«[…] Girati, e non importa quanto lontano andrai, tornerò qui […]»

Amir Eid, Cairokee, Ya Abyad Ya Eswed

La tensione alla conoscenza che il processo interno alla memoria genera, inserendosi in quella che si potrebbe definire un’ontogenesi dell’immagine – e da lì diventa traccia, principio: ἀρχή, fondamento di tutte le cose – percorre tutta la poliedrica produzione di Mario Martone da molto tempo, quando già opere teatrali come I Persiani di Eschilo, rappresentata al Teatro Greco di Siracusa con musiche di Franco Battiato, erano in qualche modo il segno di una ricerca che si sarebbe fatta via via più evidente; che già allora conduceva uno studio finalizzato a restituire la forma originaria dell’oggetto rappresentato attraverso la distinzione dei tre cori, innestati sui tre pilastri espressivi del «gesto», della «parola» e della «musica» (come si evince da un’intervista del 10 aprile 1990 su Il Mattino), coerentemente con l’intento etnografico di acquisire il quadro di un popolo, per mezzo dell’arte; e che ora, con Nostalgia, unendo gli estremi di quella triade antropologica che è linguaggio, storia, dimora, contraddistingue il perpetuarsi di un ritorno, del suo dolore.

Dal Pasolini dello smarrimento citato all’inizio del film – «La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede» – si conferma come questa modalità di fare cinema è metacinema, discorso metacognitivo, dialogo intrinseco al farsi delle scene ma pure, al medesimo istante, interlocuzione con l’interpretazione critica che contribuisce all’architettura stessa dell’opera, anche questa, allo stesso modo di Capri Revolution, percorsa da un non so che di perdita la quale tuttavia, proprio in virtù di tale disorientamento, riesce ad attuare, alla fine, appropriazione, possesso nella sintesi degli elementi che si davano, all’inizio, come pezzi disgregati, scomposti: archeologia di luoghi persi, persi nella memoria, persi dentro di sé mentre si opera un processo quasi diaristico di recupero, tornati figli alle madri (in Capri Revolution dopo che Lucia è salita al monte, spogliata del suo essere femmina da promettere in moglie; in Nostalgia quando Felice ha edificato una vita diversa, lontano, e nel Rione Sanità cammina in quel dedalo di strade così somigliante ai suk dei paesi arabi, dopo quelle scale ripercorse al contrario, per suonare alla porta di un’intensa Aurora Quattrocchi: «Facciamo che io ero bambino», in una delle scene più significative del film, quelle in cui il figlio aiuta la madre a spogliarsi, come se si trattasse di una vestizione capovolta, nella sacralità di quello che sembra essere un lavacro).

Corse nei vicoli, sangue che gocciola sul pavimento, che cade, che fa rumore, motociclette per le vie di una città che sale, inabissandosi poi giù sotto terra, dove teschi e teschi giacciono ad ammonire i vivi di non morire (svolte, angoli, movimenti di macchina dall’alto, di spalle, dal basso, circolari con la musica che prende parte essa stessa a questa operazione di andare a ritroso, in profondità, dalle catacombe di Napoli alla catabasi di se stessi, mediante ricordi di giubbotti mai più indossati, di fotografie ritrovate): Felice e Oreste, i contemporanei Eteocle e Polinice in lotta per sapere chi erano allora, chi sono adesso.

«Tu ti illudi, i cuori si richiudono col tempo», «No, i nostri no»: il tempo è lo spazio del ricordo, di questo espianto forzato dalla terra d’origine, quarant’anni prima; è la sede del racconto di un Pierfrancesco Favino che si fa testimone e tramite di un ridimensionamento strutturale della lingua, anch’essa tragitto, percorso, dimensione del viaggio alla ricerca di sé e del proprio posto in una città, in un quartiere, che sono rimasti gli stessi, sebbene sconosciuti, archiviati nel proprio intimo, tanto da aver dimenticato quella lingua madre che non sa dire più «spugna» ma diventa gesto a mimare lo sfregamento sul braccio, che non ricorda di dire «biancheria» ma che dice invece «lingerie».

Solo quando Felice incontra Oreste la dimora-lingua si ricompone in forma di confessione, nella difesa da quelle accuse di occhi penetrati e voci: discendente, quella di Oreste, il quale odia con rabbia mite, raccogliendo la voce e indirizzandola verso i toni bassi, fino al grave più cupo della sfida lanciata, la «partita» della resa dei conti che prospetta una discesa, la annuncia, anticipando il momento in cui si avvierà verso l’amico, “scendendo” la grande scalinata; ascendente invece quella di Felice, che via via aumenta di timbro, “salendo” come se fosse una domanda rivolta al suo interlocutore ma, in fondo, a se stesso, persona ritrovata che improvvisamente, faccia a faccia con il proprio passato, compie un recupero perfetto della lingua madre, poiché è capace soltanto adesso di rievocare tutto, di raccontarsi, di “confessare” la propria intenzione di fare ritorno, ritorno di cui diventa espressione estrema il napoletano con le sue inflessioni, la sua musica strutturalmente presente nella parola.

Mi vengono in mente alcune scene ambientate nel giardino di casa, le stesse che operano una corrispondenza e contemporaneamente uno scarto rispetto a quelle di un altro giardino, quello di Oreste, solo al centro dell’inquadratura mentre Felice è attorniato da un microcosmo multietnico che appartiene alla Napoli in cui si fa ritorno: danza di terra natia dove si confonde il profumo d’Egitto attraverso il ritmo e le movenze delle braccia, delle mani, dei fianchi.

Si fa ritorno alla verità montaliana del profumo dei limoni, che apre un varco nella rete, in cui si inabissa la pelle rugosa del volto, il grembo di una terra persa, ritrovata, conosciuta e perduta per sempre.

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