Se l’esperienza estetica è la più alta forma possibile di interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che li circonda – come ha magistralmente teorizzato John Dewey nel suo testo più noto, Arte come esperienza –, allora potremmo dire che L’expérience Zola, l’ultimo film di Gianluca Matarrese, ne è una sorta di prova audiovisiva, un’attestazione rivelatrice.

Perché l’opera del regista torinese, presentata come evento speciale alle Giornate degli Autori nell'ambito dell'80a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, è anzitutto un processo esperienziale, un flusso in cui sia i realizzatori che gli spettatori possono sperimentare liberamente il compimento delle dinamiche sensoriali ed emotive che ci fanno uomini e che si fanno, quando sono colte, coltivate nei giusti solchi di sguardo, arte. Senza demarcazioni di sorta: tra il dentro e il fuori, messa in scena e set, finzione e realtà, iniziatori e destinatari dell’atto creativo.

È questo il tratto forse più interessante de L’Expérience Zola: che l’esperienza cui il titolo allude coincide esattamente con l’opera, è l’opera, si converte in oggetto d’arte cinematografica man mano che si compie. Poiché per precisa volontà metodologica, epistemologica persino, non è confinata al di qua dello schermo, non segna e trasforma soltanto i personaggi ma si imprime sugli interpreti e sull’autore stesso, che non si sottrae affatto al campo di forza generato dal processo di costruzione, ma ne esplicita l’appartenenza, la totale compartecipazione di mente e corpo, fino a mostrarsi direttamente allo spettatore.     

Matarrese non si limita a filmare i suoi amici Anne, regista teatrale e attrice, e Benoît , attore, mentre si immergono nel lavoro di preparazione di uno spettacolo tratto da L’assomoir di Zola, ma spariglia le carte, inserendo all’interno dell’impianto documentaristico scene d’invenzione che rendono labilissimo il confine tra realtà e finzione, finché i due personaggi sembrano davvero ripercorrere esattamente tutti i passaggi della storia dei suoi protagonisti, Gervaise e Coupeau.

La struttura del film si configura, quindi, come un processo di scambio, una dialettica tra due linee narrativo-esistenziali: quella dello spettacolo sul palco e quella degli attori dietro le quinte, dove si possono cogliere momenti di pura ricerca e tensione, la verità mutevole del sentire, delle paure, dei desideri, dei corpi che fremono, annaspano, beccheggiano alla ricerca di senso nel caos del divenire.

È qui, esattamente qui, in questa sostanza viscosa, magmatica, che ribolle di pulsazioni, di convulsioni, di disperata umanità, che Matarrese immerge il suo dispositivo di scandagliamento, una macchina da presa a mano che resta tanto abbarbicata ai personaggi (in particolare ad Anne) da escludere tutto il resto, tra primi-primissimi piani e scarsa profondità di campo. Un filmare intimo che coglie da vicino i moti ora ascendenti ora catabatici dell’animo umano, senza salvare od opprimere nessuno, ma aprendo squarci nella complessità del sentire, nella febbre dell’esistere che tanto interessava al riferimento ideale ed esplicito dell’opera: Zola. Che in una delle prime pagine di Mes haines scriveva: «Je n'ai guère de souci de beauté ni de perfection... Je n'ai souci que de vie, de lutte, de fièvre».

Sia Matarrese che Anne Bardot, conosciutisi durante gli anni di formazione alla scuola di teatro Jacques Lecoq, procedono allo stesso modo nei propri rispettivi ambiti: sono attratti dalle ferite, dalle lotte (tornando nuovamente a Zola e ai suoi odi, l’autore del J’accuse scriveva che «le lotte sono i balbettii della nascita»). E il modo in cui esse possono, o meglio devono, emergere è attraverso un’arte partecipata, fatta di interazioni e improvvisazioni; metodologia che entrambi hanno appreso proprio alla scuola di teatro in cui si sono formati e di cui nel film vediamo chiaramente modalità ed esiti perché Matarrese sceglie di mostrarci i laboratori tenuti da Anne.

È nella dinamica di coppia – la fine di un rapporto e l’inizio di un altro, l’innamoramento, il primo bacio, le collisioni e la ricerca dell’equilibrio, la speranza di un futuro felice – che l’autore di L’expérience Zola osserva, senza teoria ma nello svolgimento pragmatico, materico delle cose, l’agire dei grandi temi zoliani: il modo in cui le pressioni esterne del lavoro e della vita incidono sul rapporto, l’eredità della sofferenza sui figli (si pensi a Nanà), la condizione di lavoro e la fragilità sociale-esistenziale sugli individui (se Coupeau è un copritetto che si ritrova senza salario dopo un incidente sul lavoro, allo stesso tempo Benoit è un lavoratore dello spettacolo che si ritrova fuori dal teatro, nei meandri del sistema previdenziale per poter chiedere un indennizzo per l’infortunio che ha subito).

Quello delle condizioni di lavoro contemporanee e della precarietà economico-sociale, in particolare, sembra essere un filo conduttore nella pratica cinematografica di Matarrese, che riconduce questo interesse a vicende biografiche, famigliari, al declino sociale vissuto in famiglia e perfettamente raccontato in Fuori Tutto, documentario che nel 2019 gli è valso il premio per miglior film nella sezione TFFDoc – Italiana.doc del Torino Film Festival.

La decadenza, dunque; il decadimento. Il passaggio da uno stato fisico-atomico-nucleare-esistenziale all’altro, dalla stabilità all’instabilità e viceversa, con relativa emissione di quelle sfolgoranti particelle di pura vitalità che proprio nelle transizioni, nell’energia assorbita o ceduta, sono generate e rifulgono.

È la vita che si imprime sui volti, sui corpi, sulle case, sopra e fuori dai palchi, dai set. La vita del lavoro e della smania, la vita che si alza e poi precipita e poi, forse, si (ri)alza ancora.

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