Paterson, New Jersey. Le vecchie filande in mattoni rossi di Paterson; la Union Works, tra Spruce Street e Market Street, di Paterson; le Grandi Cascate del fiume Passaic di Paterson; il deposito degli autobus di Paterson; gli incroci delle strade di Paterson; Paterson di Paterson.

Ci aiuta, l’epifora, che potrebbe essere anafora o simploche, poco importa, a restituire in forma scritta quello che Jarmusch fa con l’audiovisivo in Paterson: litaniare la città. Evocare con la litania della parola (o, in questo caso, del visivo) con la ripetizione e l’evocazione diretta, disintermediata, la materia dietro lo spirito, l’immagine dietro l’idea, il referente oltre il segno, la città dietro il panorama. La Paterson di Jarmusch è l’opposto della Tamara di Calvino: non è qualcosa che resta sepolta sotto un “involucro di segni”, da cui uscire senza averla conosciuta. Non esiste in funzione di, nella vaga sembianza di un’altra qualunque città. É fatta di Paterson stessa.

Che è poi ciò che William Carlos Williams sosteneva nelle prime pagine del suo poema omonimo e che lo distingueva dai colleghi imagisti a lui contemporanei, come Eliot e Pound, più classicisti ed eurocentrici, rendendolo profondamente, inequivocabilmente americano: il convincimento intimo e profondo che idee e cose siano inestricabilmente legate tra loro, che la città americana non possa che darsi solo ed esclusivamente nel suo essere esperita come cosa («No ideas but in things», è il verso estrapolato dal Paterson di Williams che sintetizza meglio il suo credo anti-simbolista, anti-astrattista).

La questione su come rappresentare non solo la città in generale ma la città americana in particolare era uno dei moventi principali, se non il proposito centrale, di Williams, la cui arte poetica era fortemente influenzata dalle arti visive e dal contatto con le avanguardie europee. L’obiettivo del poeta della città non deve essere quello di dominare la molteplicità del suo ingombrante soggetto, di fare ordine a partire dalla sua confusione, ma piuttosto liberare i materiali urbani dalle imposizioni della forma e del linguaggio, restituirle in forma diretta, nitida, immediata e visiva. Poesia e immagine. Poesia è immagine; spogliata d’ogni sentimentalizzazione romantica o costruzione discorsiva; come il William Blake/Johnny Depp di Dead Man, che viene aiutato da Nessuno a spogliarsi della sua identità socialmente coartata, costruita appunto, fino a trasformarsi da goffo contabile di città in uomo risoluto e istintivo, animalesco e selvaggio, capace di ricorrere persino alla violenza omicida.

Del resto Jarmusch è forse il regista statunitense che più ha riflettuto sull’identità americana, su quanto essa sia, come riteneva Baudrillard, figlia di un’idea, di una finzione, di simulacri e iperrealtà. Si pensi, ad esempio, al Bob di Down by Law, l’italiano interpretato da Benigni, e a quanto la sua visione dell’America sia irrevocabilmente condizionata, se non proprio sostituita, dall’immagine che di essa gli hanno indotto i poemi, la letteratura, i film; la fiction, appunto. Nei film di Jarmusch gli europei o i giapponesi hanno sempre una percezione diversa della realtà americana rispetto agli americani stessi; con questi ultimi che sono inconsapevoli, come teorizzato dal filosofo francese, della simulazione, essendo parte di essa. Già in Mistery Train una coppia di giovani giapponesi, Jun e Mitzuko, arrivano a Memphis per seguire le orme mitiche, il mitologema, dei propri idoli, Elvis Presley e Carl Perkins, vestiti entrambi in foggia anni ’50: si comportano come se credessero che la simulazione generata dai media fosse reale, ma ben presto si rendono conto che così non è.

Nel finale di Paterson, l’uomo giapponese che siede accanto all’autista di autobus interpretato da Adam Driver di fronte alle cascate del fiume Passaic (vero e proprio landmark di Paterson, nel senso che il grande urbanista Kevin Lynch attribuiva a questo termine, come un luogo capace di orientare l’immagine stessa della città) porta con sé una copia del poema di Williams e dice di aver viaggiato da Osaka fino a Paterson, New Jersey, per vedere la città dell’autore e di un altro grande poeta: Allen Ginsberg. Questo turista vede nella provincia americana, e in particolare nella città della seta (silk city, com’era chiamata nel XIX secolo, quando aveva un ruolo molto rilevante nella rivoluzione industriale statunitense e vi si produceva una seta rinomata) ciò che di essa scrivono i suoi poeti. Mentre l’autista autoctono ne ha esperienza diretta, guida il bus tra le sue strade sonnecchiose, vi porta a spasso il cane, frequenta regolarmente il suo bar. E solo poi, ne scrive in versi. Tant’è che alla domanda posta dall’uomo orientale, che gli chiede se sia o meno un poeta di Paterson, New Jersey, lui risponde di essere soltanto un autista di autobus.

Il modo stesso di filmare, tipico di Jarmusch , “lento” e disinteressato al plot (la narrazione spesso si ferma, si prende il tempo, il montaggio mostra spazi e oggetti), fa apparire la città in tutta la sua normalità, quotidianità, sobrietà e ordinaria fierezza (come i fiammiferi descritti nella poesia scritta dal protagonista); nei suoi incroci insignificanti, nei marciapiedi, nella segnaletica orizzontale e verticale, nei pali dell'illuminazione. Paterson è, molto semplicemente, un film su una città e su un poeta della classe operaia.

Dal racconto di Jarmusch emerge una citta postindustriale atipica, senza tecnologia disintegrante, ma fatta di natura (le cascate) e umanità, di memoria (i cittadini illustri di Paterson e il wall of fame nel bar che il protagonista frequenta). Rappresenta un’altra idea di città, rispetto a quella del futuro. L’autista stesso che sta al centro della narrazione non è un esponente dell’industria dell’informazione, dei media, della tecnologia, dell’informatica, dello spettacolo, della robotica – i tipici settori postindustriali –, né è un intellettuale che lavora sull’immaginario, sull’immateriale. È un blue collar, un uomo della classe lavoratrice. E considerando che negli Stati Uniti i white collar, i colletti bianchi, hanno superato in numero i collari blu nel 1956 e che il quarto libro di Paterson fu pubblicato nel 1951, è chiaro che la Paterson di William Carlos Williams – e quindi quella a cui è interessato e che inserisce, en abyme, Jarmusch , – è proprio quella dei blue collar.

Una Paterson apparentemente ferma all’era analogica, in cui il pranzo si porta ancora nel classico Stanley launchbox di metallo, le foto sono stampate, i taccuini di carta, l’inchiostro vince sui pixel. Il protagonista del film non possiede un cellulare, vive una vita ostinatamente fuori dalla tecnologia. Persino la cabina telefonica che gli servirebbe per chiamare la ditta per avvisare di un guasto sull’autobus è devastata, inutilizzabile. Le sue giornate sono fatte di conversazioni, non di chat, videochiamate, social media. È questa la città – e la vita – di cui parla Jarmusch . Che infatti omaggia gli «old scary movies», come li chiamano i protagonisti, quando vanno al cinema del centro commerciale e gli tocca Island of Lost Souls, un film del 1932, ovviamente in bianco e nero (la monocromia è la fissazione della moglie di Paterson, Laura). «It’s like we’re in the twentieth century», dirà proprio Laura, eccitata all’idea di guardare un film al cinema.

A ben guardare questo è quanto Jarmusch ha fatto per tutta la sua produzione, da Stranger Than Paradise a Only Lovers left alone: costruire un argine contro l’età digitale. La vita dei suoi vampiri è fatta di libri, vinili, vecchie case, abiti polverosi, persino proiettili di legno e vecchie chitarre Gibson; esattamente come la vita di Paterson è fatta di autobus, strade, birre, chiacchierate, parole d’inchiostro; e ancora, fiammiferi, un orologio da polso, una sedia, poltrone, una tazza di latte e cereali, tende, sandwich. E soprattutto persone: la donna amata, i colleghi, gli amici, il bartender. E luoghi, da frequentare, osservare, vivere, non certo da fotografare distrattamente con i dispositivi mobili, da rinchiudere nel piccolo schermo digitale di uno smartphone. Jarmusch crede nella fisicità della città e delle cose, in cui il tempo e lo spazio si condensano in una forma cristallina, in un concentrato di vita, di vissuto (l'uso, i ricordi, i tocchi).

La sua città è un organismo vivente e l’uomo è, in sé, una città. Nelle note d’autore all’edizione del 1951, Wiliams scrisse che Paterson parla del fatto che un uomo è se stesso una città, che comincia, cerca, realizza e conclude la sua vita nei modi in cui i vari aspetti della città possono incarnarli e che ogni dettaglio di questa città può essere fatto per dare voce alle proprie convinzioni più intime. («A man in himself is a city, beginning, seeking, achieving and concluding his life in ways which the various aspects of a city may embody — if imaginatively conceived — any city, all the details of which may be made to voice his most intimate connections»).

È proprio in questa sovrapposizione analogica, non convertita, non tradotta, in questa corrispondenza spontanea tra natura e uomo, tra città e abitante, tra idee e cose, che credono Williams e Jarmusch . Certo non nei formalismi o virtuosimi di penna o macchina da presa, nelle grandi costruzioni o ricostruzioni, negli apparati produttivi. C’è infatti un’altra questione, produttiva ed economica, che impatta sul modo in cui viene raffigurata la città nel suo cinema: Jarmusch non ha mai smesso di cercare un’alternativa ai modi di rappresentazione e produzione tipici della grande industria hollywoodiana e questo lo ha portato ad usare lo spazio in modo differente. Limitati dal budget, i registi indipendenti come lui hanno spesso sviluppato dei legami particolari con città e luoghi a loro vicini (Linklater e Austin, in Texas, per esempio) basando i loro mondi di finzione sulla specificità di un posto. Se il blockbuster è tendenzialmente cosmopolita, transnazionale e rivolto ad un mercato globalizzato, il cinema indipendente è spesso legato a mondi diegetici ben localizzati, già definiti nel titolo (oltre a Paterson si pensi a Manchester by the sea, ad esempio).

Ovviamente questo non significa che il film debba essere un documento sociale, un documentario in cui nulla è “immaginato”: è vero che Paterson è girato quasi interamente a Paterson ma ci sono pochissime eccezioni che ne mettono in chiaro la finalità non certo documentale. La casa del protagonista del film è in realtà situata a Yonkers e il bar nel Queens. Jarmusch ha ricostruito alcuni luoghi della sua Paterson filmica nella sua New York (dove ha studiato e dove vive). Che è un po’, ironicamente, il contrario di ciò che ha fatto Spielberg per il suo West Side Story da 100 milioni di dollari di budget (Paterson è costato, per confronto, 5 milioni). E cioè ricostruire a Paterson la New York anni ’50 del film. Cosa quantomeno ironica se si recupera ciò che Jarmusch dichiarò a proposito del collega in un’intervista a Rolling Stones, in cui ammetteva di avere dei “problemi” con Spielberg perché fa «film alla Walt Disney» in cui è «riprovevole che dia per scontato che ognuno sia bianco, borghese e con le stesse aspirazioni». Come scritto all’inizio, la Paterson di Jarmusch è fatta di Paterson stessa. E del suo autista di autobus, del suo poeta lavoratore, del suo lavoratore poeta, di ordinarietà in versi, di versi sull’ordinarietà di una città e di un uomo, di un uomo e della sua città. Paterson, New Jersey.

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