del comandante Jean in L’Atalante che ha aperto per vent’anni Fuori orario. La notte, la “sacra, ineffabile, misteriosa notte” cui Novalis ha rivolto i suoi Inni e Jarmusch rimesso l’arte e l’amore dei suoi vampiri (la musica underground di Adam, i libri di Eve in Only Lovers Left Alive). È in questa dimensione, in questo regno grondante di desiderio, di musica, di poesia e di fantasmi, che si consuma L'Âge atomique di Héléna Klotz. Che inizia con il buio fuori dai finestrini di un treno in movimento verso Parigi, il vagone stipato della forza d’attrazione tra due giovani uomini che parlano appunto di pezzi da ascoltare e degli Stone Roses, dopo che una stralunante versione elettronica di In the ghetto si è impossessata per qualche istante della scena, smaterializzandola. 

       

Perché è questo che accomuna la musica e la notte, l’immaterialità, la vaghezza, l’indistinzione e l’impalpabilità, che già Leopardi poneva alla base della poeticità stessa del notturno. Klotz deve averla ritrovata spesso nelle prose e nei versi degli autori del Romanticismo tedesco (Novalis in primis), a cui per sua stessa ammissione è giunta – dolcissima ironia delle ironie – proprio attraverso la musica (e in particolare con Fragmente-Stille, an Diotima di Luigi Nono, una composizione per quartetto d’archi costruita sui frammenti poetici di Hölderlin e intitolata alla donna amata da Iperione nell’omonimo romanzo epistolare).

Del resto è dalla letteratura romantica che vengono le principali intuizioni narrativo-concettuali alla base di L'Âge atomique, ovvero il rapporto iniziatico tra due giovani e l’amore lontano (“l’amore del remoto” che Nietzsche esalta in Così parlò Zarathustra), inteso come difficile da coronare, da raggiungere, sia nella declinazione eterosessuale che in quella omoerotica, entrambe contemplate dal film. Ed è a certi poeti romantici che fa pensare il personaggio di Rainer (altro riferimento letterario, stavolta a Rilke, che molto deve alla linea più orfica del Romanticismo, soprattutto ad Hölderlin).     

La gioventù sua e di Victor – età che è meta privilegiata del nostalgico romantico e a cui Héléna Klotz ha dichiarato di voler dedicare una trilogia, inaugurata proprio da quest’opera – porta fisiologicamente con sé e dentro di sé la poesia della notte, il suo idealismo e il suo terrore di tenebra (Dino Campana, altro orfico convinto, ne direbbe “il canto”). Ed è anche l’età dell’infatuazione per la letteratura e la musica, in cui si avverte con particolare partecipazione e intensità il pulsare delle cose, l’emozione, in una continua tensione verso l’espressione artistica, campo di rappresentazione dell’assoluto e dell’umano, da un lato utilizzato come vero e proprio strumento di comunicazione, dall’altro indagato famelicamente nelle forme che la sua storia e stratificazione hanno via via determinato.

In questo senso è giusto parlare, nel caso di Klotz, di una vera e propria educazione sentimentale all’arte da parte della sua famiglia (il padre Nicholas è un regista, la madre, co-scrittrice del film, è attrice, sceneggiatrice e cineasta, il fratello Ulysse, autore delle musiche di L'Âge atomique, compositore). Azione formativa che non si è limitata a forgiare e stimolare sensibilità, gusto estetico e orizzonte culturale dei componenti del nucleo famigliare, ma che si è tradotta nella sistematica partecipazione dell’uno ai lavori degli altri.

C’è, in questa magmatica comunione tra musica, poesia e letteratura, in questa predilezione per le atmosfere notturne, per il lirismo e la dimensione onirica, una precisa ricerca che si inserisce nel solco del Carax di Holy Motors e per certi versi inaugura quel cinema “infiammato” che è di Gonzales, Mandico, Poggi e Vinel, così definito dai suoi stessi autori per mezzo di un vero e proprio manifesto apparso di recente sui Cahiers du cinéma.

Un cinema inquieto e sognante, orgogliosamente alogico e sregolato, i cui tempi, ritmi, spazi, gesti, non sono dettati da una ottusa aderenza al reale, ma piuttosto dall’abbandono alla musica, all’intuizione poetica, ai sensi.  

Ne è prova il finale stesso di L'Âge atomique, con questo smarrimento in campo lungo dei due amici protagonisti, vaganti nel quadro impressionista di una radura buia, fosca, caliginosa, tra gli alberi inquieti, svigoriti e scarnificati da quella nevrosi che è l’attesa della primavera, in una perfetta corrispondenza di forme esteriori e stati interiori.

Qui, nel passaggio dalla mondanità urbana alla quiete spettrale e metafisica della natura (con tinte gotiche mirabilmente potenziate dalle musiche funeree di Ulysse), dalla città al bosco, dalle luci multicolore della discoteca e dell’urbe a quella pallida e argentea della luna, si compie con una certa evidenza l’oggettivazione della soggettività, tanto cara a molti artisti francesi dell’Ottocento, in particolare ai simbolisti, che, al pari dei romantici tedeschi, hanno profondamente influenzato questo cinéma enflammé.

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