(Traduzione di Giovanni Festa)
Nel 2009, dopo una lunga carriera come regista, Alain Cavalier ha presentato uno strano prodotto audiovisivo, vicino – per il suo stile minore, l'enunciazione estremamente personale e ciò che registra – al diario e al saggio. Irène appartiene in questo senso ad un certo spirito d'epoca, che si definisce, a partire dal passaggio del secolo, per un rinnovato e crescente interesse per forme intergeneriche simili, realizzabili grazie alla tecnologia video e alle sue caratteristiche, come la rapidità tecnica, la riduzione dei costi economici durante la registrazione e la modifica di suoni e immagini in movimento.
Per comprendere meglio la singolare impresa di Cavalier è necessario fare una piccola deviazione storiografica. Se l'opera di ogni cineasta si inscrive in modo cosciente o incosciente, ma sempre specifico, in una tradizione, è difficile non collegare le opere dei cineasti-saggisti del gruppo della Rive Gauche, la Nouvelle Vague e i registi francofoni delle generazioni successive con le idee di Naissance d'une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo (1948) di Alexandre Astruc.
Le teorie dei cineasti (per usare l'espressione che dà il titolo a un libro di Jacques Aumont), così come i loro film, video e persino installazioni differiscono in vari modi dal cinema del futuro annunciato in questo scritto seminale. Tuttavia, la diagnosi fornita dal testo anticipò i tempi. Mentre Astruc menziona nel suo manifesto alcuni autori, cineasti moderni degli anni '40 che hanno fatto soprattutto cinema di finzione, potrebbe anche essersi ispirato implicitamente a una miriade di titoli sparsi del cinema documentario che forse conosceva. Le sue idee su una potenziale forma cinematografica di pensiero, d'altra parte, trascendono la professionalità del cinema (anche nella sua variante di documentario poetico), proiettandosi oltre una soglia verso la quale sarà trascinato anche il cinema amatoriale. A partire dal presente, si potrebbero aggiungere come esempi delle formulazioni del critico e cineasta francese alcuni film inclusi nella maggior parte degli studi accademici sul film-saggio.
Questi, che hanno scoperto o creato temi cinematografici più o meno astratti, più o meno pubblici, e così diversi come, per esempio, la pioggia (Regen, di Joris Ivens), l'attività di un mattatoio (Le sang des bêtes, di Georges Franju), le impressioni di una città europea (la Nizza di Jean Vigo) o il problema sociale dell'inflazione (Inflation di Hans Richter) costituiscono, per diversi motivi, opere decisive di una corrente minoritaria che attraversa la storia del cinema. Sono film che (come l'onnisciente e, nel suo caso, grandiosa L’uomo con la macchina da presa) definiscono in larga misura l'orizzonte del nostro tempo per quanto riguarda le possibilità del cinema: un'arte contemporanea che formalizza o veicola tutto ciò che si può pensare; una tesi di Astruc, questa, che è stata pienamente soddisfatta. Naturalmente quando questa tendenza riflessiva tende all'imborghesimento non si traduce in riprese puramente documentarie di carattere domestico, come la colazione del bambino (grande intuizione scettica di Louis Lumière agli albori del cinematografo); negli ultimi anni, sono state fatte autentiche meditazioni audiovisive di non-fiction su praticamente qualsiasi momento o tappa nella vita di una persona della classe media.
In Cavalier si tratta delle riflessioni su diversi aspetti della donna amata: frammenti biografici, nudità, erotismo, morte, assenza. Un notevole ampliamento dei temi e dei motivi di un film, nel senso di un approfondimento del minimo e del dettaglio si può osservare, in un altro periodo storico (gli anni Sessanta) e con diversi elementi, nella filmografia di Chris Marker e Agnès Varda, due cineasti francesi che hanno coniugato formidabilmente la Storia con l'anodino, il quotidiano, ecc. Quest'ultimo polo è ciò che, qui, conta: cortometraggi come Le mystère Koumiko (1965) e Elsa la rose (1966) sono il background diretto di Irène e Le filmeur (Cavalier, 2005).
L'opera diviene strettamente autoreferenziale, estremamente ravvicinata, impregnata da un tipo di soggettività differente da quella che veniva stilizzata nei film della Nouvelle Vague (finanche qualcuno così radicale come Philippe Garrel inseriva le sue esperienze, negli anni Settanta e Ottanta, nella forma finale del film di finzione: il carattere sperimentale non minava in questo senso la centralità della messa in scena, per la quale veniva mobilitata un'intera squadra di ripresa). Si tratta qui di scoprire una specie nuova di intimità, del tentativo di catturare il dritto e il rovescio dell'immagine e ciò che la preesiste, «il film in corso» (Cavalier dixit), la realtà prima della scena, che esclude la diegesi, e il cui statuto diffuso potrebbe definirsi come ciò che avviene dall'altra parte della camera ed è registrato senza altri intermediari, cioè con il minimo possibile di mediazioni: autoritratto, autobiografia, home movie, confessione, diario o cinema da camera (chamber cinema) (Halfon, 2020, pag. 64).
L'apparato retinico è preso attraverso lo specchio, non più sporadicamente, come in passato, ma come una presenza costante, una figura ricorrente dello sguardo (mezzo secolo prima, Godard lo aveva già fatto nell'una e nell'altra forma in La Chinoise, in Loin du Vietnam); vengono mostrati apertamente allo spettatore gli strumenti tecnici coinvolti nell'elaborazione dell'opera audiovisiva, in particolare la macchina da presa, ma anche lo studio di lavoro, ecc. – e, soprattutto appare, al posto degli attori (che occasionalmente guardano anche la telecamera), il cineasta in quanto filmmaker (come nel nome del «saggio filmato» di Cavalier).
«Gli specchi sono ghiaccio che non si scioglie» (Paul Morand, a Kupchik, 2021, pag. 11). Irène si articola come la ricerca di qualcosa che non può essere recuperato, già coinvolto in un processo irreversibile di scomparsa: il regista dice verso la metà del film «La casa dove ho saputo della morte di Irène è stata venduta dal nostro ospite, così attento. Non riesco più a vedere, udire, Irène che si muove». Rimane qualcosa che non potrà mai essere trattenuto nella realtà, a cui si accederà come si osserva un'immagine lontana, o si ricorda con la fallibilità della memoria. Con gesti eclissati, più vicino a Resnais che a Cocteau, Cavalier farà riferimento al mito di Orfeo ed Euridice. C'è qui un evento passato traumatico che riguarda direttamente il regista, visto che è stato coinvolto nella catastrofe che ha portato alla perdita definitiva della donna che amava. Questa situazione che non può essere riparata diventa una sorta di debito che può prolungarsi per tutta la vita: Cavalier parla solo davanti allo specchio, trent'anni dopo la morte di Irène, che era sua moglie, ripetendo, verso la fine del suo film, «Sono venuto a chiederti scusa».
«Ma ci sono debiti da pagare. Non si attraversa lo specchio liquido che separa la non-esistenza dall'esistenza, la morte dalla vita, per pura volontà. O può tornare con E, ma O ed E non devono avere contatti. Ognuno rimane opaco all'altro, invisibile. Nessuno può guardare l'altro, per paura che il vuoto venga a sopraggiungere e il visibile sia riportato all'invisibile, per sempre». (Wark, 2022, p. 205)
Cavalier prova (prova e, nello stesso tempo, dimostra) come fare un film sul suo grande amore del passato (la differenza con Le filmeur in cui mostra la sua vita coniugale attuale è nota). Al centro del film, Irène, la donna morta in un incidente d'auto, dopo una disputa di coppia che probabilmente non avrebbe molta importanza se non fosse per il suo orribile esito. È curioso che il cineasta scelga di non lavorare con l'archivio cinematografico disponibile su Irène, eludendo così i ruoli che lei ha interpretato come attrice cinematografica, qualcosa che contribuisce allo stile di questo film senza immagini – o, meglio, con alcune immagini precise (diverse fotografie) –, dotato di una grande capacità di scavare la realtà, ritagliando tratti che a prima vista sembrano insignificanti, ma che funzionano perfettamente nel loro accumulo: due fotografie che mostrano la bellezza lacerante di Irène Tunk, scattate dallo stesso cineasta, la stanza in cui ha visto sua moglie per l'ultima volta, innumerevoli oggetti e dettagli, ecc. Come filmare il mondo visto? E l'invisibile? Secondo Lydia Davis, Irène è un film che lavora con frammenti nel senso di rovine e, allo stesso tempo, è, come già detto, un'opera il cui corso mostra la sua costruzione. Un film frammentario, nel senso che «lavora con il silenzio, con l'omissione, con l'abbreviato, e così allude a un'assenza, ma trasmette l'effetto di un'esperienza completa» (Davis, 2021, p. 204).
Se paragonato ad altri tentativi simili, Irène appare senza dubbio come un’opera audiovisiva di un marcato carattere borghese, a differenza per esempio di alcuni video di Marker e Varda, Cavalier non si avvicina qui a questi rivoluzionari; anche se nel suo film si parla dell'origine proletaria di Irène; non è in modo esplicito un'opera fatta politicamente; non crea forme completamente nuove, come fa JLG. Tuttavia, nella sua forma prosaica, possiede una bellezza straordinaria, come altre opere minori, e anche se si potrebbe sostenere che non si tratta di un film tradizionale (anche se nei titoli si dice che è «un film di Alain Cavalier»), l'intensa emozione che provoca proviene dalle operazioni di base del cinema: pensare, filmare e “montare” – nell'originale godardiano – pensare, scrivere, registrare ed editare – nella sua deriva videografica e di diarista. La relazione esponenziale tra il diario scritto e il diario filmato si stabilisce a partire dai tre quaderni su cui il cineasta registrò i suoi pensieri su Irène nel 1970, 1971 e 1972. Cavalier filma i suoi manoscritti, legge gli incipit. Dice: «apro il quaderno del 1972 (...) cerco lei». Considera «il sale, il lievito e, allo stesso tempo, il pericolo di questi quaderni». I passi dedicati alla donna continuano anche dopo la fine della sua vita: Cavalier parla a un certo punto di una situazione difficile in cui sua moglie gli ha confessato di aver commesso adulterio con un uomo e si chiede come sia riuscito a registrare nel quaderno quella litania erotica di Irène pochi giorni dopo la sua morte; un ricordo che sarebbe stato impossibile ricostruire nel corso degli anni. È questo un modello comune a memorie e opere di carattere autobiografico come, ad esempio, Self-Portait (Celia Paul) e Just Kids (Patti Smith), per cui la scrittura privata del diario funziona come una forma precedente decisiva, molto anteriore nel tempo, la cui base servirà a costituire, alchemicamente, l'opera pubblica.
La scrittura come forma esteriorizzata della memoria (Davis, 2021, p. 211). Qualcosa che il film tematizza nei pensieri del suo regista: «La mia penna non ha lasciato nulla fuori, né una singola invocazione, né un solo grido. Ho scritto tutto. Ma le parole diventano sempre più fredde, stagione dopo stagione. Ora mi aiutano a malapena a sentire qualche emozione. Sono la morte e non più l'illusione della vita che trascorro, che ho mantenuto per tutto il tempo che ho potuto».
Questo diario filmato è anche la registrazione di alcuni giorni nella vita del cineasta, ossessionato dalla figura spettrale della donna. È un film che, come dice il regista, forse non esisterebbe se avesse visto il volto senza vita di Irène all'ospedale, quando gli chiesero di riconoscere il suo cadavere, un compito che alla fine venne assolto dal fratello del regista. Cavalier è l'uomo con la macchina da presa, incarna l'enunciazione, le idee sul corpo assente, non presentificato della donna (la ricerca di un'attrice da interpretare nel film non prospera), provengono dal corpo del cineasta, profondamente colpito dalla progressione del lavoro (l'incidente sulle scale mobili mentre riprende con la videocamera, l'herpes sulla schiena). Ma il corpo è anche dato dall'importanza della voce del cineasta, specialmente in un’opera attraversata da un soliloquio che presenta molteplici registri, dal pensiero al discorso, dal discorso al pensiero: una voce impressionista, poetica, contraddittoria, presa dall'emozione, con un francese modulato con esagerazione, con le sue inflessioni, le sue aggiunte fatte en passant, le sue ripetizioni; il grano della voce a momenti sdoppiata. Quella voce si rivolge principalmente a un tu – a Irène – o utilizza la prima persona – il direttore immerso nelle sue cavillazioni e riflessioni –.
Il regista si mostra apertamente come un borghese di cultura, cioè qualcuno che non è un proprietario (qualcosa che si può vedere anche in Le filmeur, dove il regista organizza il suo trasloco, confermando che dipende di nuovo da un affitto). In un passaggio del film, sull'immagine di una camera con due letti che una volta condivise con Irène, Cavalier commenta che aveva bisogno di lavorare nella pubblicità per pagare un appartamento di due stanze, per far sì che Irène riuscisse a conciliare il suo sonno così leggero. Un altro momento del film, che mostra una confessione fatta dalla moglie, indica lo stesso intreccio socio-economico: forse lei non si sentirebbe così male se lui fosse un regista famoso. La condizione di classe si ritrova in tutta la sua ambiguità nella forma scelta del diario filmato, poiché il confine tra svago e lavoro si confonde in un formato a metà strada tra il personale e il professionale. Il compito del regista che adotta generi minori (memorie, diari, lettere, ecc.) può essere svolto ovunque. L'impossibilità di filmare Irène (Cavalier ritrova il suo sguardo solo in un quadro di Manet) non potrà essere compensata dalla ripresa ricorrente degli spazi che il cineasta ha abitato in compagnia di lei. Viene filmato soprattutto il passaggio solitario di Cavalier oggi per stanze vuote di alberghi, case prestate e persino un castello (appartenente ad un amico aristocratico assente). Sembra allora che, a prescindere dalla sua corporeità, su cui tanto si insiste nel film, sia il regista a incarnare lo spettro di se stesso.
«Forse è vero che l'amore è la forma più violenta dell'egoismo» (Radiguet, 2010, p. 176). Nel corso del film abbiamo assistito alla progressiva rivelazione di numerosi dettagli spiacevoli della vita insieme di Irène Tunk e Alain Cavalier, ai quali il regista si riferisce con naturalezza, commentando varie situazioni nella vita di una coppia appassionata e burrascosa. Una voce del suo diario cattura in poche parole il carattere di quella relazione insana che il regista stesso dice essere incapace di concludere: «13 maggio 1972. Cinque mesi dopo il suo incidente. Cerco di pensare aggressivamente a tutto il male che avrebbe potuto farmi. Sciocco rimedio. Oggi, il danno sembra meraviglioso. Era la vita, come la vita che lei ha sopportato da me. Quel colpo che le ho inferto il giorno del nostro matrimonio, la mattina del nostro matrimonio diventa un gesto del nostro tempo luminoso. Tradimento, ingiustizia, vigliaccheria, sono preziosi come l'amore, la tenerezza, la forza».
Irène mostra la metamorfosi del lutto e della malinconia in panegirico, lettera d'amore, diario personale e di lavoro, monumento funebre e confessione impudica.
Testi citati
L. Davis, Ensayos 1. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Eterna Cadencia, 2021.
E. Halfon, Biblioteca bizarra. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Godot, 2020.
C. Kupchik, “¿Quién le teme a Paul Morand?, en P. Morand, Tendres stocks. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Leteo Edito, 2021.
R. Radiguet, El diablo en el cuerpo. Madrid, Ediciones Cátedra, 2010.
M. Wark. Vaquera invertida. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Caja Negra Editora, 2022.
Fantasmas al mediodía
En 2009, tras una extensa carrera como cineasta, Alain Cavalier dio a conocer una pieza audiovisual rara, próxima −por su estilo menor, enunciación sumamente personal y lo que registra− al diario y al ensayo. Irène pertenece en este sentido a un cierto espíritu de época, que se define a partir del cambio de siglo por un renovado y creciente interés en formas intergenéricas semejantes, tanto más factibles gracias a la tecnología del video y sus posibilidades, entre la presteza técnica y la reducción del costo económico al momento de grabar y editar sonidos e imágenes en movimiento.
Para comprender mejor la singular empresa de Cavalier, es necesario hacer un pequeño desvío historiográfico. Si la obra de todo cineasta se inscribe −de una manera consciente o inconsciente pero siempre específica− en una tradición, es difícil no relacionar los artefactos de los cineastas-ensayistas del grupo de la Rive Gauche, la Nouvelle Vague y los directores francófonos de las generaciones posteriores con las ideas de “Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo” (1948) de Alexandre Astruc. Las teorías de los cineastas (para utilizar la expresión que da título a un libro de Jacques Aumont), tanto como sus películas, videos e incluso instalaciones, evidentemente difieren en diversas maneras del cine del futuro anunciado en ese escrito seminal. Sin embargo, el diagnóstico aportado por el texto evidentemente se anticipó al tiempo. Si bien Astruc menciona en su manifiesto a determinados autores, cineastas modernos de la década del cuarenta que sobre todo hicieron ficciones, pudo también haberse inspirado implícitamente en una miríada de títulos dispersos del cine documental que quizás conocía. Sus ideas en torno a una potencial forma cinematográfica de pensamiento, por otra parte, trascienden el profesionalismo del cine (incluso en su variante de documental poético), proyectándose más allá de un umbral hacia el que también se verá arrastrado el cine amateur. Desde el presente, podrían sumarse como ejemplos de las formulaciones del crítico y cineasta francés ciertas películas incluidas en la mayoría de los estudios académicos sobre el film-ensayo. Estas, que descubrieron o crearon temas cinematográficos más o menos abstractos, más o menos públicos, y tan diversos como, por caso, la lluvia (Regen, de Joris Ivens), la actividad de un matadero (Le sang des bêtes, de Georges Franju), las impresiones de una ciudad europea (la Niza de Jean Vigo) o el problema social de la inflación (Inflation, de Hans Richter), constituyen, por distintos motivos, obras decisivas de una corriente minoritaria que atraviesa la historia del cine. Son películas que (como la omnisciente y, en su caso, grandiosa Chelovek s kinoapparátom) definen en gran medida el horizonte de nuestro tiempo en cuanto a las posibilidades del cine: un arte contemporáneo que formaliza o vehiculiza todo lo que pueda pensarse; una tesis de Astruc que se cumplió cabalmente.
Por supuesto que cuando esta tendencia reflexiva tiende al aburguesamiento no resultará en filmaciones puramente documentales de carácter doméstico, como el desayuno del bebé (gran intuición escópica de Louis Lumière en los albores del cinematógrafo); en años recientes, se han producido genuinas meditaciones audiovisuales de no ficción sobre prácticamente cualquier momento o etapa en la vida de una persona de clase media. En Cavalier se trata de sus pensamientos acerca de diversas facetas de la mujer amada: fragmentos biográficos, desnudez, erotismo, muerte, ausencia. Una notable ampliación de los temas y los motivos de una película, en el sentido de una profundización de lo mínimo y del detalle que puede observarse, en otro tiempo (justamente los años sesenta) y con diferentes objetos, en la filmografía de Chris Marker y Agnès Varda, dos cineastas franceses que conjugaron formidablemente la Historia con lo ínfimo, lo cotidiano, etc. Este último polo es lo que importa aquí: cortometrajes como Le mystère Koumiko (1965) y Elsa la rose (1966) son antecedentes directos de Irène y Le filmeur (Cavalier, 2005).
La obra deviene estrictamente autorreferencial, en extremo próxima, impregnada de un tipo de subjetividad diferente de aquella que se estilaba en los films de la Nouvelle Vague (incluso alguien tan radical como Philippe Garrel ponía sus experiencias, durante las décadas posteriores −1970 y 1980−, en la forma final de una película: el carácter experimental no minaba en este sentido la centralidad de la puesta en escena, para la que se movilizaba todo un equipo de rodaje). Se trata aquí de descubrir una especie nueva de intimidad, del intento por capturar el anverso y el reverso de la imagen y lo que la preexiste, “el film en progreso” (Cavalier dixit), la realidad anterior a la escena, que excluye la diégesis, y cuyo difuso estatuto podría definirse como aquello que acontece del otro lado de la cámara y es registrado sin más intermediarios que esta, es decir, con el mínimo posible de mediaciones: autorretrato, autobiografía, home movie, confesión, diario o cine de cámara (chamber cinema) (Halfon, 2020, p. 64). El aparato retiniano es tomado a través del espejo, ya no de manera esporádica, como en el pasado, sino como una presencia constante, una figura recurrente de la mirada (medio siglo antes, Godard lo hizo ya de una y otra forma en La Chinoise, en Loin du Vietnam); se muestran abiertamente al espectador los instrumentos técnicos involucrados en la elaboración de la obra audiovisual —en especial la cámara, pero también el estudio de trabajo, etcétera.— y, fundamentalmente, aparece en lugar de los actores (que ocasionalmente también miran a cámara), el cineasta en tanto filmador (como en el nombre del ensayo filmado de Cavalier).
«Los espejos son hielo que no se derrite» (Paul Morand, en Kupchik, 2021, p. 11). Irène se articula como la búsqueda de algo que no puede ser recuperado, involucrado ya en un proceso irreversible de desaparición: el director dice hacia la mitad del film: “La casa donde me enteré de la muerte de Irène fue vendida por nuestro anfitrión, tan atento. Ya no puedo ver, oír a Irène desplazándose”. Queda algo que jamás podrá retenerse en la realidad, a lo que se accederá como se observa una imagen lejana, o se recuerda con la falibilidad de la memoria. Con gestos eclipsados, más cerca de Resnais que de Cocteau, Cavalier referirá al mito de Orfeo y Eurídice. Hay aquí un evento pasado traumático que concierne directamente al cineasta, puesto que se vio implicado en la catástrofe que significó la pérdida definitiva de la mujer que amaba. Esta situación que no puede ser reparada se vuelve una suerte de deuda que puede extenderse lo que dura su vida: Cavalier hablando solo ante el espejo, treinta años después de la muerte de Irène, quien fue su esposa, repitiendo, cerca del final de su película, “he venido a pedirte perdón”.
«Pero hay deudas por pagar. No se atraviesa el espejo líquido que separa la no-existencia de la existencia, la muerte de la vida, por pura voluntad. Puede que O regrese con E, pero O y E no deben tener contacto. Cada uno permanece opaco al otro, invisible. Ninguno puede mirar al otro, por temor a que sobrevenga el vacío y se lleve lo visible de vuelta a lo invisible, para siempre». (Wark, 2022, p. 205)
Cavalier prueba (intenta y, a la vez, demuestra) cómo hacer un film sobre su gran amor del pasado (la diferencia con Le filmeur en donde muestra su vida conyugal actual es notoria). En el centro del film, Irène, la mujer fallecida en un accidente de tráfico, tras una desavenencia de pareja que posiblemente no tendría demasiada importancia si no fuera por su horrible desenlace. Es curioso que el cineasta elija no trabajar con el archivo fílmico disponible sobre Irène, escamoteando así los papeles que ella interpretó como actriz de cine, algo que contribuye al estilo de este film sin imágenes o, mejor, con unas pocas imágenes dadas (algunas fotografías), provisto de una gran capacidad para excavar la realidad, recortando trazos que a primera vista parecen anodinos, pero que funcionan perfectamente en su acumulación: dos fotografías que muestran la belleza lacerante de Irène Tunk, tomadas por el propio cineasta, la habitación donde vio a su mujer por última vez, un sinnúmero de objetos y detalles, etc. ¿Cómo filmar el mundo visto?, ¿y lo invisible? Siguiendo a Lydia Davis, Irène es un film que trabaja con fragmentos en el sentido de ruinas y, simultáneamente, es, como ya se dijo, una obra cuyo curso muestra su construcción. Un film fragmentario, en el sentido en que «trabaja con el silencio, con la omisión, con lo abreviado, y así alude a una ausencia, pero trasmite el efecto de una experiencia completa». (Davis, 2021, p. 204).
Si se compara con otras tentativas similares, Irène aparece sin duda como una pieza audiovisual de un marcado carácter burgués (a diferencia de algunos videos de Marker y Varda, Cavalier no se aproxima aquí a revolucionarios, si bien en su film se habla del origen proletario de Irène; no es de manera explícita una obra hecha políticamente; no crea formas por completo nuevas, como lo hace JLG). No obstante, a su manera prosaica, posee una belleza extraordinaria, al igual que otros trabajos asimismo menores, y si bien podría argüirse que no se trata de una película tradicional (aunque en los títulos se indique que es “un film de Alain Cavalier”), la intensa emoción que provoca proviene de las operaciones básicas del cine: pensar, filmar y montar, en el original godardiano; pensar, escribir, grabar y editar, en su deriva videográfica y de diarista. La relación exponencial entre el diario escrito y el diario filmado se establece a partir de los tres cuadernos en los que el cineasta registró sus pensamientos acerca de Irène en 1970, 1971 y 1972. Cavalier filma sus manuscritos, lee las entradas. Dice: “abro el cuaderno de 1972 (…) la busco a ella”. A quien considera “la sal, la levadura y, al mismo tiempo, el peligro de estos cuadernos”. Los pasajes dedicados a la mujer continúan aun después del fin de su vida: Cavalier habla en cierto momento de una difícil situación en la que su esposa le confesó haber cometido adulterio con un hombre y se pregunta cómo consiguió registrar en el cuaderno esa letanía erótica de Irène pocos días después de su muerte; un recuerdo que sería imposible de reconstruir con el paso de los años. Es este un patrón común a memorias y obras de carácter autobiográfico como, por ejemplo, Self-Portait (Celia Paul) y Just Kids (Patti Smith), por el que la escritura privada del diario funciona como una forma previa decisiva, muy anterior en el tiempo, cuya base servirá para constituir, alquímicamente, la obra pública. La escritura como forma exteriorizada de la memoria (Davis, 2021, p. 211). Algo que el film tematiza en los pensamientos de su director: “Mi lapicera no ha dejado nada afuera, ni una sola invocación, ni un solo grito. He escrito todo. Pero las palabras se enfrían más y más, estación tras estación. Ahora apenas me ayudan a sentir alguna emoción. Son la muerte y no más la ilusión de la vida trascurriendo, que mantuve todo el tiempo que pude.”
Este diario filmado es también el registro de unos días en la vida del cineasta, abocado obsesivamente a la figura espectral de la mujer. Es un film que, como dice el director, quizás no existiría si él hubiera visto el rostro sin vida de Irène en el hospital, cuando le solicitaron que reconociera su cadáver, una tarea que finalmente cumplió el hermano del cineasta. Cavalier es el hombre con la cámara, encarna la enunciación, las ideas sobre el cuerpo ausente, no presentificado de la mujer (la búsqueda de una actriz para que la interprete en el film no prospera), proceden del cuerpo del cineasta, profundamente afectado por el trabajo en progreso (su accidente en las escaleras mecánicas mientras graba con la cámara de video, el herpes en su espalda). Pero el cuerpo es también la importancia de la voz del cineasta, especialmente en el caso de esta obra atravesada por un soliloquio que presenta múltiples registros, del pensamiento al habla, del habla al pensamiento: una voz impresionista, poética, contradictoria, tomada por la emoción, de un francés modulado con exageración, con sus inflexiones, sus añadidos hechos al pasar, sus repeticiones; el grano de la voz por momentos desdoblada. Esa voz se dirige principalmente a un tú −a Irène− o utiliza la primera persona −el director ensimismado en sus cavilaciones, sus reflexiones−.
El cineasta se muestra abiertamente como un burgués de cultura, es decir, alguien que no es un propietario (algo que también puede verse en Le filmeur, donde el director organiza su mudanza, confirmando que depende nuevamente de un alquiler). En un pasaje del film, sobre la imagen de una habitación con dos camas que en cierta ocasión compartió con Irène, Cavalier comenta que tuvo la necesidad de trabajar en publicidad para pagar un departamento de dos habitaciones, con el fin de que Irène consiguiera conciliar su sueño tan ligero. Otro momento del film que revela una confesión hecha por su mujer señala el mismo entramado socioeconómico: quizás ella no se sentiría tan mal si él fuera un director famoso. Su condición de clase ciertamente reviste toda su ambigüedad en la forma del diario filmado escogida, puesto que la frontera entre ocio y trabajo se confunde en ese formato a mitad de camino entre lo personal y lo profesional. La tarea del cineasta que adopta géneros menores (memorias, diarios, cartas, etc.) puede realizarse en todas partes. La imposibilidad de filmar a Irène (Cavalier encuentra su mirada únicamente en un cuadro de Manet) no podrá ser compensada por la filmación recurrente de los espacios que el cineasta habitó en compañía de aquella. Se mostrará sobre todo el paso solitario de Cavalier en la actualidad por habitaciones vacías de hoteles, casas prestadas e incluso un castillo (perteneciente a un amigo aristócrata que se ausenta). Pareciera entonces que, al margen de su corporeidad, sobre la que tanto se insiste en el film, es el cineasta quien encarna el espectro de sí mismo,
«Quizás sea verdad que el amor es la forma más violenta del egoísmo (…)» (Radiguet, 2010, p. 176). A lo largo del film asistimos a la progresiva revelación de numerosos detalles desagradables de la vida compartida por Irène Tunk y Alain Cavalier, de los que el cineasta habla con naturalidad. Este comenta varias situaciones en la vida de una pareja apasionada y tempestuosa. Una entrada de su diario captura en pocas palabras el carácter de esa relación insana que el cineasta −según él mismo lo dice− era incapaz de terminar: “13 de mayo, 1972. Cinco meses después de su accidente. Intento pensar agresivamente en todo el mal que ella hubiera podido hacerme. Estúpido remedio. Hoy, el daño parece maravilloso. Era la vida, como la vida que ella aguantó de mí. Ese golpe que le di el día de nuestro casamiento, la mañana de nuestro casamiento se vuelve un gesto de nuestro tiempo de luz. Traición, injusticia, cobardía, son tan preciosos como el amor, la ternura, la fuerza”.
Irène muestra la metamorfosis del duelo y la melancolía en panegírico, carta de amor, diario personal y de trabajo, monumento fúnebre y confesión impúdica.
Textos citados
L. Davis, Ensayos 1. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Eterna Cadencia, 2021.
E. Halfon, Biblioteca bizarra. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Godot, 2020.
C. Kupchik, “¿Quién le teme a Paul Morand?, en P. Morand, Tendres stocks. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Leteo Edito, 2021.
R. Radiguet, El diablo en el cuerpo. Madrid, Ediciones Cátedra, 2010.
M. Wark. Vaquera invertida. Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Caja Negra Editora, 2022.