«On n'aime que ce en quoi on poursuit quelque chose d'inaccessible. On n'aime que ce qu'on ne possède pas». Non può esserci amore, secondo la celebre asserzione proustiana contenuta nella Recherche, se non in ciò che non si possiede, in ciò che è impenetrato, irrisolto, indecifrato.

È attorno a questa ontologia della contingenza che si affastella, e cioè si raccoglie in libertà, senz’essere granitico, monolitico, ma anzi con ariosità estrema e disinvoltura, Albertine Where Are You, cortometraggio della regista pugliese Maria Guidone, che proprio dal magnum opus di Proust, e in particolare dal personaggio di Albertine – dietro cui si sarebbe celato, secondo la cosiddetta teoria della trasposizione, l’autista di Proust, Alfred Agostinelli – trae fondamentale ispirazione. Le pagine del romanzo e la storia autobiografica del suo autore diventano così il pretesto per parlare dell’amore e della sua inafferrabilità, della fluidità dei desideri, dei generi, dei ruoli. Una transitorietà che si inscrive pienamente anche nella forma stessa di questo cortometraggio, nella sua materialità degradabile, fatta di pellicola 16mm e sfocature, di movimento dell’immagine e nell’immagine, di raccordi di montaggio liberi da condizionamenti narrativi, delle musiche strabordanti di Jakob Skott e dei Papir (per le quali ha fatto da editor e supervisore Luigi Abiusi).

C’è in Albertine where are you, una tendenza all’impressionismo, a procedere per frammenti e intuizioni, per affioramenti; perché ogni cosa, ogni fenomeno, ha un nucleo misterioso che resta imprendibile e sepolto, e ci si può inoltrare, in questa spedizione – che è della mente, dell’anima e del corpo assieme –, soltanto avanzando per sprazzi, poeticamente, prescindendo da prosaiche coordinate temporali e spaziali. Frammentarietà, si diceva, che sta anche nei testi letti in inglese dalla voce over di Alessandra Carrillo, rivenienti da una plaquette del 2014 dedicata proprio al personaggio di Albertine. A cui si aggiungono le frasi pronunciate in francese che vengono invece direttamente dall’opera proustiana.

Che viene filmata nella sua materialità di pubblicazione su carta, di inchiostro su pagina, di parole finanche sottolineate, vissute. Come se la carta stampata e l’immagine in pellicola fossero fatte della stessa sostanza deperibile e infiammabile, come se all’intertestualità e all’intersezione dei linguaggi tra letteratura e cinema si accompagnasse la loro compenetrazione materica. È un’estetica all’insegna dell’ibridazione quella di Guidone, che viene dalla ricerca in ambito filosofico e dallo studio delle pratiche cinematografiche, ma anche dai documentari d’arte e dal mondo pubblicitario. In essa convivono soluzioni formali e spunti provenienti da mondi differenti ma perfettamente amalgamati attraverso una regia che non a caso è stata apprezzata e premiata dalla giuria della settimana edizione della Sic@Sic, la sezione della Settimana Internazionale della Critica dedicata ai corti italiani. Un motivo in più per aspettare con trepidazione un futuro, auspicabile esordio nel lungometraggio da parte della regista pugliese.

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