Ero in debito col Martin Eden di Pietro Marcello, che altrove definii uno splendido mezzo film, avanzando qualche riserva sulla seconda parte (pur ricca di cose interessanti). Nel rivederlo, faccio ammenda.

Intanto, il tempo è passato. Siamo arrivati al 2022, ossia all’anno, guarda caso, in cui ne compie ottanta Le avventure di Martin Eden, un vecchio film di Sidney Salkov, del 1942, in cui il ruolo di London/Eden era interpretato da un Glenn Ford dai muscoli rinforzati. Cito questo film, col quale quello di Pietro Marcello non ha nulla a che fare, solo per dire che è possibile estrarre un lieto fine, o qualcosa di simile, perfino da un testo che mette in scena i propri tormenti e perfino l’annuncio della propria morte: basta tagliare al momento giusto, quando il diario di Eden viene finalmente pubblicato.  

Scrivevo allora che Pietro Marcello traeva ispirazione dal romanzo di Jack London, che ebbe a suo tempo grande successo forse grazie al fatto d’essere stato scritto “in ritardo”, quando nella vera letteratura, e perfino nel romanzo, l’istanza narrativa andava sempre più perdendo terreno. Martin Eden sembra scritto da un Balzac americano, qualcuno che crede ancora nell’onniscienza dello scrittore, nella sua facoltà di conoscere perfino i pensieri dei suoi personaggi. E tutto il film, che riguarda il faticoso apprendistato letterario del marinaio Martin (Luca Marinelli), alias London, alla ricerca di un Eden da cui era escluso per differenza di classe, Marcello la filma appunto senza preoccuparsi di “raccontarla”, saltando i tradizionali raccordi narrativi, attraverso immagini d’una Napoli che rifiuta ogni collocazione temporale precisa, visioni oniriche, ombre notturne, personaggi che somigliano a fantasmi.

Salvo Martin, naturalmente, che è l’unico ad avere un corpo, come scrivevo, fin dal momento in cui salva Arturo, giovanotto di buona famiglia, da un pestaggio filmato in campo lunghissimo, che quasi neanche si vede. Poi si innamora di Elena (la Ruth del romanzo), siede a tavola con gli aristocratici parenti di lei e “fa la scarpetta”, come fanno i proletari, raccogliendo il sugo dal piatto. Sì, lui ha un corpo, ed è pronto a sacrificarlo per Elena, immagine di tutte le perfezioni (ma anche simbolo d’ascesa sociale): infatti trova il coraggio di recitarle una poesia d’amore, da lui scritta, solo tenendo una mano aperta sulla fiamma di una candela accesa, come penitenza durante un gioco crudele. Per il resto, è visione onirica l’incontro con Brissenden (Carlo Cecchi), unico personaggio che, dal romanzo al film, conserva il suo nome: incontro notturno, alla luce fioca d’un fiammifero. È visione onirica il navigare (e il successivo affondare) d’un veliero sovraccarico di vele. La seduzione stessa della scrittura si incarna nei tasti d’una macchina da scrivere-feticcio. Arrivano di continuo, da giornali e riviste, lettere di rifiuto dei racconti che Martin invia compulsivamente, mentre la prima lettera d’ accettazione, assegno incluso, arriva durante un attacco di febbre, quasi un delirio.

La città, Napoli stessa, è senza tempo: epoca indeterminata. Non è una trasposizione della S. Francisco del romanzo – è sospesa nell’immaginario, tra visioni oscure e materiale d’archivio: l’archivio che è, appunto, senza tempo, deposito d’immagini favolose anche se per caso si riuscisse a datarle. Nella campagna, di notte, corrono strani treni. Partono navi cariche di migranti. Volti di vecchi, sorridenti tra le rughe. Bambini che ballano, tenendosi per mano. Ragazze appassionate. A questo mondo appartiene Martin, al tempo stesso sentendo, mentre in cucina o nella sua cuccetta legge Baudelaire, di non appartenervi. A rileggere oggi il romanzo, si è continuamente tentati di sostituire la prima alla terza persona. Jack London non si è suicidato, o forse sì, ma se non ha compiuto l’atto, lo ha descritto come fosse pensato ed eseguito (non solo come narratore onnisciente) all’interno della mente d’un personaggio nel quale pienamente si identifica. Di te narra la storia.

Marinelli si trasforma, intristisce, si imbruttisce. Si imbruttisce London, fino al degrado finale. Le diatribe letterarie, gli scontri tra clan di scrittori, diventano specifiche note personali. Individualisti contro socialisti. Spencer contro Marx. Napoli entra ed esce dal sogno.  Martin Eden viene paragonato a Dino Campana, e trovato scarso. Elena torna, ma l’amore non può tornare, come non tornano le illusioni. Anche la poesia illude, a paragone del feticcio d’una diseguaglianza sociale sentita come inesorabile.