È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.

Il diario condensa e recupera. La vita, invece, semplicemente, passa. Nel diario la vita condannata a sparire viene imprigionata in istanti durevoli. Si tratta di tradurre la vita in parole, frasi, periodi, pagine: questo è lo scopo del diario. Nel caso del diario di uno scrittore, esiste, se possiamo chiamarlo così, una specie di plusvalore: l’autore infatti cerca sempre di lasciare un margine grossolano che verrà sbozzato e cesellato poi, quando il diario e la sua liturgia (il computo esatto delle date e dei giorni, l’uso della prima persona, l’imperativo di «cuore messo a nudo») diventeranno romanzo.

Anche Ricardo Piglia scrive che «tutto quello che sono sta lì, però non c’è altra cosa che parole. Cambi nelle lettere manoscritte»: lo scrittore è la sua scrittura, si confonde dentro di essa come Narciso è nello stesso tempo la sua immagine riflessa e il fiume che scorre, le creature che lo abitano, le pietre, le felci e la voce di Eco che si disperde nella radura. Narciso, il nume di tutti gli scrittori di diario, lo sa bene. È pericoloso, estremamente pericoloso, mettersi davanti all’immagine di se stesso. Se Narciso fosse argentino il fiume sul quale si sarebbe sporto per vedersi come se fosse un altro sarebbe il Mar de la Plata, fiume fangoso, come il Lete. Oppure avrebbe scelto, chissà, la grande estensione piana e perfettamente bianca delle Salinas grandes, nel nord del paese, paesaggio mentale dove l’esterno diventa interno e il deserto si fa superficie psichica che rimanda, inevitabilmente, alla superficie liscia e insieme porosa della pagina bianca. Polvere (dove si riproducono senza sosta i fantasmi). Riflesso. Fata morgana. Narrazione. Finzione. Diceva Truffaut: «Sempre ho preferito il riflesso della vita alla vita vera». L’io (i suoi «parapetti vetusti») davanti alla pagina bianca che è sempre un fiume (un mare) e un deserto, comincia, allora, a vacillare.

Che significa infatti, dire “Io”, questo pronome personale che la psicoanalisi ha trasformato in istanza di organizzazione delle attività psichiche e che per Freud permetteva il contatto con la realtà e l’organizzazione dei meccanismi di difesa? Il diario, apparentemente, è la scrittura in prima persona. Apparentemente. E se il diario, la sua scrittura, invece che a mostrare l’io servisse esattamente al contrario, ossia a metterlo tra parentesi lasciando fluire i contenuti dimenticati, triviali, della libido, che risalgono, mascherati, alla superficie della nostra coscienza? Anche questo è possibile, certo. Ma solo a patto di scrivere il diario fingendo di essere un altro. In questo caso il viaggio attraverso l’io, a cui ogni diario aspira, diventerebbe un viaggio attraverso l’altro, realizzando l’auspicio di Rimbaud, «je suis un autre».

Una volta adottata quella che è insieme una tecnica, una precauzione e un distanziamento, che accadrebbe, però, ai fatti (scrupolosamente inventariati nel diario)? Rimarrebbero gli stessi? Descrivere qualcosa che è appena accaduto come se lo avesse fatta un altro non significherebbe trasformare quella sequenza di trivialità che è la vita in un romanzo? Il diario da rivelazione non diventerebbe una forma, estetica, di travestimento? Sono possibili, davanti a questo impasse (il diario è, tassativamente ciò che il romanzo non è, o non è ancora), diverse vie di uscita. Scegliamone quattro.

La prima potrebbe essere un “doppio diario” dove, in una specie di montaggio alternato della psiche le due azioni possibili sono sempre le mie e quelle dell’altro. Come diceva Griffith quando doveva spiegare la sua teoria di montaggio alternato, «and meanwhile, other fate». Una seconda possibilità è l’adozione di uno pseudonimo. I lettori di Piglia conoscono molto bene questo gioco. Lo scrittore argentino ha usato sempre un alter ego, Emilio Renzi “personaggio” che sorge, insieme, da un collage e da un gioco di specchi: il nome completo dell’autore è, infatti, Ricardo Emilio Piglia Renzi. Può però capitare che gli pseudonimi si moltiplichino e – orrore sublime – diventino indipendenti: è quello che accade, per esempio, agli eteronimi di Pessoa. A differenza del portoghese, l’Emilio (nome rousseauiano, altro grande scrittore di Confessioni) di Piglia non è una moltitudine ma semplicemente un altro da sé che è se stesso. E a differenza di Bernardo Soares che, come scrive Pessoa nel frammento 34 del Libro dell’inquietudine, pensa di non uscire mai da la Rua dos Douradores e «questo, scritto, mi sembra una eternità» Piglia affronta l’esperienza dell’esilio a causa della dittatura, ma, similmente a Soares, ha compreso come «incontrare la personalità perdendola». I diari di Piglia diventano, quindi, quelli di un altro che è lo stesso (non a caso iniziano con una citazione di Proust, «Questa moltiplicazione possibile di se stessi, che è la felicità»).

Una terza possibilità è il diario di un bugiardo cronico: viene alla mente Jean-Claude Romand, protagonista de L’avversario di Carrere che si crea una vita alternativa – è un medico importante che lavora per la OMS – che serve a “coprire” quella vera, dove è, in realtà, nient’altro che un furfante e un nullafacente; quando, ormai alle strette, dopo anni, l’inganno sta per essere scoperto, uccide moglie, figli e i due genitori. In una mancanza di accesso all’io, a se stesso e alla propria verità, cresce qualcosa come un buco, che aumenta di grandezza e finisce per assorbire il posto, la casella dell’io: Romand aveva cominciato a scrivere diari e lettere dove, invece di dire la verità, continuava a interpretare la parte del dottore: nel caso la moglie li avesse letti di nascosto (come accade a Piglia quando Julia legge il suo diario e scopre il tradimento di lui con l’amica) avrebbe trovato non la verità, ma la conferma della menzogna. Romand, infine, affida ad un piccolo magnetofono il racconto della verità: è con la voce, non con la scrittura, che trasmette rivelazioni soffocate come «Perdono, non sono degno di vivere. Ti ho mentito, ma l’amore che provo per te e i bambini non è una menzogna» che poi cancella; viene in mente di nuovo Piglia quando racconta (nel suo romanzo La Ciudad Ausente e nel film Macedonio Fernandez di Di Tella) della signora che vende fiori, rubati al cimitero della Chacharita, davanti alla sala degli incontri di boxe a Buenos Aires. La signora incuriosisce Piglia perché porta agganciata al vestito una foto dello scrittore Macedonio Fernandez, dice di essere morta e, quando rimane sola, registra discorsi con un magnetofono. Da Krapp in poi, il magnetofono diventa un supporto per la registrazione della memoria dell’inconscio.

La quarta possibilità è la più estrema: quella di colui che scrive il diario della ricerca del proprio io che si è smarrito, si è perduto o se n’è andato. Supponiamo che l’autore del diario, una notte, scopra di avere una “malattia” simile a quella di colui che, all’improvviso, pensa che una parte del corpo abbia cessato di appartenergli (come nel cinema espressionista: pensiamo a Orlacs Hände di Robert Wiene con Conrad Veidt). La malattia, però, non si arresta all’arto e si propaga: l’autore del diario capisce che è tutto il suo corpo, da tempo, a non essere più “suo”, ha usurpato il suo “vero” io e ha scritto in nome di un io che non era quello di chi, adesso, sta scrivendo (e ha deciso, quindi, di prendere la parola. Ma in nome di chi, dato che il corpo gli aveva anche usurpato il nome?). L’autore del diario racconta poi che non solo il suo corpo è di un’altra persona, ma anche la testa (che chiama, semplicemente, Ella) e, ostacolato da corpo e testa, decide di scrivere un diario che sia, insieme, una ricerca e una definizione di sé.

Che diario è mai questo? Sembra di ascoltare Lacan quando si chiede «Chi parla quando io parlo?». Il Diario del sinvergüenza dello scrittore uruguaiano Felisberto Hernández è il diario di un io che non è più di colui che parla (scrive) perché si è perduto, e che l’autore del diario ha deciso di cercare non solo nel corpo (dove, all’inizio, crede si possa nascondere), ma anche nel sótano (scantinato, seminterrato, allusione spaziale all’incosciente? – e non è in un “luogo oscuro” dello scantinato della casa di Beatriz Viterbo che Borges scopre l’Aleph?), nei suoi pensieri, nei sogni e nel passato. Inoltre sa di non poter cercare questo io fuggitivo (o sequestrato: lo immagina sotto stretta sorveglianza) durante il giorno, ma deve aspettare la notte, l’ora dei fantasmi.

«Non so dove sono io, come sono io, o com’è questo sentimento di essere io… A volte lo sento molto sicuro, e altre mi assalgono dubbi […] Il mio io se ne sarà andato via da me come un padre accusato di un crimine che quando si scoprì che era innocente un figlio uscì a cercarlo nella foresta?»: senza il suo io, colui che scrive si trova in una condizione di costante dubbio (ad esempio se il sinvergüenza lo aveva usurpato e aveva scritto al suo posto, egli non è l’autore di alcunché, se non del diario che, adesso, sta scrivendo; e allora perché titola il diario El diario del sinvergüenza se questo sinvergüenza è il corpo? E non colui che scrive? Forse perché sa che per scrivere non può fare a meno del corpo che lo ha usurpato?) in uno sforzo di mettere a fuoco i suoi limiti e di “contabilizzare” le diverse dramatis personae che lo abitano (il corpo è una persona artificiale violenta e collerica; la testa una francese raffinata, una pazza che parla sola e che ha consegnato il corpo ai pensieri degli altri).

I diari di Emilio Renzi (ancora inediti in italiano) coprono un arco temporale che va dal 1957 (quando lo scrittore ha appena sedici anni) fino al 2015, due anni prima della morte, e si dividono in tre parti: Anni di formazione, Gli anni felici e Un giorno nella vita. Chissà perché, davanti a questi titoli evocativi viene alla mente un altro brano di Soares-Pessoa (il frammento 285) che forse avrebbe potuto aggiungere come sottotesto al suo diario “La vita è sogno”: «sono quasi convinto di non stare mai sveglio. Non so se è quando non sogno che sono vivo o se non vivo quando sogno, o se il sogno e la vita non passano dall’essere in me intersezioni di cose miste, delle quali il mio essere cosciente si forma per interpenetrazione […] Non so se esisto, sento come possibile essere il sogno di un altro, mi raffiguro, quasi carnalmente che potrei ben essere il personaggio di una narrazione»: e personaggio di una narrazione non è l’Emilio Renzi di Piglia? Inoltre, se lo pensiamo bene, essere il sogno di un altro è l’argomento di uno dei racconti di Borges più amati da Piglia, La scrittura del dio: «Non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro e così all’infinito». E viene alla mente Paz quando, scrivendo su S. J. Perse, scrive che l’unico personaggio della storia è senza nome né volto, metà carne e «metà sogno». Il diario estremo potrebbe essere la scrittura di una vita diventata sogno di un altro.

Ogni esperienza può diventare occasione per l’inizio di un diario. Ogni diario può diventare letteratura. Ogni letteratura, vita. Nello stesso tempo, una cosa è vivere la vita, altra cosa è scriverla. Il diario si può intendere come una vita scritta, di nuovo, per nessuno. Però chi è questo Nessuno? Raoul Ruiz (altro grande scrittore di Diari), ricordandosi di Borges diceva che esistono comete erranti che sono questi Nessuno o Ulisse.

Sono numerosi i percorsi che possiamo ritrovare all’interno dei Diari di Emilio Renzi. Innanzitutto, com’è ovvio nel caso di quello che è un vero e proprio genere letterario, la “sequenza” del “Quotidiano”: incontri e chiacchierate con gli amici, riflessioni, dibattiti, spesso in quel microcosmo –  che Cortázar ha descritto alla perfezione – che è il caffè (o le stanze: di hotel, di appartamenti); poi, quella della “Storia”, che proprio il quotidiano complica o annichila (e per storia, nei diari di Piglia-Renzi si intendono le vicende atroci della dittatura argentina che lo scrittore chiama «Gli anni della Peste»). La tragedia della vita sotto la dittatura pervade i diari. Due sequenze emblematiche sono quella del 17 gennaio 1972, quando Piglia racconta della sua improvvisa fuga dall’appartamento che condivideva con Julia dopo un rastrellamento dei militari e quella che racconta quando, il giorno del ritorno a Buenos Aires, lo scrittore si rende conto che la segnaletica davanti alla fermata dell’autobus è cambiata e la semplice indicazione è stata cambiata in “Zona di Detenzione”.

Sono, quelle dedicate alla Storia, al Quotidiano, e alla Storia che contamina e altera il Quotidiano le due sequenze più importanti, alle quali fa riferimento anche lo scrittore chiamandole, rispettivamente, A e B. Un’altra sequenza potrebbe essere la C, degli amori, e un’altra quella dei libri letti e dei film visti (sequenza D della “cultura”?). A proposito di quest’ultima sequenza, è opportuno dire che apre vere e proprie faglie all’interno del materiale autobiografico, operando come, nei romanzi di Piglia, fa il materiale “teorico” con la finzione (il genere “misto” degli scrittori della razza dell’argentino è quella che si chiama ficciòn especulativa). Lo stile di un diario come questo diventa così il genere, modernizzato, di quello che gli spagnoli del secolo XVI chiamavano miscellanea. Per Fulcanelli il suo libro sulle cattedrali era un libro di immagini (come il film di Godard). A Piglia questa definizione sarebbe piaciuta certamente (e non a caso, in un frammento di diario annota «vivere per vedere»). Pensiamo, per esempio, al lungo ritornare di Piglia su Pavese; alla relazione continuamente rinnovata tra letteratura, memoria e oblio; ai passi dedicati a Freud, che Piglia legge costantemente (considera, ad esempio, L’interpretazione dei sogni un meraviglioso esempio di autobiografia) o a Borges (a cui dedicherà anche un magnifico ciclo di lezioni del 2013 che si trovano su YouTube); o, infine, alle riflessioni sul cinema: Piglia è infatti un cinefilo e un importante sceneggiatore e numerose pagine di diario sono dedicate ai film visti (una lunga parte, solo per fare un esempio, è dedicata al film di Tarantino Pulp Fiction che Piglia-Renzi, autore legato non solo, semplicemente al noir – diresse per qualche tempo una collezione dedicata ai maestri dell’hard boiled  –, ma alla letteratura come processo di detection e “prigione perpetua”, non poteva non amare).

Viene alla mente, infine, un altro aspetto del diario. Il diario è qualcosa che si scrive continuamente (alla fine i quaderni di Piglia riempiono enormi scatoloni, come quelli che fungevano da mobili nell’appartamento vuoto del protagonista di Moon Palace di Paul Auster –altro autore di diari impossibile da non citare quando si parla di Piglia): il diario ha bisogno di “continuità” più che di sincerità. Scrivere un diario è allora, in un certo senso, l’opposto di uscire di prigione. È come entrare dentro di essa. La cella però non è solo fisica, ma è formata delle molteplici parole affastellate. Lo scrittore di diario diventa prigioniero non della sua vita ma del suo racconto. Piglia, in un appunto del 1958 dirà che «la carcere è una fabbrica di racconti». E arriviamo così alla sequenza E, del meta-diario, dove lo scrittore di diario riflette sullo scrivere un diario. Viene in mente, stavolta, uno scrittore lontano anni luce da Piglia come Antonio Delfini, che nei suoi Diari (che coprono un arco di tempo che va dal ’27 al ’44) recentemente riediti da Einaudi, nel dicembre del 1936 scrive: «Quando non c’è niente da fare e non si saprebbe nemmeno che cosa fare, e non si ha niente da dire, e si è delusi; quando, si può dire, ogni fantastica gioia futura è scomparsa dalle tue visioni, allora si decide di scrivere un giornale, un diario» e nella prima annotazione rivelava «non sono fatto per i diari». Il diario diventerebbe, in un certo senso, qualcosa che si scrive controvoglia.  Ma ancor di più, per cosi dire, contro mano (viene alla mente Godard quando parla di mano sinistra e mano destra) e contro pelo (è possibile scrivere un diario cominciando dalla fine? Ma dalla fine di che cosa?).

Presentiamo adesso piccoli frammenti dai Diari di Emilio Renzi. L’opera-fiume si ritrova così, nelle righe che seguono, ridotto in piccole cellule, frammenti, come un libro fatto di citazioni (e un libro fatto di citazioni non era proprio Respirazione artificiale, che si ispirava alla struttura dei Passages di Walter Benjamin)? Uzak si era già occupata dei Diari di Emilio Renzi grazie allo scritto di Rodrigo Sebastián su Piglia Di Tella, Godard che, al termine, presentava proprio un breve collage dai diari (https://www.uzak.it/rivista/uzak-36/il-gioco-del-mondo/ricardo-piglia-immagini-di-uno-scrittore-situato-nella-frontiera-psichica-della-realta-2.html) di cui questo testo, se vogliamo, è una specie di prequel. Scorrendo di nuovo la selezione di brani proposta da Rodrigo (grande amante ed esegeta di Piglia) è interessante notare come essi siano tutti diversi da quelli che vedrete di seguito (senza volerlo: il pezzo l’ho riletto solo dopo aver lavorato anche io sui Diari), con un’unica eccezione. Non ci si immerge mai due volte nello stesso testo: e questa verità diventa ancora più lampante se a farlo sono due lettori diversi. Un dossier su “Archeologia della memoria e etnologia di sé” ci sembrava un’occasione irrinunciabile per riprendere la conversazione con il grande scrittore e critico argentino.

I (pochi) brani selezionati non rispondo ad un ordine cronologico: riprendono e approfondiscono quello a cui abbiamo accennato in queste brevi note e sono organizzati secondo il criterio delle attrazioni tematiche (il meta-discorso; la dittatura; il cinema; la vita quotidiana e la sua psicopatologia; la scoperta e il decorso della malattia dello scrittore etc.). Inoltre alcuni brani sono stati trovati a “caso”, sfogliando le pagine dei diari e ricordandoci del metodo con il quale Jonas Mekas aveva ordinato i “suoi” materiali biografici nel film As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty, confidando, appunto, nella potenza del caso:

«Ogni volta ha meno senso scrivere questo diario, chissà perché io stesso ho ogni volta meno senso» (Lunedì 5 gennaio 1981);

«Sto ancora qui; scrivo l’inizio di un racconto nel quale qualcuno si rinchiude in una casa come questa a leggere la sua vita […] Vorrei poter dividere la mia vita in due, occupare due siti, essere un altro in ognuno di essi; avere due vite, per lo meno due vite, simmetriche, concentriche, andare e tornare da un lato all’altro, sempre nel treno delle sei del pomeriggio» (Lunedì 12 gennaio 1981);

«Una vita non si divide in capitoli […] Sempre mi ha intrigato il modo irreale però matematico con il quale ordiniamo i giorni […] Già l’almanacco è una prigione insensata sull’esperienza perché impone un ordine cronologico ad una durata che fluisce senza alcun criterio. Il calendario incarcera i giorni ed è probabile che questa mania classificatoria abbia influito sulla morale degli uomini»;

«Non esiste nessuna cosa che può definire un diario, non è il materiale autobiografico, non è la confessione intima, non è nemmeno il registro della vita di una persona, lo definisce, semplicemente, disse Renzi, il fatto che lo scritto venga ordinato secondo i giorni della settimana e i mesi dell’anno»;

«La vita raccontata da chi la vive è una barzelletta, anzi uno scherzo mefistofelico»;

«L’esperienza personale, annotata nel diario, è attraversata, a volte, dalla storia o la politica o l’economia, ossia il privato cambia e si ordina molte volte per fattori esterni […] Una serie è allora, quella degli eventi politici che intervengono direttamente sulla sfera intima della mia esistenza. Possiamo chiamare, a questa serie o catena o incatenamento dei fatti, la “serie A” […] Al di sotto c’era una serie di ripetizioni circolari, di fatti uguali che potrebbero essere seguiti e classificati al di là della densa progressione cronologica dei suoi diari. Per esempio, la serie degli amici, gli incontri con i suoi amici in un bar, di che cosa parlavano, su che cosa costruivano le loro speranze, come cambiavano i loro temi e le loro preoccupazioni durante quegli anni. Diciamo la “serie B”, una sequenza che non risponde alla casualità cronologica e lineare […] Però gli amori, le avventure, gli incontri con le ragazze amate, erano la serie B o la serie C? In ogni caso, questa organizzazione seriale definirebbe una scansione o una serie di scansioni e periodizzazioni molto più intime e veritiere che il semplice ordine di un calendario […] Perché quando è ordinato solo cronologicamente, per data, si vede che una vita, qualunque vita, è una disordinata sequenza di piccoli eventi che, mentre si vivono sembrano stare in primo piano, però poi, al leggerli anni dopo, acquisiscono la loro vera dimensione di azioni minime, quasi invisibili, il cui senso dipende giustamente dalla varietà e dal disordine dell’esperienza […] È insensato credere che la vita si divida in capitoli o in decenni o in segmenti definiti, tutto è assai più confuso, ci sono tagli, interruzioni, passaggi, fatti decisivi di quelli che io chiamerei contrattempi, perché producono marce e contromarce nella temporalità personale» (Nel bar); 

«Ha la strana sensazione di aver vissuto due vite. Quella scritta nei quaderni e quella impressa nei suoi ricordi. Sono figure, scene, frammenti di dialogo, resti perduti che rinascono ogni volta […] Mi piacciono molto i primi anni del mio diario, proprio perché lì lotto con il vuoto. Non accadeva nulla, non accade mai nulla in realtà, però a quei tempi mi preoccupavo. Ero assai ingenuo. Cercavo tutto il tempo avventure straordinarie» (20 aprile 2015);

«Si era reso conto che l’esperienza è una moltiplicazione microscopica di piccoli eventi che si ripetono e si espandono, senza connessione, dispersi, in fuga. La sua vita, aveva compreso adesso, era divisa in sequenze lineari, serie aperte che risalivano al passato remoto: incidenti minimi, rimanere solo in una stanza di hotel, vedere il suo volto in una cabina per fototessere, prendere un taxi, baciare una donna, alzare lo sguardo dalla pagina e guardare dalla finestra, quante volte? Questi gesti formavano una rete fluida, disegnavano un percorso»;

«Sono visioni, flash inviati dal passato, immagini che perseverano, isolate, senza cornice, senza contesto, sciolte e non possiamo dimenticarle» (I. Sulla soglia);

«Non è lo stesso leggere che dare a leggere. Un aspetto è la ricerca, un altro l’esposizione dei risultati della ricerca. Lo stesso accade se uno si converte in storico di se stesso. Così aveva deciso presentare i suoi diari in ordine cronologico dividendo lo scritto in tre grandi parti, rispettando le tappe della sua vita, perché aveva scoperto, leggendo i quaderni, che era possibile una divisione piuttosto chiara in tre tempi o parti. Però quando in aprile dell’anno precedente aveva affrontato il compito di rilettura e copia degli inizi dei suoi diari, si rese conto che gli era insopportabile immaginare la sua vita come una linea continua e, rapidamente, decise di leggere i suoi quaderni a caso»;

«Si trovavano archiviati in casse di cartone […] per questo il disordine dei traslochi aveva rotto qualsiasi illusione di continuità. Non aveva mai cercato di archiviarli ordinatamente. Li cambiava di posto e posizione secondo il suo stato d’animo […] Lo spaventava la quantità di spazio fisico che occupavano le sue note personali. Un pomeriggio, seguendo l’esempio di suo nonno Emilio, aveva deciso di destinare una stanza esclusivamente ai suoi diari. Che stessero in un solo posto e, soprattutto, che si potesse chiudere la porta di accesso, anche con chiave, lo tranquillizzava. Però non lo fece»;

«Alla fine decise di mettersi i quaderni alle spalle per poi, senza vedere, a caso, estrarne uno […] Era così riuscito a disarticolare per completo la sua esperienza e passare dalle sue note di alcuni mesi in cui era inattivo a un altro quaderno dove era lucido e conquistatore.  In questo modo inizio a percepire che era varie persone nello stesso tempo»;

«La vita non deve essere vista come una continuità organica ma come un collage di emozioni contraddittorie, in nessun modo, ripeté Renzi, c’è progressione e ovviamente non c’è progresso, nessuno apprende nulla dalla sua esperienza, eccetto che si abbia preso la precauzione, un poco demenziale e ingiustificata, di scrivere descrivere la successione dei giorni perché allora, nel futuro -e solo nel futuro- brillerà come un falò nel campo, o meglio, brucerà, in quelle pagine, il senso. L’unità è sempre retrospettiva, nel presente tutto è intensità e confusione […] Ogni esperienza è, diciamolo così, retrospettiva» (Sessanta secondi nella realtà);

«La parola oblio è formata con radici latine. I suoi componenti lessicali sono il prefisso ob (sopra) e levis (leggero) […] L’idea originale era lo scivolare della memoria, il pattinare verso l’oblio […] Il Martín Fierro canta per non dimenticare e Facundo, secondo Sarmiento, possiede una memoria prodigiosa, ricorda il nome di tutti i suoi soldati […] C’è qualcosa di barbaro nella memoria eccessiva. Il Funes di Borges è un uomo primitivo e già Platone aveva opposto la lettera alla memoria. Tuttavia, in uno dei grandi racconti della letteratura argentina, Martínez Estrada racconta la storia di un uomo che ricorda un libro intero che si è perduto, e sulla base della sua memoria fotografica scrive il prologo all’opera assente. Ne Los Adioses di Onetti il narratore “dimentica” alcune lettere che riappaiono alla fine della storia e sono decisive per decifrare l’enigma del racconto e che, se ricordate fuori luogo, rendono possibile un’altra verità. Mi piacerebbe che si registrassero i momenti di oblio che vengono narrati nei testi di finzione di Onetti e di Felisberto Hernández e di Rulfo, dove appare narrata l’azione di dimenticare o di perdere la memoria di un fatto. Per noi la forma nouvelle si struttura in base alla narrazione di un oblio che si converte nel centro della trama […] Però non in qualunque oblio, ma in un vuoto che si dà che circola nella cornice della storia, ossia tra coloro che narrano la storia. Sono loro che non possono ricordare qualcosa –un volto, un indirizzo, un nome- e per questo narrano. La narrazione si intesse con la tela dell’oblio […] Nella mitologia greca Lete, letteralmente oblio, o anche Leteo, era uno dei fiumi dell’Ade. Bere dalle sue acque provocava un oblio completo […] Alcune religioni misteriche private insegnavano l’esistenza di un altro fiume, il Mnemosyne, le cui acque permettevano di ricordare tutto e raggiungere l’onniscienza» (II. Un giorno nella vita);

«Non c’è niente di più bello e perturbante di un’idea fissa. Immobile, bloccata, un asse, un polo magnetico, un campo di forze psichico che attrae e divora tutto ciò che incontra […] L’ossessione si costruisce, dice mio padre, ho visto costruirsi ossessioni come castelli di sabbia, solo abbiamo bisogno di un evento che ci alteri drasticamente […] La ossessione ci fa perdere il senso del tempo, ci fa confondere il passato con il rimorso. La carcere è una fabbrica di racconti» (Domenica, 1958);

«Ricordo l’orrore che mi produsse l’immagine di una sierra che era nello stesso tempo un carcere» (Primo Amore);

«Il cinema è più rapido della vita, la letteratura è più lenta» (Domenica, 1957);

«Andai allo stadio con Cabello e Dabrovsky a vedere il Boca Juniors. Andai al cinema: A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. Il corpo di Marilyn Monroe cantando con un piccolo banjo nel corridoio del treno. Due uomini vestiti da donne in un’orchestra di signorine» (2 novembre 1959);

«Serie E. In un quaderno del 66 incontro le note di un film di Michael Powell (L’occhio che uccide), con uno psicopatico che vuole apprendere la realtà attraverso la macchina da presa e termina filmando la sua propria morte. Mi sembra molto legata a Blow up di Antonioni. L’idea di una tecnica cinematografica come occhio magico per captare la realtà personalmente, e lo stesso con la macchina fotografica. Un diario è anch’esso una macchina registratrice di eventi, persone e gesti. Vivere per vedere, questa sarebbe la parola d’ordine (3 febbraio 1968)»;

«Cartolina di Tristana. Di notte vado a cinema con Iris: Chinatown di Polanski. In realtà, il film sembra basato su un romanzo che Chandler non scrisse mai» (Giovedì 2 gennaio 1975);

«La frase deve essere in grado di creare situazioni. Una frase condensa un atto. L’immagine deve essere narrativa. L’immagine narrativa. L’esempio di Wittgenstein, al riparo in una stanza, vediamo dalla finestra a un uomo che cammina con difficoltà, muovendo le braccia come se stesse remando. L’immagine cambia se sappiamo che fuori c’è una tormenta e un vento forte viene dal mare […] Quello che si apprende nella vita, che si può insegnare, è così limitato che sarebbe sufficiente una frase di dieci parole. Il resto è completa oscurità, tentativi in un corridoio di notte» (Domenica, 5 gennaio 1964);

«Ho controllato cestini e cassetti fino a incontrare i fogli che stavo cercando –enormi e coperti di righe- per iniziare a scrivere a mano. Stavolta scriverò a mano il romanzo» (Lunedì 2 gennaio 1967);

«Ritrovo una certa pace dopo la confusa tempesta di oggi con Julia, i due senza soldi, lei adesso sola nella stanza. Narrare un interrogatorio poliziesco come se fosse una scenata di gelosia (in generale accade al contrario: che hai fatto stanotte?, dove stavi? chi è l’altra o l’altro? Dillo, confessa… Lei gli consacra tutte le energie per incatenarlo, ovviamente le energie servono in realtà per perderlo» (Sabato 20 maggio 1967);

«La funzione del diario è di rendere possibile il suicidio, infatti, (ha scritto Stendhal) “Un diario è sempre una specie di suicidio”» (11. I diari di Pavese);

«“Quello che temiamo più segretamente sempre accade”, scrisse Pavese all’inizio e nell’ultima pagina dei suoi diari. Questa frase scritta due volte è un oracolo, è la scrittura del destino. Durante questi quindici anni Pavese cercherà indovinare qual è il segreto che si nasconde in questo oracolo; vuole sapere che cos’è ciò che teme più segretamente per poterlo, poi, realizzare» (11. I diari di Pavese);

«Lettura attenta di Psicopatologia della vita quotidiana di Freud.: straordinaria nuova forma di autobiografia nell’analisi personale del caso Signorelli. Il soggetto dell’autobiografia si sdoppia e vede se stesso catturato per onde invisibili, come se fosse un altro. La distanza temporale tra il presente della scrittura e il passato del soggetto è il tema basico del genere» (Venerdì 31 gennaio 1969);

«Il gesto di Amanda, che dopo aver fatto l’amore tende la mano e mi afferra il polso per osservare l’ora. Bel gesto, cinico, emblematico, alla fine, dello stato attuale della nostra relazione […] Leggo l’eccellente lavoro di Freud su Leonardo: la meticolosa annotazione delle spese per la sepoltura della madre. Patetico poema di amore dell’ossessivo» (Venerdì 6 dicembre 1974);

«L’uomo clandestino, che si immerge nella lotta armata e diventa invisibile, la sua vita si raddoppia, vive alla luce del giorno come uno qualsiasi di noi, però di notte vive la rivoluzione che viene» (Martedì 22 ottobre 1968);

«Per questo ho parlato della peste in quegli anni. Era la forma, nella tragedia greca, di riferirsi al male sociale. Una piaga che devastava una comunità come effetto di un crimine commesso nel luogo stesso del potere dello Stato […] Gli anni della peste sono gli anni oscuri in cui gli indifesi soffrono un male sociale o meglio, un male statale […] La peste, quindi, e i testimoni raccontiamo quello che abbiamo vissuto in tempi oscuri, i miei quaderni sono un registro allucinato e sereno della esperienza di vita in uno stato di eccezione. Tutto sembra seguire uguale, la gente lavora, si diverte, si innamora, si intrattiene e non sembra ci siano segni visibili del terrore. E questo è il più sinistro, sotto un’apparenza di normalità il terrore persiste e la realtà quotidiana segue come un manto, però a volte una infiltrazione lascia vedere la realtà cruda» (Sessanta secondi nella realtà);

«Tutto si scatena all’improvviso. Venerdì un’operazione di rastrellamento dell’esercito nell’edificio. Non entrano nel mio appartamento. “Cercano una coppia giovane nel quarto o nel quinto piano”. Una settimana dopo, venerdì 14, appaiono sei tipi della Coordinación Federal mitragliatore in mano, davanti all’entrata, svegliano il portiere, chiedono di me e di un tale Bordaberry, informato di questo inizia il caos, spargo tutte le carte, l’appartamento in disordine, faccio tre viaggi, prendo qualche vestito, il romanzo, la macchina da scrivere, i quaderni, lascio tutto a casa di Tristana, l’amica di Julia. Devo traslocare, la biblioteca, i vestiti, i mobili. Trasferisco valige, cercando di non vedere i libri che abbandono. Riunisco vestiti, carte, esco e entro varie volte, cerco un taxi, tranquillo di fronte ai fatti consumati. Dopo in piena night la casa di Tristana, le conversazioni» (Lunedì 17 gennaio 1972);

«“Qualsiasi libro di storia che non tenga cinque note a pie di pagina” fece una pausa teatrale e concluse, “è un romanzo”. (Mi sembrò una eccellente definizione del genere romanzo)» (8 aprile 1960);

«Di nuovo a Buenos Aires, l’entrata della città sotto la nebbia […] torno camminando per Corrientes come chi vive in una città occupata dall’esercito nemico» (Mercoledì 6 giugno 1977);

«Zona de detención nei cartelli che indicano la fermata dell’autobus. La verità si fa vedere nel cambio dei segnali di transito di Buenos Aires» (Giovedì 7 giugno 1977);

«Melanconica passeggiata lungo i luoghi disabitati della città: ho appena visto un appartamento più piccolo di una scatola di scarpe, per il quale chiedevano 2,5 milioni al mese e il 15 per cento di aumento ogni tre mesi, più 12 milioni di anticipo» (Lunedì);

«Nei due anni che vivo qui, che cosa ho visto? Cos’è quello che posso ricordare? Un cane pastore che passa per un balcone minuscolo, da un lato all’altro, da un lato all’altro. Una volta ho visto un uomo che parlava a telefono sotto una lampada che emetteva una strana luce azzurra; una volta ho visto una donna che si tagliava le unghie dei piedi appoggiata al davanzale della finestra del decimo piano; una volta ho visto un televisore acceso in una stanza vuota» (Lunedì 1 gennaio 1981);

«Tutti i giorni vedi il vecchio che esce di casa e cammina lentamente nella neve fino al bordo della lagna. La bruma della sua respirazione è come una nebbia nell’aria trasparente […] Quando vede il vecchio professore uscire nel giardino e attraversare la neve e giungere fino alla laguna per alimentare le anatre selvagge che stanno morendo di freddo, so che inizia un altro giorno che sarà identico al precedente» (III. Giorni senza data. Sabato);

«Leibniz. Non esiste il tempo ma le cose. Tempo è l’ordine di esistenza delle cose che non sono simultanee. È una forma di relazione» (Sabato 30 gennaio 1982);

«In un momento, un pomeriggio qualsiasi, si era reso conto, gli diceva Renzi al suo medico personale, che il suo disturbo passeggero era il risultato dei mesi e mesi che aveva dedicato a leggere e scrivere i suoi diari […] Pensò che la cosa migliore era bloccarsi, uscire dal flusso della durata personale e concentrarsi su un giorno della sua vita. Un giorno, diciamo ventiquattro ore, un distillato, una mostra del passare del tempo. Avrebbe cambiato la lunga durata per la microstoria»

«Quindi immaginò la sua vita senza i quaderni […] Doveva scegliere bene il giorno. Doveva essere un giorno qualsiasi» (I Finali);

«La mano destra è pesante e indocile però posso scrivere. Quando non sarà più possibile… Sento che cresce nel corpo un formicolio. Voglio esserne sicuro prima di annotarlo. Scrupoloso fino alla fine»;

«Sempre volli essere solo l’uomo che scrive. Mi sono rifugiato nella mente, nel linguaggio e nel futuro»;

«La sedia a rotelle, il camminare meccanico, il corpo metallico»;

«Il genio è l’invalidità» (La caduta. Lunedì);

«Tutto ciò che faccio mi sembra di farlo per l’ultima volta» (Prima pagina del primo quaderno, Mercoledì 1957).

Testi citati

 R. Piglia, Los diarios de Emilio Renzi, Años de formación, Anagrama, Barcelona 2015.

- Los diarios de Emilio Renzi, Los años felices, Anagrama, Barcelona 2018.

- Los diarios de Emilio Renzi, Un día en la vida, Anagrama Barcelona 2018.

F. Pessoa, Libro del desasosiego, Acantilado, Barcelona 2002.

E. Carrère, El adversario, Anagrama, Barcelona 2000.

F. Hernández, Narrativa Reunida, Alfaguara, 2019

A. Delfini, Diari, Einaudi, Torino 2002.

Tags: