Luigi Abiusi

To-The-Wonder-Trailer2Annunciato in uscita per il 23 dicembre 2012, constatata dai distributori l'inconsumabilità di quello che pensavano, forse, potesse essere un prodotto festivo (gli ingredienti sembravano tipici: storia d'amore, attori stagliati nella loro riconoscibile, commercializzabile bellezza, luoghi oleografici, i viaggi - la morte -, eccetera), To the Wonder è stato congelato per mesi, per poi uscire in sala nel calderone incandescente dell'estate, ma insieme, almeno, ad altri film difficilmente piazzabili, di quelli scarni, silenti che fanno sfigurare la bancarella versicolore e gommosa della piazza (ad esempio Holy Motors, La leggenda di Kaspar Hauser, ancora lui; La quinta stagione, ecc.).


Ed è stata, come era già stata in una proiezione problematica a Venezia 69, una meraviglia (dolorosissima: ma ne esiste una che non provochi dolore, anzi, che non ne abbia, per costituzione, in sé? Esiste amore che non abbia in filigrana la Sofferenza, la Separazione; e desiderio che non sia di qualcosa che manca, che viene a mancare, sempre?), una di quelle che sfugge al quotidiano (sopravviversi), alle sue pratiche prosaiche e stantie, per quanto obbligatorie, all'esercizio di un'ottusa e prosastica ragionevolezza; un abominio (la meraviglia) destinato a sfavillare in un momento e a tornare desolato nell'ombra persuasa da cui proviene, masticato e sputato dalla Rettorica, posto una volta per tutte nel dominio dell'inutile. Dell'inutile lirismo, frammentismo (proprio nel senso di tensione creativa primonovecentesca che frantumava la continuità narrativa), apnea di tramonti e della trasparente umidità trasudata dal piano, dentro cui l'amore, la vicinanza degli esseri, l'aderenza fiammeggiante dei corpi, sono definiti dagli/negli spazi, nel volume liquido che riempie l'immagine (con le braccia a sgomberare il campo, il piano, da tende intrise di luce), nell'incedere minacciato dalla disaffezione, dalla perdita, da un latente, invadente comporsi di lontananze.

Estremo, addirittura sinottico, esempio di cinema di poesia, anzi cinema di lirica, di versificazione, al limite (visto che lo rompe il limite) di versetto sacro (salmodia in misteriosa ripetizione nell'ombra di una chiesa, nel silenzio di un'abside, dentro l'oscurità di una pala d'altare, quelle forme così ingenuamente belle immerse nel cielo obnubilato), To the Wonder vive nell'aporia tra la bestiale necessità del due, del disperato toccarsi e tenersi dei diversi, e la sussunzione all'originario uno, Dio ridotto a io qui e ora, nella sua sorda solitudine annidata negli ultimi spasimi del giorno. Quegli stessi ripresi, in una versione mimetica, realistica (direi flaubertiana), estranea alla sublimazione di Malick, pur in un intento poetante affidato alla sola espressività delle immagini (eppure alcune sequenze di All'ultimo soffio di vento hanno un dettato espressionistico, fittivo, abbastanza lontano, mettiamo dal Pianeta azzurro) da un grande regista italiano che il 21 giugno ha compiuto ottant'anni, Franco Piavoli, ancora, di nuovo all'opera in questi mesi, confuso in scorci campestri, corpi che sbocciano, altri che appassiscono danzando.

Insomma, per tornare a To the Wonder, un film che è valso un festival l'anno scorso, com'era stato per Holy Motors pochi mesi prima a Cannes; proprio mentre crescono le attese per i festival che verranno (almeno quelli più imminenti), per il primo Locarno diretto da Chatrian, con un programma che mi sembra splendido (da Hong Sangsoo ad Albert Serra, ad Aoyama, a Bressane, ecc.), e per Venezia 70 ovviamente, che si preannuncia interessante, con uno Tsai Ming Liang in concorso, che vi torna dopo il capolavoro di I don't want to sleep alone; e con tutta una costellazione di grandi nomi a gremire le altre sezioni. Tra cui ancora Sion Sono (in “Orizzonti”), che, tra l'altro, capita tempestivo a varare il secondo volume della nostra collana Uzak, Il signore del caos. Sion Sono (a cura di Dario Tomasi e Franco Picollo), prima monografia sul regista giapponese reperibile in Italia (per le edizioni di CaratteriMobili).

Ma non dimentico un festival che si è ritagliato un suo spazio (abbastanza connotato) nel panorama italiano degli ultimi anni, cioè il Milano Film Festival, che nella prossima edizione avrà Uzak a collaborare ancora più direttamente dell'anno scorso (quando si organizzò la prima nazionale del Kaspar Hauser di Manuli), a fare ora da giuria al concorso dei cortometraggi, comunque dentro un contesto che sa di festa, di comunità che si tiene insieme a forza di comuni visioni.


Ma giurie e premi contano fino a un certo punto; intervengono a suggellare il (duro) lavoro di scrematura avvenuto in precedenza: di più contano le selezioni, le idee su un'architettura di "mostra" e di cinema. In questo senso Locarno, quale dimensione liminare, è all'avanguardia (come del resto lo è stato per molti anni Torino: ma cosa accadrà ques'anno con l'egida di Virzì?); così come lo è stata per gli anni di Muller la mostra veneziana (che ha raggiunto i livelli di Cannes), ora normalizzatasi, canonizzatasi (magari verso solide prove di narrazione; ma dove sono le immagini baluginanti, forse anche imperfette ma, o proprio per questo, trascendenti?), mentre ricordo l'ultima ipertrofica edizione mulleriana, con almeno 5 o 6 capolavori e una decina di ottimi film, per restare solo al concorso. E con due capolavori Kotoko di Tsukamoto e Cut di Naderi in "Orizzonti" a raccontare sì delle storie, ma senza rinunciare al pullulare di immagini nate e lasciate libere, al brulicare delle ragioni e dei meccanismi del loro nascere e del loro liberarsi dal/al Nulla.