C’è una scena, in questo Joker di Todd Phillips, che è tanto ingiustificata e singolare sul piano del racconto (non aggiunge cioè nulla, né all’intreccio, né alla caratterizzazione del suo protagonista) quanto significativa su quello paratestuale, rivelatrice com’è del senso forse più profondo del film, svelato poi anche da tutta un’altra serie di scelte, che investono non solo la scrittura e il montaggio ma anche la direzione attoriale, il production design, l’impianto visivo. Si tratta di una ripresa di pochi secondi, in campo lunghissimo, delle strade di New York-Gotham City viste dall’alto. Come è naturale che sia per un’inquadratura di questo tipo è l’ambiente a dominare, non ci sono personaggi o volti umani riconoscibili, ma solo automobili che transitano su una normalissima strada metropolitana, irrilevante nell’economia narrativa.

Due taxi, anch’essi anonimi e in nessun modo legati alla storia, fanno tuonare il clacson all’indirizzo dei passanti, senza che essi stiano realmente ostacolando la loro
marcia: è un atto del tutto gratuito, pura apoteosi del rumore, la sintesi simbolica e la summa delle forme di molestia cui una città può sottoporre i suoi cittadini. Pur avendo delle cause strutturali rilevanti e (sempre) attuali – la disoccupazione, l’esclusione sociale, lo smantellamento del welfare, l’assenza di una politica realmente vicina alla gente comune –, l’ostilità di Gotham City appare per certi versi talmente gratuita, pervasiva, orizzontale, da risultare assoluta, inesorabile, ineludibile. E questa malevolenza – dello spazio urbano e di chi lo anima, da amministratore o semplice abitante, potente o impotente, ricco o povero –, unitamente al vissuto difficile e alla salute mentale già compromessa del protagonista, non può che svolgere un ruolo cruciale nell’insorgere della follia omicida di Arthur Fleck e nella sua progressiva metamorfosi in Joker. Più che un film su Joker, inteso come villain protagonista di un preciso storytelling con ormai ottant’anni di storia (da cui è infatti del tutto svincolato), quello di Phillips è un film sul diventare Joker, con tutte le sue implicazioni metaforiche; una feroce rappresentazione della mancanza di empatia, dell’insensibilità e della crudeltà con cui buona fetta della società tende a trattare i suoi membri più vulnerabili, avvelenandone le menti e alimentandone il senso di alienazione e isolamento. In questo, Joker si mostra fortemente in linea e in debito con grandi character study del passato, da Taxi Driver a Serpico, che non a caso figurano tra le influenze citate dal regista.

Phillips è molto attento a mescolare con equilibrio queste forze – il malessere sociale, l’influenza dell’ambiente sulla psiche, i traumi personali, la malattia mentale – riuscendo perfettamente a restituire allo spettatore la complessità multifattoriale e il sottile processo di maturazione dietro la nascita del Joker. A Phoenix il compito, magistralmente portato a termine, di dar corpo, voce e sostanza a tanta stratificata materia umana, condensata nella figura del clown assassino. Con un lavoro a dir poco impressionante che rimarrà senza dubbio nella grande storia del cinema.

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