Tommaso Pomilio

tetsuo-metal-fetishistPer quanto penetrato da circa due secoli, dal cuore del romanticismo più torbido, nel profondo del rimosso occidentale, e fin dal manifesto tecnico postulato nel 1912 per la teoresi futurista («noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica»1), l’uomo bio/meccanizzato – assemblaggio di parti bullonate o feticcio, elettrificata sarcitura di necrotica carne – invade ogni centimetro degli schermi cinematografici, all’albeggiare di quella nuova era terminale che possiamo riconoscere negli anni Ottanta. E di lì, sorto dalle frange più deviate e parossistiche dell’immaginario di massa, andrà a installarsi a pieno titolo come protagonista inalienabile del set di fine/inizio millennio; ossia, di terminale in terminale, come il soggetto nuovo imbrigliato nel network della città virtuale, delle sue piazze desertificanti e chiassose: hardware di nuova carne in alta tensione, energia immaginaria iniettabile da una catastrofe di bioporte fino alla purità dei labirinti virtuali estaticamente senza uscita (fra Strange Days e eXistenz). Per riassumersi infine nello spessore smateriato d’una pelle di avatar, di cui rivestirsi nell’intimità d’ogni laptop: entro il battito invisibile d’altro spazio scandito da connessioni senza fili, a riaccelerarsi ad ogni accensione in giri vorticosi di questo (non) nostro oltremondo. Se il soggetto-cyborg affonda la sua invasione d’ultracorpo nel paesaggio, virtuale o concretamente catastrofico, designato dal design d’un’era telematica, è perché viene a trovarsi sempre più al centro ormai del sistema sociale. O forse, perché è in sé figura della rete sociale, assoluta ed espansivamente disponibile e densa di smateriate identità: modulare connettività di soggetti a sé inconoscibili, e che, fermi sulla postazione (cablata o senza fili), si slanciano in forme di dialogicità soliloquianti.


In quei primi anni Ottanta – agli albori d’un’era consapevolmente (e, per qualche tempo almeno, felicemente) terminale, col suo mito autoindotto della Fine della Storia (e dell’umano già conosciuto) – l’ascesa del cyborg come eroe d’elezione di quel che è presente e insieme avvenire, attualizzava appunto l’avvento d’un uomo-massa artificiale e realmente virtualizzato; pelle intessuta di fibra ottica – circuiti di silicio – scossa da cortocircuitabili elettrificazioni, tali da disindividuarla in moto e deriva costante: e sessualizzato da una corrente di lingua ovunque sottotraccia in ribollimenti cremasterici o in testosteronici ultrachimismi, a configurare pixel su pixel una percezione drogata, dalla/della lingua per l’appunto, ossia della durezza inscalfibile (e perforante) del desiderio (che si alimenta di simulacri). Effetti speciali che nel celebrare lo sfondamento dell’umano, non facevano che prefigurare una vita nuova ciberspaziale; la quale sarebbe andata concretamente a consumarsi, non nel metallico spazio d’un collassato futuro industriale o post, ma nel nido d’acari d’una cameretta di nerd (una forma, questa, di soggettività, in cui incongruamente sembra declinarsi il destino d’un uomo-massa, confuso nella piazza virtuale pulsante di proiezioni programmazioni e soffici simulacri, e auto-elitarizzato): neobohemien habitat disastrato a uso di forme di vita da assorbire per intero nel pulsare, a vuoto, dello schermo.

Eppure, lo spazio in cui elettivamente torna a insediarsi, e per sempre, questo soggetto metallizzato o persino titanico (o di titanio insomma), cyborg intessuto di neocarne e metallo e chips o più arcaici circuiti stampati a schizzar via dall’etere da ere remotamente onnipresenti fino a qui, non è già il display, su cui consumare strisce di realtà virtuale, lingua su lingua, linea su linea, per la sfinente sovreccitazione della pratica cibersensuale, e dell’immediatezza del suo collasso (del suo hangover); è, per il momento, una città ipercablata, luminescente, e crash a incombere d’un baluginìo insostenibile di leds e scosse e cortocircuitare drogato e catastrofico della matassa dei contatti. Ancor più, una quintessenza di città tecnologizzata, tecnocratizzata, per intero tramata d’interzone (pullulare di spazi saturi e prossimi all’autocancellazione, che costituiscono l’elettivo paesaggio della letteratura cyberpunk e dei suoi riflessi scintillanti sul grande schermo): cioè nella pratica, una sorta di Neo-Tokyo (definita tale, infatti, nel capodopera cybernippo in formato animazione, Akira di Katsuhiro Otomo), città globale, claustrofobico iperspazio urbano, e non solo supertecnologizzata ma all’infinito ibridante, topica città-visione di ogni possibile futuro/presente, sincretizzante tutto e mutantesi in tutto, notturna, città-interno e densa di assembramenti parossistici, sita in qualche interzona tra la città superiore/inferiore di Metropolis e le galattiche città di Star Wars pullulanti di creature mutate di foggia in foggia. Città ameba (come era stata definita dal grande architetto, e teorico dell’architettura, Yoshinobu Ashihara) o città come organismo, appunto, in mutazione (come a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta avevano posto gli architetti metabolisti): ed è così infatti che topicamente appare configurarsi nel capitolo più manifesto ed esemplare del nuovo corso (dickianamente) cyber-distopico, ossia nel seminale Blade Runner di Ridley Scott; uno spazio la cui fascinazione fantastica e aliena era già stata investigata, dalla sospensione di un occhio occidentale, attraverso visioni documentaristiche e quasi psicogeografiche come quelle di Wenders o di Marker (Tokyo-Ga, Sans soleil).

Sarebbe forse pedante, persino, ripassare, in scorrimento velocissimo, le tipologie varie di cyborg, replicanti, robocops o terminatori di varie generazioni, o seguire le glorie e le catastrofi e degenerazioni varie della neocarne (in primis nella topica e assolutamente aliena cinematografia cronenberghiana), fino al ritorno (anni Novanta) degli eroi superumani e delle modificazioni genetiche di cui sono il frutto. E percorrere il fumo gotico delle/a megalopoli che essi abitano, dall’umido gocciante del sottosuolo al telo celeste substellare della sua notte claustrofobica. È bene invece arrestare il tour in questo spettro di città – focalizzarci, insomma, sull’idea ipertokyota, e sul fantasma umano non più umano che ne attraversagli iperluoghi, riassumendone l’abnorme d’immaginario.
È qui infatti, in questa città mutante più di qualunque altra, in questa idea di Tokyo, incisa di segni (Barthes) ed esposta al collasso delle segnaletiche (Daney), spazio già reso cyborg in sé, che la nuova carne postumana convertita in metallo trova la sua declinazione davvero terminale. E la rinviene nel segno, appunto, del fantasma: non uomo nuovo (più nessun futuro, a riceverlo) ma memoria sola dell’umano, inscatolata in metallo metastatico.

Scorriamo innanzitutto, del primo, più intenso e inevitabile, senz’altro irripetibile, capitolo (The Iron Man, 1989) della saga tsukamotiana di Tetsuo, gli elementi, peraltro nebulosi, della linearissima, implacabile, in gran parte oscura e solo adombrata sinossi (qualcosa che nello spessore di arcaicità ha più del mito che del propriamente narrativo). Un feticista del metallo che ne inserisce compulsivamente rottami nel proprio corpo (Orlan sullo sfondo? E l’intiero paradigma postumano?). Investito da un’auto, in costui si sviluppa un morbo che progressivamente andrà a mutarlo in una creatura di ferro, un apparato meccanico. Nei capitoli successivi, Tetsuo (lui stesso e non più lo stesso) sarà la oltreumana creatura assistente (schiava) di uno scienziato folle (impersonato dal regista medesimo), nel progetto di conquista-distruzione del mondo e di mutazione del genere umano, anticipato nelle ultime sequenze del primo film della saga, e i due utilizzeranno come cavia un semplice impiegato, con effetti devastanti (The Body Hammer, 1992); e infine, nell’ultimo capitolo, il più tragico (anche classicamente), vedremo un impiegato di banca figlio di uno scienziato che aveva condotto (quando i figli erano piccoli) un esperimento segreto, con cavie umane, per le forze armate degli Stati Uniti: avvertito dal padre di non farsi mai e in nessun caso prendere dall’ira, non appena si lascerà andare, il corpo di quest’uomo finirà per trasformarsi, emanare vapori, le cellule e i muscoli mutandosi in letale metallo, e lui, in un’indistruttibile arma di distruzione di massa, animata da rabbia incontenibile e sete di vendetta (The Bullet Man, 2009).

Avviato il suo percorso da un’esperienza di teatro grand-guignolesco e iperpop e visceralmente crudele (nel senso artaudiano innanzitutto), con una compagnia che intitolò Kaijyu Shiata (Teatro dei Mostri Marini, o più precisamente, dei mostri di piccola taglia: godzilla nani a misura e aberrazione d’uomo), Shinya Tsukamoto arriva al cinema coi suoi primi cyborgs in ultrabassa fedeltà e in super8 con Il fantasma di taglia regolare (1986, autentico avantesto della saga dei Tetsuo) e quindi con Le avventure del ragazzo del palo elettrico (1987, derivante da una sua pièce messa in scena dalla Compagnia) quando il set (lo abbiamo visto) era stato già invaso da un torvo carnevale di umanoidi in replica, intessuti di hi-tech sofisticata quanto deteriorabile catastroficamente, da Terminator, 1984, a Robocop, 1987 (dopo le creature di Blade Runner e il piagarsi abissale di nuova telecarne di Videodrome, da Tsukamoto considerati alla stregua di «genitori» di Tetsuo): passando, nel 1986, per l’uomomosca cronenberghiano, erroneo frutto d’una manipolazione di cellule, o per l’entomologia della saga di Alien (trionfo d’una organicità irriducibile, infinitamente autorigenerativa, e macchinica infine).
E avanti che tal congerie di creature, risalendo dal deserto del reale, si trasformi in continuità di morphing in narcolettici, avatariani eroi della (o dalla) console (nell’era Matrix insomma), o da incapsularsi infine in sarcofagi di energia onirica in 3D (con Cameron, Avatar).

Ed è allora già il 1989 che con Tetsuo dovrà ridiscutersi, in revisione velocissima, l’intero paradigma in cui la creatura tsukamotiana s’inscrive non come un semplice tassello.
In quell’anno, per altri versi topico, l’avvento dell’uomo di ferro, de-eroicizzato anzi e sferragliante, si pone infatti come suprema/infima sincresi di una serie di motivi subculturali, terminali e insieme fondanti, maturati in quello scorcio d’ipermoderno al collasso (segnatamente, gli anni Ottanta) in cui si abbatte e implode, per irradiarsi ovunque, la topica meteora cyberpunk e la promessa d’un Virtuale definitivo – d’una concreta era di Simulazione – che esso celebra in luce livido-estatica di Disastro. Dice Tom Mes (che di Tsukamoto è l’esegeta ufficiale): «Il potere di Tetsuo è il potere combinato dell’uomo moderno: vapore, elettricità, energia nucleare, combustibile fossile – imbrigliato da acciaio e carne, e guidato dal cervello umano»2. Il canone-cyborg, in cui questa pellicola si colloca (nell’intera gamma che dai replicanti conduce ai robocop, e con tutte le varianti dickiane del caso, dai terminators – dicevamo – fino alle aberrazioni cronenberghiane o alle reviviscenze carpenteriane della Cosa), viene trasceso in una revisione integrale e ulteriormente catastrofica, attribuendovi un valore innanzitutto sonoro. Si tratta del muro di suono – non semplice colonna (sonora) ma componente fondamentale dell’immagine – il quale sembra importato dal tecnorock anni Settanta (i Kraftwerk coi loro we-robots e menmachine) ma riconvertito in un fragore di non-futuro fatalmente di ascendenza industrial o punk (nella specie, il regista nipponico assegna un valore fondamentale all’hard-rock più acusticamente insostenibile: ma cita, come ispiratori, gli Einstürzende Neubauten)3.

Soprattutto, tale avvento lievita d’un sub-tecnologismo radicale e atroce: quello stesso che nel primo e forsennatissimo Raimi (The Evil Dead), sul solco del seminale e sempre-ritornante Romero della saga dei morti viventi (che invadono infatti il quadro di Tetsuo riconvertendosi in dèmoni mutanti, abitatori eventuali dei vagoni della metropolitana, segnatamente nell’apparizione interpretata dall’attrice Nobu Kanaoka), in quel Raimi trova il messia d’un lo-fi radicale, ad alto impatto di visceralità (raccapricciante e bizzarra). Il modello tecnomorfo si ibrida, deflagra, a contatto con l’onnipresenza di un immaginario magico e barbaro di puro colore nipponico, nel dominio di spiriti, demoni, goblins (lo stesso che si àgita in Kwaidan 1964, le sconvolte Storie di fantasmi di Masaki Kobayashi, o anche nei parossistici e grotteschi scenari di violenza urbana dei film di Koji Wakamatsu), o magari nella reviviscenza di golems sull’asse Meyrink-Wegener; l’ipertecnologia collassa in bassissima definizione, sgrana e brucia i suoi neri, sfoca e rende illeggibili i bianchi, impraticabili… L’opus siderurgico, risorto dalle ceneri delle prime avanguardie con le loro ineffabili, parossistiche sinfonie del metallo (da Metropolis a Ballet mécanique, poniamo, fino almeno all’Acciaio (presunto) pirandelliano di Ruttmann), e riambientato in bassifondi (post) industriali, finalmente deserti, improduttivi, né più dotati di langhiano epicizzante splendore (ma invece polverosi, meschini, antiepici in tutto, strade pulsanti in passo singolo non troppo a distanza dalla parossistica flânerie del clergyman di Artaud-Dulac) o designati dall’opacità elettrica del puro suono (Alberto Momo parla, opportunamente, di soundscape [cfr. Momo 2004] ), questo opus terminale non fa che designare un percorso invertito e degenerativo, controalchemico e insomma catastrofico, della materia.

È il tratto, dico, che porta dal metallo alla ruggine, dallo scintillìo accecante all’opacità delle superfici, dalla purezza specchiante delle lamine all’accartocciarsi putrescente del minerale fatto carne, e del suo desiderio: «La combinazione di metallo e carne», dichiara il regista, «proveniva in parte da una volontà di esprimere l’erotismo […] Avevo bisogno di una metafora, per esprimerlo, e fu quella dell’invasione ed  erosione del corpo da parte del metallo» (Mes 2005, p. 59). È un moto di verticalizzazione nel verso catabatico, per metastasi di tubi, circuiti, confitti nel delirio della carne mutata e degenerata in metallurgia d’infima (indistinta) lega. È lo scuotersi senza uscita d’inscatolata carne entro la grata claustrofobica d’un esterno ad essa omologo, indiscernibile: nel rumore d’un bianco-e-nero granularmente estremo – dove, saltato ogni feticcio di verosimiglianza, la neoiperrealistica inespressività delle zone corse in velocità così intensamente deserte (sobborghi, transiti, depositi) corrode l’espressionismo grandguignolesco e catastrofico che pulsa dall’escrescenza cigolante di quei corpi; e ne viene corrosa. Nella definizione insomma d’un esterno senza vie di fuga, e a quella carne intrinseco, con-fuso. Dichiara ancora Tsukamoto: «Volevo realizzare contemporaneamente tante cose: la fusione di corpo e metallo, la mancanza di tempo per sentirsi vivere all’interno della Tokyo tecnologica, e cosa significhi in tal senso la vita» (Rampini 2000)4. È la fusione (il collasso) del tempo a lasciar implodere ogni mito del moderno, innanzitutto quello della velocità; in uno spazio alieno somigliante a Tokyo, questo campo interiore, puro spasmo tecnopsichico, «terra della realtà virtuale» in cui «la tecnologia sta sostituendo progressivamente la comunicazione» umana e dove «il cervello va ingigantendosi man mano che il corpo si riduce»: una città che «si restringe» in una pressa che àncora gli esseri umani alla macchina/mente di un personal computer: «corpi ormai ridotti al solo cervello e una città sempre più forte» (Tsukamoto in Ghezzi 2004) (che, a stretto intendere, del film è la sinossi davvero definitiva).

Così sliricata, defunzionalizzata in ogni piega, e cigolante al modo di un’immane orologeria sventrata, la materia allarga l’onda delirante del suo canto da ossessa; non più (o forse comunque non mai) l’umano depurato di organi, il suo compimento nel regno del meccanico-inanimato, capace di autodeterminarsi e rigenerarsi nel fuoco d’una catarsi oltreorganica (salvo poi inceppare i suoi comandi, collassare su di sé, riavvolgersi al proprio loop, sfuggire al medesimo governo di sé), ma invece il corrompersi d’un apparato macchinico, celibe macchina residualmente senziente, tratta nell’inorganico fuoco di (auto) distruzione. Un organismo inumanizzante e più-che-umano, il quale coincide con la compattezza aliena sedimentata ipersatura stessa della Tokyo oltrereale riflessa in questo bianco e nero, coi suoi gorghi, le sue cavità, i suoi anfratti, le manipolazioni a implantarsi nel tessuto osseo, nella struttura d’una incombente discarica del mai-finito, della possibile mutazione o nuova nascita: sorgendo dai residui.
Anche al livello della composizione o del profilmico, l’ipotecnologismo del primo Tetsuo fa da degno contraltare al crash tecnologico (e sformante) che vi si rappresenta. Racconta, ancora, Tsukamoto: «Gli effetti speciali e i trucchi di Tetsuo sono tutti artigianali. Per le scene con i mutanti andavamo a cercare tra i rifiuti dell’emittente televisiva. C’era una specie di discarica accanto al magazzino: lattice, scarti, tubi, metallo e lamiere. Raccoglievamo la spazzatura e l’appiccicavamo direttamente alla pelle degli attori con un potentissimo scotch bi-adesivo. Era un collante straordinario che non cedeva nemmeno con il sudore […] Quando abbiamo finito di girare tutti  sembravano sfigurati, avevano la pelle abrasa, macchiata e irritata dai collanti». Il corpo di Tetsuo è insomma pellicolare (cfr. Fumarola 2004) anche o specie in questo senso; non solo si rivela tramite le deformazioni impresse sulla pellicola (anche fisicamente, in espressionismi materici alla Brakhage), ma soprattutto si dà come un corpo cinetico, impresso di movimento alieno, e tenuto insieme poi non più che da un biadesivo a incorporare materiali di recupero, contatto di corpo e mondo (di non-corpo e non-mondo) per una membrana sottilissima, la sua doppia superficie… Body art cibernetica, alla maniera di Stelarc (che nel 1979 s’era prodotto in una impressionante autoinstallazione presso la galleria Tamura di Tokyo, fra l’altro).

La materia così rottamabile eppure imperitura nella presenza del suo disastro definitivo, si attualizza, di fatto, come scoria, resto in abbandono, trash, infunzionale puro, elemento riassemblabile nel radicale mutare della sua destinazione d’uso (dalle mirabolanti efflorescenze arcimboldesche fino alle ruggini trascendentali di Rodia, nelle torri di rottami a Watts); al pari del rumore costante dagli schermi televisivi nella resa in bianco e nero, sporca, nebbiosa: quella cancellazione dell’immagine che fa da pendant all’escrescenza insostenibile, metastatica, dell’immagine di deperibile ferro – ossia il rumore spento e necroticamente elettrificato d’un catodo da cui risalgono demoni e stridenti mutazioni, raschiante come sulle pareti delle arterie – nel concretarsi alieno d’un corpo-televisore che cigolante si muta, per il suo eccedersi, per il suo escrescersi. Ché è un fondo sempre mesmerico, quello che si agita dallo sfrigolare degli schermi a bassa risoluzione; tanto più se l’immagine si ringoia, sabbia in moto sul suo luogo deprivato di spessori, un piano su cui rigurgitarsi nella pesa fulmineità d’un lampo, per nascere terminalmente al Mondo: e il flash abbaglia in quell’istante medesimo in cui intiera un’Era depone la sua tensione catastrofica in una catarsi virtuale – infero delirio angelicante – per esporre nell’insostenibilità del primo piano il cupo scintillio del suo hardware, l’eccedere delle carrozzerie obnubilanti: l’incubo torturante della visione che si proietta da un interno di chiodature estroverse, dal cigolante incedere/invadere d’un transgender Vergine di Norimberga (ultima sequenza della pellicola, infatti).

Qui, nel culmine (anni Ottanta) della sua epopea, il trashismo svela allora la sua natura viscerale, profonda: non solo in relazione ai materiali ossia al manufatto, alla fabbrica (biadesiva) dell’essere (oltre)umano già evoluto in degenere congerie di ferro di recupero, eternante la propria metastasi senza termine, ma proprio come modalità discorsiva, retorica: filmica, figurativa (nell’esercizio di quel bianco e nero così profondo, industrial, e insieme psichico – alla Eraserhead, poniamo – a trascendere ogni residuo dato di realtà, a trasporlo su altro, barbarico e parossistico, piano). È così che l’apparato tecnologico, già reso infunzionale, in questo cinema messo a nudo (pelle di pellicola vibrante), in questo cinema della bizzarra crudeltà precipitato abissalmente in un buco nero oltre ogni rappresentazione, l’apparato tecnomorfo (dico) collassa nell’opzione per una definizione ultrabassa: cappa minerale appesantita sulle palpebre, spolverio di grana fotografica negli occhi (della sala), e tutto mentre il tessuto stesso diegetico si sfarina in polvere o rumore, diventa illeggibile in tutto (deposto qualsiasi preconcetto di verosimiglianza, dirigendosi invece all’impossibile): massa entropica di materia al collasso: che si cabla e scuote sul fondomelma della sua stessa ottusità; e l’errore (di sistema) si allarga a fondare distopicamente Mondo.

«Trasformiamo il mondo in una massa d’acciaio. Facciamolo arrugginire tutto così che si sbricioli nel cosmo. Facciamo ardere la terra con il nostro amore. Mettiamocela tutta!» – Con queste parole, e nella definizione ludico-apocalittica di un «game over» (graficamente evocato lì in coda) che insieme chiude (terminalmente) e serializza (nell’incombere infatti dei due e a esso diegeticamente asimmetrici sequels, 1992 e 2009, che si giustaporranno ad altro e più pop livello di definizione), va a concludersi questo singolare e forse unico capitolo della lunga serie di pellicole cyborg-centrate: quella che più forse interiorizza, organicamente, matericamente, il (de)genere in cui s’è inscritto. E anche in rapporto ai suoi sequels, Tetsuo è opera che s’ispira più direttamente, anche figurativamente, alla pratica futurista e al suo immaginario urlante e bizzarro, o (testualmente) ai «razzi e robot dei tempi del futurismo» (Rampini 2000), e alla loro aura ipermodernariante: sempre-avvenire e insieme (irriducibilmente e fin dalla Fondazione) arcaica e barbara. «All’epoca pensavo anche ad alcune opere del futurismo italiano da cui ero affascinato, immagini antiche per i nostri giorni, ma che tuttora trasmettono un senso unico di modernità» (Tsukamoto in Novielli 1997)5. Il neobarbarico futurista è l’unica visione praticabile, ormai distopicamente, di un presente (megalopolitano) ridotto ormai a crashante, sbriciolante, massa di metallo da arrugginire.

Ma non è soltanto l’icona dell’uomo di ferro, quel che d’acchito ci proietta (lo vedevamo) nel desueto ipertecnologismo dell’assoluto futurista. Non solo il topos marinettiano del palingenetico incidente motoristico (con cui ha inizio Tetsuo, con cui catarticamente si apre il futurismo nella Fondazione del 1909), o le suggestioni proiettate da una pellicola archeofantascientifica, e prototipica, come L’uomo meccanico (1921) di Cretinetti (André Deed), e neppure l’eco, per quanto labile e forse involontaria, probabilmente mediata da Brakhage, degli esperimenti sincromatici alla Corradini, qui innescati in un circuito di ipervelocizzazione (per cui Esposito rileva che, con Tsukamoto, più che l’essere mutante già approfondito nel cinema giapponese, ciò che si filma è «l’essersi mutato dell’occhio (nipponico) stesso» (Esposito 2004); né forse la ripresa (stavolta più dichiarata) del segno (già anticinematografico) di Boccioni (Forme di continuità nello spazio), qui metastatizzante; o la retorica stessa della velocità, che è tema e tecnica qui fondamentale, pronta a condursi al definitivo collassamento; e neppure la riproposta massiccia e persino epica dei risultati più viscerali (e forse irripetuti) prodotti nella filmografia delle avanguardie nel muto (e Tetsuo è quanto di più lontano vi sia, peraltro, da un film parlato – e quanto di più assumibile invece come un esempio assoluto di film denso d’una sonorità spinta all’inaudito, all’insostenibile, schiacciato quasi dalla pesantezza metallica del suo muro di suono…).

E nemmeno è soltanto l’adesione, benché parziale o magari involontaria, ai dettami della narrativa cyberpunk («credo che il mio lavoro sia diverso dal cyberpunk», dichiara Tsukamoto, «almeno nella misura in cui io parlo della distruzione delle città moderne tuttora esistenti, mentre il cyberpunk si occupa del periodo che giunge dopo quella distruzione» [Mes 2005, p. 60] ): voglio dire, la prossimità del cinema tutto di questo regista alle soluzioni di aliena intensità visionaria proprie di quella «scuola», nel suo «premiare il bizzarro, il surreale, il formalmente impensabile» (per rifarci a Bruce Sterling, che ne cita peraltro come tratti distintivi quello di un «sovraccarico sensoriale», di un cumulo di impulsi e di materia che investe il fruitore con un «muro del suono» il quale risale dal fondo primigenio dell’hard-rock [cfr. Sterling in Scelsi 2007, pp. 39-47]6). È, quella, una postavanguardia in cui sembrano essersi assorbiti, e naturalizzati, i principii profondi del sentire futurista, in particolare quelli della tecnologia avvertita come forma di visceralità7, in vista di una ridefinizione radicale della «natura umana, la natura di sé». E neppure, infine, è il primitivismo sortito dall’età elettronica – secondo la palingenesi dal potenziale persino apocalittico – che McLuhan focalizzò nel sottolineare come l’età elettronica reinventi l’arte primitiva, «dopo aver interiorizzato il campo unificato della simultaneità»: che è poi il più lucido commento al futurismo nella prospettiva del suo realizzarsi sociale e mediatico (McLuhan 2011, p. 121)8.

È che i dettami medesimi proposti dai manifesti, specie da quello tecnico della letteratura, del 1912, sembrano qui, nella grana di questa pellicola, riversarsi quasi senza filtri; a imprimere il loro segno entro l’esperienza cibersensoria più estrema e regressiva, primitivizzante persino, che Tsukamoto visceralmente confeziona per consegnarla all’intero campo di sensibilità della sua era. E ciò, paradossalmente, dalla dominante stessa d’una moderna desuetudine, ovvero abbandono della prospettiva dell’assoluto-moderno in quanto ideologia e in quanto estetica, che il film riflette e riproietta sul suo spettatore.
Ciò avviene a partire dal piano stesso della composizione filmica, e fotografica («Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine»9), e da questo ritornando al piano del contenuto o meglio al livello della materia: nella distruzione dell’io cioè di «tutta la psicologia».
Nell’avvento insomma di essa, la pura materia, la sua ossessione lirica, la Materia «di cui si deve afferrare l’essenza a colpi d’intuizione», e che andrà a «sostituire la psicologia dell’uomo»: e tutto, per vincere «l’ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori». Sono i «movimenti della materia, fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi di una essenza più significativa», quelli che il cinematografo (secondo i principii di quel manifesto) è in grado di offrire; Marinetti si riferiva, lì come altrove (come nel manifesto della cinematografia, del 1916, firmato con Corra, Settimelli, Ginna, Balla, Chiti)10, alla tecnica già precinematografica del passo singolo, che a quell’altezza era stata già utilizzata ampiamente da maestri pionieri del cinema estremo, come Méliès o Segundo de Chomon: una prospettiva arcaizzante e persino barbara di attribuzione di movimento, e straniata forma di naturalezza, che condurrà presto alle visioni di Starewicz o, più avanti, a quelle di Svankmajer (o magari, per vie diverse, a quelle di Norman McLaren), e che nel primo Tetsuo sembra la dominante assoluta: «Le scene oniriche, gli effetti speciali sono semplicemente girati a passo singolo, un fotogramma alla volta, che è il mezzo più economico e barbaro per riuscire a bluffare dignitosamente» (Benigni)11.

L’epico finale (che citavamo) del film, pur invertendone il segno si pone nel medesimo segno dell’Avvento, su cui aveva insistito il manifesto del 1912: «Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico»12; e l’uomo meccanico, dalle parti cambiabili, ne è il re, e il profeta.
Ma è un po’ tutta la teoresi e il meraviglioso futurista («prodotto dal meccanismo moderno») che, degenerandosi in ruggine d’infunzionale, si riassume in questi fotogrammi tsukamotiani; non è solo l’assimilazione dei principii della cinematografia, certo, ma il riverbero grandguignolesco del suo Teatro di Varietà, così come lo si descrive e lo si postula nel manifesto del 191313, un teatro che questo regista sembrava già aver implicitamente tradotto nell’esperienza anteriore a quella cinematografica, con la sua compagnia di Kaijyu. (E, come specularmente, ricorderemmo quel passaggio dal manifesto del 1913, in cui Marinetti, primo fra i «records raggiunti finora», che il Teatro di Varietà è capace di offrire, cita «massima velocità e massimo equilibrismo e acrobatismo dei giapponesi», prima della «massima mostruosità anatomica»14).

«È la solidità di una lastra d’acciaio, che c’interessa per sé stessa», parrebbe poter ripetersi per questo film, come nella sintetica asserzione del 191215. Ma, al pari, il sentimento che sottolineava Tsukamoto, di una compresenza di arcaico e di straniantemente moderno (cogliendolo nelle immagini del futurismo), è la materia emotiva su cui opera questo medesimo film. Il sentimento d’un collasso del futuro provato sulla ipersensoria pelle digitale del presente è ciò che incombe con catastrofico estro da punk grandguignolesco sulle ardenti sgranature di questa pellicola, e del suo soggetto metastatico. Non meno, è il senso radicale di superamento e desuetudine, a nutrire corpi i quali espongono a dismisura l’inadeguetezza della loro matrice siderurgica, nello scenario di una modernità realizzata e irrealizzante, che fa a meno del corpo non meno che della materia; e delle ossessioni liriche di entrambi. Nella scena di un tempo, voglio dire, che non li include se non come residui, privi di funzionalità nello stesso uso compulsivo e deviato, e pure mai più eliminabili nella catastrofe delle discariche sparse sulla desertica superficie di quanto, malgrado tutto, è il reale. Non la lastra d’acciaio, infine; ma i rottami di quelli che ne furono i manufatti.
Il loro guasto senza smaltimento, l’urlante carnevale di ogni Gioco Concluso.


Note

1. Marinetti F.T. (1912): Manifesto tecnico della letteratura futurista, p. 26. ↑ 

2. La citazione è tratta da un articolo di Tom Mes, Tetsuo, Verso il Potere del Tre, contenuto in Tetsuo The Bullet Man by Shinya Tsukamoto, booklet di presentazione del film per la Mostra del Cinema di Venezia (2009), privo di numerazione delle pagine (il booklet è consultabile in versione pdf). Di Mes vedasi soprattutto l’ampia monografia Iron Man. The Cinema of Shinya Tsukamoto (2005).

3. «Per me la musica è molto importante. Specialmente in Tetsuo I, volevo creare un film che desse al pubblico la sensazione di assistere a un concerto live. L’immagine e il suono sono allo stesso livello, a volte procedono assieme, a volte sono in conflitto. La musica non è mai sussidiaria all’immagine, e uso il sampling [campionamento] per evidenziare il nucleo concettuale del film. […] Quando ho girato Tetsuo I avevo in mente gli Einstürzende Neubauten» (Ghezzi 2004). La dichiarazione è riportata nel booklet accompagnatorio al cofanetto Rarovideo del film (più che libretto, vero e proprio volume monografico in realtà) con contributi di Lorenzo Esposito, Donatello Fumarola, Enrico Ghezzi, Alberto Momo, Giona A. Nazzaro, testi di Aldo Nove, Tommaso Ottonieri, Isabella Santacroce, Helena Velena, e dichiarazioni del regista. Le pagine del volume non sono numerate.

4. È una dichiarazione resa a Giampaolo Rampini, nel quadro di una videointervista datata 12 maggio 1998, a lui dedicata: «Tsukamoto and Tokyo. A documentary-interview».

5. La dichiarazione è tratta da un’intervista rilasciata di Tsukamoto a Venezia nel 1997, in occasione del suo soggiorno nella città lagunare in veste di giurato della Mostra del Cinema di quell’anno.

6. Ci riferiamo alla topica prefazione all’antologia del «movimento» a cura di Sterling, Mirrorshades: The cyberbunk anthology (Sterling 1986). Preferiamo qui citare il testo dalla sua ripubblicazione nella bella e ricca antologia di scritti sul movimento cyberpunk, curata da Raf Valvola Scelsi, che con la fondazione della rivista Decoder e in seguito della Shake edizioni, è stato senz’altro fra i più illuminati interpreti del movimento in chiave di antagonismo culturale.

7. Sterling intende infatti tale «visceralità» come qualcosa di «pervasivo, assolutamente intrinseco, intimo», che «si conficca nella pelle» con i suoi apparati – walkman, personal computers, telefoni cellulari… – quasi fossero i «circuiti implantati» che ricorrono nella sua stessa narrativa (cfr. Scelsi 2007, pp. 39-47).

8. Sarebbe altresì da sottolineare la dominante «arcaica» e insieme «estrema» di questo film, che sembra riportarsi a moduli delle avanguardie cinematografiche degli anni Venti (specie quella espressionista); osserva Tom Mes (2005 p. 63) che «la prossimità col cinema muto non è qui una semplice coincidenza»: non si tratta solo dell’uso del bianco e nero, ma in effetti tutti i moduli stilistici qui utilizzati – «l’esasperato contrasto delle luci, il trucco marcatissimo dei volti, la gestualità platealmente esagerata dei corpi» – sono già di per sé «altamente espressionistici».

9. Marinetti F.T. (1912): Manifesto tecnico della letteratura futurista. Le citazioni successive sono tratte dallo stesso Manifesto.

10. Marinetti F.T. – Corra B. – Settimelli E. – Ginna A. – Balla G. – Chiti R. (1916): La cinematografia futurista, p. 89.

11. Riporto una dichiarazione raccolta da Manlio Benigni, giornalista e traduttore, pubblicata in rete sul sito www.trax.it col titolo «Tetsuo: come nasce un cult movie».

12. Marinetti F.T. (1912): Manifesto tecnico della letteratura futurista.

13. Marinetti F.T. (1913): Il teatro di varietà, p. 51.

14. Ibidem.

15. Marinetti F.T. (1912): Manifesto tecnico della letteratura futurista.


Bibliografia

Esposito L. (2004): Aspettando il nuovo dopobomba, in Ghezzi E. (a cura di).

Fumarola D. (2004): L’atto di vedere senza i propri occhi, in Ghezzi E. (a cura di).

Ghezzi E. (a cura di) (2004): La mutazione infinita di Tetsuo il fantasma di ferro, Curti editori: Rarovideo, Roma.

McLuhan M. (1962): The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man, University of Toronto Press, Toronto. [tr. it. (2011): La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Armando, Roma.].

Mes T. (2005): Iron Man. The Cinema of Shinya Tsukamoto, Fab Press, Godalming.

Momo A. (2004): La città a due (o tre) tempi di Tsukamoto, in Ghezzi E. (a cura di).

Scelsi R.V. (a cura di) (2007): Cyberpunk: antologia di scritti politici, Shake, Milano.

Sterling B. (a cura di) (1986): Mirrorshades: The cyberbunk anthology, Grafton Books-Paladin, London.


Sitografia

Rampini G. (2000): Cronista dell’inespresso, in «Fucine mute», n. 21 www.fucinemute.it 

Novielli M. R. (1997): Il ritorno dei mutanti, www.asiamedia.unive.it 

Benigni M.: Tetsuo: come nasce un cult movie, www.trax.it


Filmografia

Acciaio (Walter Ruttmann 1933)

Akira (Katsuhiro Otomo 1988)

Alien (Ridley Scott 1979)

Avatar (James Cameron  2009)

Ballet mécanique (Fernand Léger – Dudley Murphy 1924)

Blade Runner (Ridley Scott 1982)

Le avventure del ragazzo del palo elettrico (Denchu Kozo no boken) (Shin'ya Tsukamoto 1987)

Eraserhead (David Lynch 1977)

eXistenZ (David Cronenberg 1999)

The phantom of Regular Size (Futsu saizu no kaijin) (Shin'ya Tsukamoto 1986)

Kwaidan (Masaki Kobayashi 1964)

La casa (The Evil Dead) (Sam Raimi 1981)

La cosa (The Thing) (John Carpenter 1982)

L’uomo meccanico (André Deed 1921)

Metropolis (Fritz Lang 1927)

Robocop (Paul Verhoeven 1987)

Sans soleil (Chris Marker 1983)

Star Wars (George Lucas 1977)

Strange Days (Kathryn Bigelow 1995)

Terminator (James Cameron 1984)

Tetsuo: The Bullet Man (Shin'ya Tsukamoto 2009)

Tetsuo: The Iron Man (Tetsuo) (Shin'ya Tsukamoto 1989)

Tetsuo II: Body Hammer (Shin'ya Tsukamoto 1992)

The Matrix (Andy Wachowski – Lana Wachowski 1999)

Tokyo-Ga (Wim Wenders 1985)

Videodrome (David Cronenberg 1983)