Raffaele Cavalluzzi

Amour-2«Vai a farti fottere, vecchio coglione!» è l’insulto con cui una badante si congeda dallo scontroso ultraottantenne suo datore di lavoro (Jean-Louis Trintignant), che la licenzia per la sua stupida superficialità nelle cure prestate a sua moglie, una vecchia signora (Emmanuelle Riva) invalidata irrimediabilmente da un ictus. L’oltraggio ha il merito di lacerare quella cortina di ovattata ipocrisia con cui la società avvolge e sostanzialmente distanzia da sé, rimuovendolo, l’emblematico episodio finale per il cui tramite la malattia senile suggella per i due protagonisti di Amour – film di rigorosa tristezza di Michael Haneke – un’esistenza – agli occhi del senso comune – protrattasi forse troppo a lungo.


Infatti, nonostante una sceneggiatura si direbbe di scuola naturalistica, a ben vedere Haneke trasferisce l’orientamento nichilista del suo racconto, che si conclude con un omicidio-suicidio, sul terreno di una rarefatta anamnesi per immagini del cosiddetto consorzio civile, che non aiuta nel dolore ultimo e insostenibile. Da una parte i vuoti – il vuoto raggelante di un distinto appartamento medio-borghese abitato dai due anziani – e dall’altra il pieno di ordinaria e tutto sommato discreta umanità degli altri personaggi della storia sono i parametri della forzosa incomprensione e, di fatto, dell’estraneità spazio-temporale del mondo che entra in contatto con la malattia di Anne e con il patto d’amore (mai l’ospedale per il viaggio nel buio della fine) che suo marito Georges sente di aver stretto nel suo profondo con lo strenuo destino della donna. Alexandre, l’antico allievo della celebre pianista malata e i suoi successi oramai europei; la figlia Eva (eccellente come sempre Isabelle Huppert), restia oltre ogni migliore intenzione a prender parte veramente al dramma, e il suo banale, fedifrago marito; le infermiere-badanti, perfette estranee di una assistenza di maniera; il medico che offre le sue competenze professionali senza mai materializzarsi sulla scena della sofferenza; la coppia dei portieri, pieni di rispetto e di premure forse troppo benevoli, passano per quei vuoti e non lasciano traccia alcuna di ausilio reale, né lo possono fare, non per mancanza di sensibilità o noncuranza, ma per usualità di comportamento anche quando c’è la doverosa riconoscenza (Alexandre) o l’affetto tormentato (Eva).

È per questa condizione di solitudine e di impotenza assoluta allora che il marito uccide e si uccide? Prostrato dalla lenta, insostenibile fatica di vivere e dall’inesorabile degrado di lei, egli non può sottrarsi all’appuntamento con la morte nonostante e in virtù dell’amore. L’album fotografico per la donna e qualche racconto del lontano tempo giovanile  lui non portano a riallacciare validamente nemmeno nel ricordo due vite costrette al distacco, né possono farlo le struggenti musiche praticate dal passato e ora divenute lancinanti come ferite (Schubert, Bach, Beethoven) per esistenze rese inconciliabili con la realtà, o i conturbanti paesaggi preromantici di famosi quadri fissati a un certo punto in un’essenziale sequenza muta di pochi frames. I correlativi oggettivi dell’impianto scenico-filmico di Amour (l’intrusione di un fastidioso piccione nelle stanze vuote della casa, l’addio nel sogno finale dei compagni di una vita, il ritorno della figlia nella educatamente desolata abitazione) inquietano di straziante bellezza il senso del nulla e il mistero, con cui lo straordinario regista austriaco continua a sorprenderci con duro disincanto.


Filmografia

Amour (Michael Haneke 2012)