Victor Erice

kiarostami(Versione Originale)

Nel 1994, una proposta della rivista «Cahiers du cinéma» ‒ scrivere di una pellicola a scelta per un libro che intendeva commemorare il centenario della nascita del cinema ‒ portò per la prima volta Jean-Luc Nancy a riflettere sull’opera di Abbas Kiarostami. Il libro non venne mai pubblicato, ma il testo, dedicato a E la vita continua (Zendegi va digar hich, 1992) ‒ unica pellicola di Kiarostami vista a quei tempi dal filosofo francese ‒, fu divulgato grazie alla rivista «Cinémathèque».

Sei anni dopo, rispondendo ad una nuova sollecitudine editoriale, e coincidendo quasi con una conversazione con Kiarostami a Parigi, Nancy ebbe l’impulso necessario per la redazione definitiva del testo che il lettore ha ora tra le mani. Intanto, in questi anni, la produzione cinematografica di Kiarostami era cresciuta, includendo tre nuovi titoli, Sotto gli ulivi (1994), Il sapore della ciliegia (1997) e Il vento ci porterà via (1999), che Nancy ebbe modo di vedere e sui quali basa alcuni aspetti di un’analisi fondata, nell’essenziale, sulla sua visione iniziale di E la vita continua.

Al di là del suo carattere specifico, il saggio di Nancy deve essere collocato all’interno di una visione ‒ artistica, filosofica e politica ‒ che il lavoro di Kiarostami ha suscitato in tutto il mondo occidentale, proprio in un momento in cui, scomparse le grandi utopie, l’immagine viveva una crisi che andava di pari passo con la crisi dell’energia. Facendo irruzione nel bel mezzo di una cultura cinematografica che aveva alle spalle più di cento anni d’esperienza, non è strano che il cinema di Kiarostami sia stato recepito come una folata di aria fresca che veniva a purificare l’ambiente rarefatto della postmodernità.
L’importanza di questo effetto iniziale andava molto al di là di quello che, di solito, si ritiene tipico della cinematografia periferica, per un verso alleviata dal peso della storia, per l’altro caratterizzata dalla sua inevitabile nota di esotismo. E, la prima retrospettiva europea dedicata all’opera di Kiarostami, organizzata dal Festival di Locarno nell’agosto del 1995, ne rappresentò la prova definitiva. Fu possibile allora accertare che, straripando ampiamente da una cornice prettamente locale, nonché esplorando tutte le ipotesi e le possibili combinazioni della narrazione per immagini, le pellicole di Kiarostami ipotizzavano un interrogativo essenziale riguardo il cinema dell’ultimo periodo del ventesimo secolo. Inoltre, privata dei belletti tipici della grande fiction, l’immagine sembrava incontrare, in queste pellicole, la sua funzione primordiale di “finestra aperta sul mondo”, liberata dall’impegno di essere convertita in simbolo o rappresentazione.

I primi film di Kiarostami proiettati in Europa avevano permesso di parlare di un’arte del presente, che stabiliva una nuova relazione tra il documentario e la fiction: in definitiva si poteva parlare di una nuova epifania del reale. Tuttavia, la conoscenza a posteriori di tutta la sua opera artistica, caratterizzata da una dimensione multidisciplinare ‒ cinema, fotografia, videoarte, poesia… ‒ dimostrava, come segnalato da Alain Bergala, che il nostro autore era capace altresì di pensare il mondo come una costruzione astratta, in cui si potevano percepire le tracce della ricca tradizione del suo Paese.
Il maggior contributo del testo di Jean-Luc Nancy, scritto, nella sua versione definitiva L’évidence du film, nel 2000, e coincidendo con la pubblicazione de L’intrus e Le regard du portrait, consiste nella rivelazione, da parte del filosofo, di uno dei principi cardine dello stile di Kiarostami: ossia la sua capacità di mettere in gioco il ruolo dello sguardo e l’uso che facciamo dello stesso. Un ruolo che, sottolinea Nancy, non nasconde un nuovo concetto della rappresentazione, bensì si riferisce alla sua essenza ontologica. Né sguardo sulla rappresentazione né sguardo rappresentativo, piuttosto qualcosa di ben più semplice: mobilitazione dello sguardo. O ciò che è uguale: aprire gli occhi.

Nancy approfitta di quest’occasione per esporre la sua idea di cinema: un gesto inevitabile per chi, come lui, ha sempre dimostrato il suo interesse per quella che chiamiamo settima arte, e alla quale perfino le circostanze l’hanno avvicinato1. Nella sua riflessione teorica, il cinema appare non come un’arte della visione, ma dello sguardo ‒ quello che poi fu in origine ‒, inteso però, e soprattutto, come indubbio oggetto della filosofia. Si comprende, allora, il suo speciale interesse per le peculiarità dell’opera di Kiarostami (di cui parlavo all’inizio), quelle che gli servono, dunque, a stabilire una connessione tra filosofia e cinema, nel cui stato attuale si avverte più di un aspetto in comune. È da qui che, all’ombra del pensiero decostruzionista, entrambi appaiono situati sullo stesso piano, di fronte alla crisi della Modernità e dei suoi strascichi: la fine della metafisica, delle grandi narrazioni, delle ideologie, dell’umanesimo.
«Fino a poco tempo fa ‒ scrive Nancy in Le sense du monde ‒ si poteva ancora parlare di crisi del senso: una crisi si analizza, si supera. Oggigiorno, siamo molto lontani da tutto ciò: tutto il senso è in uno stato di totale abbandono. Questa circostanza ci fa venire meno, e, senza dubbio, sentiamo che anche noi viviamo esposti all’abbandono del senso». Nancy descrive un presente in cui le cose ormai non tendono più verso un destino preciso, o, a caso, verso un luogo imprevedibile, dove senso e verità non formano una coppia omogenea bensì contraddittoria.

In un tentativo di ricostruzione, per smarcarsi dall’atteggiamento estetizzante del nichilismo postmoderno, Nancy propone di ricominciare da zero, ossia inventare una nuova ontologia, fare in modo che la devastazione del senso del mondo diventi una possibilità. Non si tratta di creare un nuovo senso, ma di portare questa possibilità fino alla fine, lasciandola in sospeso, aperta, ricettiva, vigilante. Se il senso non è solo quello che si è perso, ma innanzitutto quello che sta per vedere, che sta per venire, la sua dimora, la filosofia e il cinema non possono essere oggi altro se non una scrittura disposta a registrare l’avvenimento dell’imprevisto.
Nancy valuta le pellicole di Kiarostami da questa prospettiva, facendo emergere quello che hanno di unico, come indizio di una strada per la ricostruzione del senso, che stimola una revisione del vecchio tema dell’ontologia dell’immagine cinematografica. Revisione da cui non è esclusa la realtà sociale e politica, e la sua presenza nella vita quotidiana, intorno alla quale si intreccia una tripla relazione: tra l’uomo e la donna, tra la morte e la vita, tra l’Iran antico e moderno.
Nel 1992, Kiarostami dichiarava: «Oggi un cineasta deve necessariamente interrogarsi sulle immagini e non limitarsi a produrle». È giustamente in questo momento critico che sorgono alcune delle questioni che Nancy considera essenziali: un furto è la condizione del dono dello sguardo? È necessario rubare il reale per realizzarlo? Un fotografo deve dunque essere un ladro?

Sottratta alla volontà del soggetto, la foto rubata è anche la foto che più coincide con quel soggetto, con il suo vero essere, perché lo libera dalla sua condizione di padrone. E questa opinione vale per l’uso che, come regista, Kiarostami fa degli attori non professionisti, quando li sottopone a una finzione ‒ pur lieve che sia ‒ capace di estrarre dalle loro presenze una verità che si produce nel tempo di uno scintillio (la fotografia, ha scritto Nancy, è l’arte dello scintillio). Sebbene la condizione di fotografo di Kiarostami sia notevole, qui si tratta, soprattutto, del cinema, cioè dell’immagine in movimento.
La vettura ‒ descritta da Nancy come boîte à regard ‒ che circola da un lato all’altro in molte delle pellicole di Kiarostami è la messaggera di una verità cinematica che custodisce la forma di un’arte dello sguardo, sensibile al movimento delle cose più che alla sua rappresentazione, in cui a priori non conta l’idea della traslazione o dello spostamento. Verso dove ci porta? Non possiamo saperlo. Non lo sa neanche, all’inizio del suo movimento, il proprio regista: questa è la condizione sine qua non per cui il reale, unito all’imprevisto, può accedere all’immagine.

È necessario che la storia, in un modo o nell’altro ‒ perfino in balia di un terremoto ‒ si fermi, affinché tutto il senso resti in sospeso e possa così vedere il mondo. Una simile sospensione è la stessa tipica dell’esperienza poetica. È il momento di dirlo: lo sguardo di Abbas Kiarostami è, al di sopra di ogni altra considerazione, lo stesso sguardo del poeta. Ascoltiamo la sua voce:

Sobre la vía muerta,
unos escolares
ponen la oreja2.

Sul binario morto del senso ‒ quell’abbandono di cui parlava Nancy ‒ alcuni bambini si chinano per ascoltare un segreto. Quale? Quello della vita: la vita e nient’altro3.


Note

[* Prefazione a L’évidence du film, di Jean-Luc Nancy. Nel 2004 è stata pubblicata un’edizione italiana del libro: Abbas Kiarostami. L’evidenza del film, a cura di Alfonso Cariolato, Donzelli editore, Roma 2004. La traduzione pubblicata su uzak.it è di Grazia Turchiano.]

1. L’intrus ha ispirato, infatti, due pellicole francesi nello stesso anno, il 2004. Quella con lo stesso titolo, realizzata da Claire Denis, e La blessure di Nicolas Klotz. Nel 2001, inoltre, Nancy apparve come figura centrale in Vers Nancy, cortometraggio di Claire Denis per il lavoro collettivo Ten Minutes Older: The Cello. La collaborazione tra il filosofo e la cineasta è stata assidua, soprattutto a partire dal suo commento a proposito di Beau Travail, uno dei migliori film di Denis.

2. Con il vento, poema di Abbas Kiarostami, secondo la traduzione in spagnolo (inedita) di Isabel Escudero di una selezione di versi contenuti nella raccolta di poesie Ceniza de rosas pubblicata per i tipi di Editorial Pre-textos (2008). [«Sul binario morto,/ alcuni scolari/ posano l’orecchio», traduzione nostra. Edizione italiana: Con il vento, a cura di Riccardo Zippoli, Il castoro, Milano 2001.]

3. La vita e nient’altro è la traduzione [in inglese: Life and Nothing More; in italiano: E la vita continua] più vicina al titolo originale in persiano Zendegi va digar hich del film di Kiarostami che si può leggere all’inizio del testo di Nancy.