«... Nel mio caso, un Diario serve da supporto alla memoria,
ma soprattutto perché dà alla vita di tutti i giorni
il carattere di un viaggio, di un periplo.
L’erranza, che è il modo naturale in cui la vita si presenta,
assume il significato di un'indagine, di una ricerca.»
R. Ruiz
Nel corso della sua lunga carriera, Raúl Ruiz si è specializzato nella produzione di un'opera di carattere esplorativo, imprevedibile, a volte ermetica ma sempre animata da uno spirito giocoso che unisce il profondo e il lieve, la digressione e la ricorsività, in un combinazione che, tra fascino e perplessità, si presenta allo spettatore come un vero marchio d'autore. Questo Diario, iniziato nel 1993, quando il cineasta cileno aveva 52 anni, e terminato nell'agosto 2011, pochi giorni prima della sua morte, soddisfa le condizioni per contenere, al suo interno (come i tre volumi della sua Poetica del cinema o le abbondanti interviste rilasciate durante il suo itinerario esistenziale) tutti questi aspetti.
Quelle che seguono sono le note di una rilettura del Diario, poco più di due anni dopo la sua pubblicazione in Cile. Ritornare su quelle pagine rivela che, oltre alla meticolosa lettura cronologica, stimolata dall'effetto della scoperta o della rivelazione, questa scrittura diventa insolitamente adatta alla rivisitazione, sia ordinata che episodica. Ruiz sembra aver scritto un Diario aperto alle suggestioni tipiche della lettura casuale, sfidando ogni aspirazione all'unità nel suo raggruppamento secondo mesi e anni o persino nella possibile delineazione di periodi: il libro tende a perdersi nei meandri di una sola giornata e nelle sue risonanze ma, anche, a saltare senza soluzione di continuità da una pagina all'altra o da un tempo all'altro. La rilettura ribadisce inoltre che si tratta di una tessera-chiave nel puzzle che coinvolge qualsiasi approccio all'opera di Raúl Ruiz. Un puzzle di cui continuiamo a trovare pezzi importanti che il regista ha lasciato sparsi ovunque. Vale la pena di chiedersi allora: che tipo di «prodotto» è questo Diario?
Nella sua versione manoscritta, il Diario proviene da una serie di quaderni, generalmente di fattura elegante, in cui Ruiz riversò le annotazioni che, secondo un’espressione ricordata dal suo editore postumo, il filosofo cileno Bruno Cúneo, hanno cercato di fornire alla vita «un carattere di viaggio o di avventura». A modo loro, infatti, questi quaderni sono anche un diario di viaggio, reale o immaginario, e la cronaca di una curiosa avventura, a volte vissuta nell'interiorità dal cineasta mentre vagava distrattamente in luoghi diversi o passava il tempo leggendo o ascoltando musica, in situazioni di presunto ozio. Complessivamente, Ruiz ha scritto circa 35 taccuini in diciotto anni. Una dozzina sono andati perduti, di solito in taxi o negli aeroporti (i punti di «raccordo» favoriti dall’erranza ruiziana). Sono sopravvissute, in totale, circa 3.500 pagine manoscritte con calligrafia intricata, principalmente in spagnolo, ma con frequenti intarsi di termini ed espressioni in francese. Come editore degli originali, Cúneo ha lavorato per anni con i quaderni. Ha escluso alcune parti che erano sostanzialmente note tecniche per la produzione dei suoi film (perché questo Diario è anche un diario di lavoro) e il risultato è l'edizione monumentale che la Universidad Diego Portales ha pubblicato in due volumi nel 2018, per un totale di 1.216 pagine.
È ben nota, sia a contatto con i suoi film sia attraverso le pagine del suo Poetica del cinema, la lunga lotta condotta da Ruiz contro l'imperio di quello che lui chiamava «conflitto centrale»: la presunzione che in una storia le avventure debbano articolarsi attorno all'evoluzione di un conflitto fondativo ed eccezionale, muovendosi da un punto iniziale, una progressiva intensificazione, fino ad un climax e un adeguato e finale scioglimento dei conflitti. Tutto il lavoro di Ruiz è una macchina da guerra proliferante e frammentaria contro questo dominio del conflitto centrale. Il suo Diario non poteva essere estraneo a tale impresa e fornisce un indizio nel suo stesso sottotitolo, espandendo un po' l’argomento intimo con l’aggiunta «note, ricordi e sequenze di cose viste». È senza dubbio un Diario d'autore, ma non è un Diario intimo, nonostante alcune delle annotazioni appartengano a questo sottogenere.
Il lavoro di Ruiz, di catalogazione più che problematica nella misura in cui molti dei suoi titoli riguardano pezzi audiovisivi difficili da reperire, comprende progetti che ancora oggi sono in attesa di una versione definitiva e ogni tipo di cose prodotte, dai film maggiormente inscritti nel circuito del mainstream, fino a quelli che soleva chiamare «i miei piccoli film sperimentali» realizzati in diversi formati e media, in un catalogo che oscilla tra 130 e quasi 150 titoli. Assomiglia all'enorme filmografia di un regista dei primordi o di uno di quelli che ha lavorato in qualche studio system del periodo classico. Una performance paradossale per un regista appartenente ad una generazione compatibile con l'itinerario di una certa modernità cinematografica iniziata negli anni sessanta e prolungata fino alla sua recente morte, e anche oltre, poiché i suoi film continuano ad uscire senza soluzione di continuità. Se nel 2018 è stata la volta di La Telenovela Errante, il 2020 è l'anno di El Tango del viudo e il suo specchio distorto, un film iniziato alla fine degli anni sessanta, rimasto senza audio e che sua moglie, la cineasta e montatrice Valeria Sarmiento, ha appena presentato al Festival di Berlino con una colonna sonora reinventata. Ruiz, o forse il suo fantasma, come dicono, scherzando, suoi amici, continua a filmare e a produrre sorprese anche dopo la sua scomparsa fisica.
Due forze, fin dalle sue pagine iniziali, agiscono nel Diario: in una dimensione si sviluppa lo scritto che registra e fissa il vissuto, fino a convertirsi, minacciosamente, in una constat de mort: un certificato di morte. D'altra lato, il corpo della lettera si apre come una madeleine, addirittura la madeleine proustiana, quella che consente l'atto di recuperare il passato come esperienza rivissuta, in un certo senso, un passato che è tornato ad essere attuale. Un certo stato d'animo prevale chiaramente in questi 18 anni di scrittura, che il curatore Cúneo definisce come «malinconico». Non è, peró, uno stato d'animo paralizzante, che sarebbe tipico di una malinconia clinica, ma si tratta piuttosto una tristezza che si manifesta con contorni tollerabili e che viene attenuata dall’attività di creazione. Malinconia che, d'altra parte, è la controparte di un umorismo e di un nonsense astutamente deliziosi, anche se forse più vicini alla patafisica di Jarry o anche, più esattamente, a quel tipo di umorismo idiosincratico tipico della cultura cilena.
Grazie alla lettura del Diario si potrebbe tracciare un profilo di Ruiz che si avvicina, attraverso i suoi vagabondaggi urbani, la lentezza dei suoi movimenti, una certa mescolanza di interesse e distacco, l'ironia raffinata, il gusto per la dilettazione morosa e persino attraverso alcune sue manie lungamente approfondite, alla figura tradizionale del dandy. Ma Ruiz appartiene anche ad una categoria assai più marginale e segreta, che è stata delineata un secolo fa dall'etnografo, medico, archeologo, saggista e poeta Victor Segalen, che ha coniato il concetto di esote. Nel suo Saggio sull'esotismo, che è uno scritto sia di estetica che di etnografia, Segalen ha esposto una condizione che è solitamente associata ad una visione etnocentrica, e in particolare, a quei tempi, eurocentrica, ma lo ha fatto contropelo, da una prospettiva radicalmente altra, grazie alle sue esperienze nell'estremo oriente. Che cos'è un esote? Si tratta di un tipo di soggetto la cui vita trascorre, indissolubilmente, in uno stato di certa alterità. Questa condizione riguarda sia lo spazio, nel senso che un esote è una sfida a qualsiasi pretesa di territorialità, sia il tempo.
La percezione e l'azione di questo strano personaggio vengono influenzate anche da un effetto di spostamento, che un certo sentimento anacronico tinge permanentemente. A Ruiz piaceva pensare a se stesso come esote e lo ripeteva esplicitamente in varie circostanze, specialmente quando veniva inglobato nello status di esiliato. Cileno in Francia e di ritorno in Cile, esiliato in Europa: entrambe le condizioni vengono contestate dallo sguardo dell'esote. Accadeva anche quando dichiarava nel Diario che ciò che faceva con il cinema, nessuno lo faceva più. In ogni caso, chiariva, bisogna tener conto del fatto che quello che faceva non era mai stato fatto troppo. Ovvero: meditazioni di esote.
I ritmi quotidiani nella vita di Ruiz, secondo la sua stessa percezione e così come vengono registrati nel Diario, tendevano ad essere pausati. L'autore soleva mostrare le proprie attività come alquanto irregolari o dettate dal semplice desiderio di incontrare i suoi amici, di comprare provviste per la cena o soddisfare la sua pulsione bibliofila e collezionista. Si dilungava su questi bisogni e, tra la lamentela e il godimento a malapena dissimulato, li definiva insistentemente come «vita di un pensionato». Ma si trattava davvero di uno strano modo di vivere questi eventi, che molto spesso erano una tregua tra movimenti vertiginosi da un'estremità all'altra del pianeta, preparando progetti o girando film, assecondando un programma serrato, affrontando una vita professionale che lo necessitava sempre di più. A pagina 354 dichiarò laconicamente che: «L'uso del tempo (l'emploi du temps) sarà in qualche modo acrobatico». Si riferiva a un giorno particolare, ma la frase rivelava qualcosa in cui Ruiz era un maestro assoluto: la sua capacità di svolgere attività simultanee, di far coesistere con eleganza acrobatica una moltitudine di richieste che avrebbero logorato o addirittura incrinato l'animo di chiunque. E lo faceva con sorprendente parsimonia, senza mostrare il minimo accenno di usura.
Certa curiosa capacità per lo sdoppiamento, o forse per la moltiplicazione quotidiana, si può osservare in un periodo peculiare del Diario, in cui il cineasta ha tentato di scrivere non uno, ma due quaderni simultanei. Per due anni, 2001 e 2002, Raúl Ruiz intraprese un'avventura privata attorno a quelli che ha definito come i suoi Diari Paralleli. L'intenzione dichiarata era che uno di essi potesse essere il rinfianco dell'altro, una sorta di potenziale backup manoscritto in caso di perdita del suo gemello. Ma tutto si tradusse in un'esperienza assolutamente atipica e in qualche modo dislocata. Sfortunatamente, si conservano solo due quaderni di diari paralleli, fra quelli scritti «in transito». Forse questa loro condizione itinerante era fin troppo propizia allo smarrimento (o forse il loro destino segreto stava nell'essere stati scritti per poi perdersi, o per ricongiungersi in un futuro: con Ruiz non si sa mai).
Ma i due Diari Paralleli sopravvissuti ci consentono di pensare, facendo appello ad una vaga terminologia cinese che non avrebbe irritado il nostro regista, che si trattava dell'Era dei Diari Combattenti. Il Diario statico, quello da scrittoio, presentava un punto di vista su un fatto. Quello mobile affrontava lo stesso evento da un'altra angolazione. Oppure evidenziavano eventi diversi durante la medesima giornata. Due quaderni in disputa per il medesimo argomento e il medesimo tempo, forse indicando che la pretesa di unicità era solo un'illusione e che il rifiuto della solidità dell'identità e del conflitto centrale non doveva restare estraneo all'esperienza di scrittura di una vita. Si affacciava così, in quel periodo, non una doppia vita, ma una vita percepita come non intera, o almeno aperta a una duplicità che minacciava di moltiplicarsi ad ogni istante. Nessuno specchio riflettente di un soggetto, ma un labirinto di specchi disposti, giocosamente o malinconicamente, per assecondare il gioco delle apparenze. Nell'edizione del Diario, questo periodo sottoposto a un doppio controllo della tensione rimane registrato nelle annotazioni del Diario da scrittoio, mentre il contrappunto, preceduto da un «(D.P)», indica che le note provengono dal Diario parallelo.
L'intimo viene tratteggiato, nel Diario, anche quando adotta un carattere meditativo o quando fa capolino un appunto che assomiglia ad una confessione, sempre mediata da un velo di modestia. Quando viene rivelata la morosità del pensiero di un solitario, la dilazione si addentra nel esprit de l'escalier, questa parola o risposta «giusta» che viene in mente molto tempo dopo di quando sarebbe stata opportuna, borbottando l'accaduto in una dimensione a posteriori, come dicono i francesi, non nella stanza ma al momento di «scendere le scale», quando è troppo tardi per rispondere a tono, al momento adeguato. A proposito: El espiritu de la escalera è il titolo del suo romanzo uscito postumo, a cui Ruiz apportò le ultime correzioni pochi giorni prima della morte. È una storia di fantasmi che dialoga intimamente con le ultime giornate del Diario, che stoicamente si fa forza davanti all'imminenza della scomparsa del suo autore.
Nel livello maggiormente legato alla professione di cineasta, Diario è anche una notevole cronaca delle trasformazioni avvenute nel cinema in due decenni. Negli anni novanta, che coprono la maggior parte del primo volume, la malinconia di Ruiz è chiaramente inserita in un certo stato d'animo fine-secolare, e si percepisce la crescente difficoltà di adeguare un'opera cinematografica singolare e ribelle al contesto del cinema globale, e perché no, all'interno di un impero audiovisivo ad insediamento crescente, in cui il cinema sembra destinato a diventare un elemento di minore rilevanza. Il cinema, in queste pagine, sembra essere un'arte che ha già avuto luogo, un mezzo espressivo per cui forse è scoccata l'ora, nel senso peggiorativo dell'espressione. Ma a partire dal decennio successivo, una strana vitalità si impadronisce delle giornate del Diario, perchè Ruiz inizia ad esplorare il potenziale di quelle che chiama le «nuove cinepresine digitali» mentre la sua reputazione critica globale andava aumentando e il suo pubblico - senza abbandonare uno status minoritario - si moltiplica in tutte le latitudini: quell'idea di morte del cinema, che si nascondeva nelle pieghe delle riflessioni degli anni '90, si trasformava adesso, in nuove possibilità. La migrazione al digitale, con la promessa di nuove libertà, fu per il regista un evento vissuto con sincero entusiasmo.
Durante il periodo di scrittura del Diario, Raúl Ruiz filmò in media quattro o cinque film all'anno. Alcuni erano di produzione industriale, con star internazionali e un team tecnico più o meno convenzionale (che di solito assisteva stupito ai suoi esperimenti narrativi e di messa in scena). Altre produzioni, realizzate nei brevi intervalli tra un progetto industriale e il successivo, sono diventate insoliti capolavori.
Commissionati da istituzioni artistiche o culturali, musei, compagnie teatrali, esercitazioni condotte con studenti occasionali in seminari di una settimana, questi film fanno di ogni incursione nella filmografia di Ruiz un'esplorazione selvaggia di insolita complessità.
Una volta, forse ricordando la famosa frase di Godard secondo cui ogni travelling è una questione di morale, Raúl Ruiz dichiarò che: «ogni travelling si riferisce all'infanzia».
Nel Diario, scritto itinerante e di ricerca che si rifà a lunghi viaggi e ad intense esperienze interiori, questo movimento può considerarsi, in qualche modo, come un viaggio che percorre quasi due decenni di vita e una produzione al di fuori di ogni categoria, e finisce per orientarsi, progressivamente, verso l'infanzia. Gli ultimi anni di Ruiz, quelli del suo ritorno e anche di una certa riconciliazione con il Cile dopo un lungo esilio e la decisa assunzione di una differenza propiziata dall'identificazione con la figura dell'esote, sono anche quelli della crescita dell'importanza dell'infanzia, che attraversa parte della sua gioviale stravaganza. Un suo caro amico, il regista e attore ruiziano Ignacio Agüero, ha rivelato il fascino che il regista sentiva per un antico sussidiario scritto da César Bunster, usato nelle aule elementari per tre interi decenni, che si intitolava Il ragazzo cileno. Agüero va ancora oltre: afferma che Ruiz gli regalò una copia di quel libro rivelandogli che era anche una chiave. Tutto il suo cinema, gli disse quando glielo regalò, era lì.
Sfogliando le pagine del volume, composto da testi miscellanei che vanno dalla scienza alle storie edificanti, da episodi umoristici ad altri che cercano di stimolare i buoni sentimenti con risultati alquanto paradossali, dai ritratti di figure storiche alle storie provenienti da fonti diverse, il tutto senza soluzione di continuità, si respira un'aria tanto ruiziana quanto quella che attraversa i suoi film, il cui travelling laterale, attraverso più di un centinaio di titoli, si sistemerebbe, nella sua fase finale, tra infanzia, la morte e i fantasmi come testimonia il suo ultimo lungometraggio, La notte di fronte. L'infanzia, diceva Rainer Maria Rilke in una delle sue famose Lettere a un giovane poeta, è la patria dell'uomo. I tempi che si intersecano nel Diario sono quelli contemporanei, annodati però con altri potenti fili che provengono in maniera diversa da un passato lontano, quello dell'irrequieto bambino di Quilpué.
Si tratta della cronaca di una vita che a un certo punto si è fermata, ma anche di un altro viaggio più grande che, anche prima della consapevolezza della fine di quello individuale, avvista un futuro sopravvivente per un'opera. Ruiz, dal Diario, ammicca scherzosamente al lettore, come ad indicare che il suo cinema, quel cinema di cui continuiamo ad avere primizie quasi un decennio dopo la sua scomparsa fisica, era anche cosa del futuro. E ci sono prove di qualcosa che, menzionando il titolo memorabile di uno dei suoi film, si fa evidenza. La scrittura è la testimonianza di un'anima forte, che ha saputo rispondere mirabilmente all'auspicio che rimane vergato a pagina 362: «Morte alle forze oscure della decadenza e al peso della notte». La rilettura del Diario de Ruiz, anche acutizzando la melanconia produttiva che attraversa le sue pagine, opera come un potente antidoto contro le forze oscure menzionate dall'autore e illumina dalle sue pagine la lunga vita postuma di questo cinema dove, sempre più, appare evidente che c'è ancora tanto da scoprire.
Testo originale
Raúl Ruiz se ha especializado, a lo largo de su prolongada trayectoria, en producir una obra de carácter exploratorio, impredecible, a veces hermética pero siempre animada por un espíritu travieso que conjuga lo profundo y lo leve, la digresión y las recurrencias, en una combinación que entre la fascinación y la perplejidad se presenta ante sus espectadores como una verdadera marca autoral. Este Diario, llevado desde 1993, cuando el cineasta chileno tenía 52 años, hasta agosto del 2011, pocos días antes de su muerte, reúne las condiciones para contener, como los tres volúmenes de sus Poéticas del cine o las abundantes entrevistas concedidas a lo largo de su itinerario, esos mismos atributos.
Las siguientes son notas a una relectura de Diario, a poco más de dos años luego de su publicación. El retorno a sus páginas revela que además de la minuciosa lectura cronológica, azuzada por el efecto de descubrimiento o revelación, este escrito se hace insólitamente apto para la revisitación, tanto la ordenada como la episódica. Ruiz parece haber escrito un Diario abierto a las entradas propias de la lectura azarosa, desafiando toda aspiración a la unidad en su agrupamiento por años o incluso el posible delineamiento de períodos, el libro inclina a perderse en los meandros de una sola jornada y sus resonancias, pero también a saltar de una página, o de un tiempo, a otros. La relectura reafirma, además, que ésta es una pieza clave del puzzle que involucra cualquier acercamiento a la obra de Raúl Ruiz. Un rompecabezas del que aún seguimos encontrando importantes piezas que dejó sembradas por todas partes. Pero cabe preguntarse ¿qué clase de producción es este Diario?
En su versión manuscrita, el Diario tiene su origen en una serie de cuadernos, en general de elegante factura, donde Ruiz volcó cotidianamente las notas que, de acuerdo a una expresión propia recordada por su editor póstumo, el filósofo chileno Bruno Cúneo, procuraban brindar a la vida “un carácter de viaje o aventura”. A su manera, de hecho estos cuadernos son también un Diario de viajes, reales o imaginarios, y la crónica de una curiosa aventura, vivida a veces en el interior del espíritu del cineasta mientras deambulaba distraídamente por distintos lugares o pasaba el día leyendo o escuchando música, en situaciones de presunto ocio. En total, Ruiz escribió unos 35 cuadernos a lo largo de esos dieciocho años. Una decena se ha perdido, por lo común en taxis o aeropuertos (los conectores preferenciales de la itinerancia ruiziana). Han sobrevivido, en suma, unas 3500 páginas manuscritas con aplicación y caligrafía intrincada, fundamentalmente en español, pero con incrustaciones frecuentes de términos y expresiones en francés. Como editor de los originales, Cúneo trabajó años enteros a partir de los cuadernos. Excluyó algunas entradas que eran básicamente notas técnicas de producción de sus películas (porque también este Diario lo ha sido de trabajo) y el resultado es la monumental edición que en 2018 la Universidad Diego Portales ha publicado en dos tomos, con su total de 1216 páginas.
Es muy conocida, tanto en el contacto con sus películas como a través de las páginas de sus Poéticas del cine, la larga lucha entablada por Ruiz contra el imperio de lo que él denominaba el Relato Central. Esa presunción de que en una historia las peripecias deben articularse alrededor de la evolución de un conflicto fundamental y destacado, yendo de un punto inicial hacia su progresiva intensificación, un clímax y su adecuado desenlace. Toda la obra de Ruiz es una máquina de guerra proliferativa y fragmentaria contra ese dominio del conflicto central. Su Diario no podía ser ajeno a tal empresa y brinda una pista en su misma cubierta al ampliarnos un poco su contenido con la descripción: Notas, recuerdos y secuencias de cosas vistas. Es un Diario de autor, sin duda, pero no es un Diario íntimo a pesar de que algunas de sus anotaciones ingresen en ese registro.
La obra de Ruiz, de catalogación más que problemática en la medida en que muchos de sus títulos involucran piezas audiovisuales difícilmente hallables, proyectos que aún hoy se encuentran pendientes de una versión final, y todo tipo de piezas, desde los films inscriptos en el mainstream hasta lo que él solía llamar “mis pequeñas películas experimentales” realizadas en distintos formatos y medios, oscila de acuerdo a los diferentes inventarios entre los 130 y casi 150 títulos. Parece la enorme filmografía de un cineasta de los comienzos, o de aquellos que trabajaron a destajo en algún sistema de estudios del período clásico. Una performance extrañísima para un cineasta perteneciente a una generación que podría juzgarse compatible con el itinerario de una modernidad cinematográfica iniciada en los años sesenta y prolongada hasta su muerte, o más allá, dado que aún hoy se siguen estrenando films suyos. Si en 2018 fue el turno de La telenovela errante, 2020 es el año de El tango del viudo y su espejo deformante, película que comenzó a fines de los años sesenta, que quedó sin audio y que su esposa, la cineasta y montajista Valeria Sarmiento, acaba de presentar en el Festival de Berlín con su banda de sonido reinventada. Ruiz, o acaso su fantasma, bromean sus amigos, sigue filmando y produciendo sorpresas unos cuantos años después de su desaparición física.
Dos fuerzas actúan en el Diario, desde sus páginas iniciales, para su autor: en una dimensión se despliega el escrito que deja constancia y fija lo vivido, al punto de convertirse, amenazante, en un constat de mort: un certificado de defunción. Por otra parte, la letra se abre como una magdalena, no otra que la madeleine proustiana, esa que permite el acto de recobrar el pasado como experiencia revivida, en cierto modo un pasado vuelto a ser actual. Cierto estado de ánimo predomina nítidamente en todo el transcurso de esos 18 años de escritura, que el organizador Cúneo caracteriza acertadamente como melancolía. Pero no se trata de un estado paralizante, propio de una melancolía clínica, sino de una tristeza que insiste con contornos tolerables y que se atenúa con la creación. Melancolía que, por otro lado, es la contracara de un humor socarrón y deleitado por el nonsense, aunque acaso más cercano a la patafísica de Jarry o más aún a la talla, ese tipo de broma idiosincrática de la cultura chilena.
A través de la lectura del Diario podría delinearse, de acuerdo a numerosos pasajes, un perfil de Ruiz que se acerca, a través de sus deambulaciones urbanas, de la morosidad de sus movimientos, de cierta mezcla de interés y desapego, del cultivo de una trabajada ironía y de su delectación en placeres y hasta manías largamente pulidas, a la tradicional figura del dandy. Pero Ruiz pertenece a otra categoría bastante más recóndita, que fuera esbozada un siglo atrás por el etnógrafo, médico, arqueólogo, ensayista y poeta Victor Segalen, quien acuñó su concepción del exote. En su Ensayo sobre el exotismo, que es a la vez un escrito de estética y de etnografía, Segalen exponía esa condición que por lo común es asociada con una mirada etnocéntrica, y particularmente, en esos tiempos, eurocéntrica, pero lo hacía a contrapelo, desde una mirada ajena a occidente, de acuerdo a sus experiencias en el oriente extremo. ¿Qué es un exote? Pues un tipo de sujeto cuya vida transcurre como indisoluble de un estado de cierta ajenidad. Esa condición afecta tanto al espacio, en el sentido en que un exote es un desafío a cualquier pretensión de territorialidad, como al tiempo. Esa condición es afectada también por un efecto de desplazamiento, por el cual cierto anacronismo tiñe permanentemente la percepción y la acción de este extraño personaje. Ruiz gustaba de pensarse como exote, y lo evocó explícitamente en variadas circunstancias, especialmente cuando lo consideraban desde la condición de exiliado. En tanto chileno en Francia, y retornado en la vuelta a Chile, ambas categorías eran desafiadas por la mirada del exote. Lo era también cuando afirmaba literalmente en Diario que lo que él hacía en cine, ya nadie lo hacía. Pero de todas maneras, aclaraba, había que tener en cuenta que eso que hacía él nunca se había hecho demasiado. En suma, meditaciones de exote.
Los ritmos cotidianos en la vida de Ruiz, según su propia percepción y tal como quedaron registrados en el Diario, tendían a ser pausados. El autor solía mostrar sus actividades como un tanto erráticas o dictadas por el deseo de encontrarse con sus amigos, de buscar alguna provisión para la comida de la noche, o acaso satisfacer la pulsión bibliófila o coleccionista. Se demoraba en esos menesteres, y entre la queja o el goce apenas disimulado, los definía con insistencia como vida de jubilado. Pero realmente se trataba de una extraña forma de vivir esos acontecimientos, cuando eran respiros entre desplazamientos vertiginosos de un confín a otro del planeta, preparando proyectos, o filmando películas con una agenda apretada, lidiando con una vida profesional que lo requería cada vez más. En la página 354 declaraba, lacónicamente: “El empleo del tiempo (l’emploi tu temps) va a ser algo acrobático.” Estaba allí refiriéndose a una jornada particular, pero revelaba algo en lo que Ruiz fue un maestro absoluto: su capacidad de desplegar actividades simultáneas, de hacer convivir con elegancia acrobática una multitud de exigencias que habrían tensionado y hasta estrujado el ánimo de cualquiera. Y lo hacía con pasmosa parsimonia, sin demostrar el menor atisbo de desborde.
Cierta curiosa capacidad para el desdoblamiento, o tal vez la multiplicación cotidiana, puede observarse en un peculiar período del Diario, en el que el cineasta intentó escribir no uno, sino dos cuadernos simultáneos. Durante dos años, 2001 y 2002, Raúl Ruiz emprendió una aventura privada en torno a lo denominó sus Diarios Paralelos. La intención declarada era que uno de ellos podía ser el resguardo del restante, algo así como un potencial backup manuscrito en caso de pérdida de su hermano. Pero todo resultó en una experiencia absolutamente atípica y en cierto modo dislocada. Lamentablemente se conservan solamente dos cuadernos de los Diarios paralelos, de aquellos escritos en tránsito. Acaso esa condición itinerante fue demasiado propicia para que fueran extraviados por allí (o tal vez su destino secreto estaba en ser escritos para luego perderse, o para ser reencontrados en algún futuro, con Ruiz nunca se sabe). Pero los dos Diarios paralelos supervivientes habilitan a considerar, apelando a una vaga terminología china que a nuestro cineasta no habría disgustado, que se trató de la Era de los Diarios Combatientes. El Diario estático, el de escritorio, planteaba un punto de vista sobre un hecho. El móvil encaraba el mismo evento desde otro ángulo. O bien ambos destacaban para la misma jornada acontecimientos diferentes. Dos cuadernos en disputa para un mismo sujeto y un mismo tiempo, tal vez indicando que la pretensión de unicidad era solamente una ilusión, y que el rechazo a la solidez identitaria y al conflicto central no tenía por qué ser ajeno a esa experiencia de escritura de una vida. Allí asomaba, en ese período, no una doble vida, sino una vida percibida como no entera, o al menos abierta a una duplicidad que amenaza con multiplicarse. Nada de espejo reflectante de un sujeto, sino una disposición de espejos dispuesta, jocosa o melancólicamente, al juego de las apariencias. En la edición del Diario, ese período sometido a un doble escrutinio en tensión queda consignado por las anotaciones del Diario de escritorio, mientras el contrapunto de las precedidas por un (D.P), indica que provienen del Diario paralelo.
Lo íntimo se dibuja en el Diario de Ruiz, incluso cuando adopta un carácter meditabundo y hasta cuando asoma cierta anotación cercana a la confesión, siempre mediada por un velo de pudor. Si bien se revela la morosidad del pensamiento propio de un solitario, y la demora se adentra en el esprit de l’escalier, esa palabra justa que viene a la mente mucho después de cuando habría sido oportuna, al mascullar lo acontecido en una dimensión de a posteriori, como dicen los franceses, no en la sala sino en los momentos de “bajar la escalera”, cuando ya es tarde para enunciar la respuesta en el instante adecuado. A propósito: El espíritu de la escalera es el título de su novela póstuma, a la que Ruiz dio sus últimas correcciones pocos días antes de su muerte. Se trata de una historia de fantasmas que dialoga íntimamente con las últimas jornadas del Diario, que estoicamente se sostienen ante la inminencia cierta de la desaparición de su autor.
En el plano estrictamente relacionado con el oficio de cineasta, Diario también es una notable crónica de las transformaciones en el cine de dos décadas. En los años noventa, que abarcan la mayor parte del primer tomo, la melancolía ruiziana se inserta claramente en cierto estado de ánimo finisecular, y se percibe la dificultad creciente de sostener una obra cinematográfica singular y rebelde en el contexto del cine global, y por qué no, de un imperio audiovisual de creciente asentamiento, en el cual el cine parece orientarse a ser una zona de relevancia menor. El cine, en esas páginas, parece ser un arte que ya ha tenido lugar, un medio expresivo al que tal vez le haya llegado la hora, en el peor sentido de la expresión. Pero iniciando la década siguiente, una extraña vitalidad se adueña de las jornadas del Diario, cuando Ruiz comienza a explorar el potencial de lo que denomina las “nuevas camaritas digitales”, a medida que su reputación crítica global iba en aumento y su público —sin abandonar su condición minoritaria— se multiplicaba en distintas latitudes, ya aquella idea de muerte del cine que acechaba en los años noventa quedaba trasmutada en otras posibilidades. La migración hacia lo digital, con la promesa de nuevas libertades, fue para el cineasta un acontecimiento vivido con real entusiasmo.
Durante el período de escritura de Diario, Raúl Ruiz filmó un promedio de cuatro o cinco películas anuales. Algunas fueron de producción industrial, con estrellas internacionales y un equipo técnico más o menos convencional (que por lo común asistía azorado a sus experimentos narrativos y de puesta en escena). Otras producciones, realizadas en los pequeños intervalos entre un proyecto de corte industrial y el siguiente, se han convertido en inusitadas obras maestras. Encargos de instituciones artísticas o culturales, de museos, de compañías teatrales, ejercicios realizados con ocasionales estudiantes en talleres de una semana, todos ellos hacen de cualquier incursión en la filmografía de Ruiz una exploración selvática de inusual intrincación.
Alguna vez, acaso recordando aquella famosa sentencia de Godard sobre que todo travelling es cuestión de moral, Raúl Ruiz emitió su propia aseveración al respecto: Todo travelling —afirmó— remite a la infancia. En el Diario, ese escrito itinerante y de búsqueda que remite a largos viajes exteriores y a intensos viajes interiores, ese movimiento que puede considerarse de alguna manera como un travelling que recorre casi dos décadas de una vida y una producción fuera de categoría, se orienta progresivamente hacia la infancia. Los últimos años de Ruiz, los del retorno y hasta de cierta reconciliación con Chile luego de largo exilio y de la asunción decidida de la diferencia propiciada por su identificación con la figura del exote, son también las del crecimiento de la importancia de una infancia que atraviesa mucho de su jovial extrañeza. Su cercano amigo, el cineasta y actor ruiziano Ignacio Agüero, ha dado fe de la fascinación que el realizador tenía por un muy viejo libro de lectura escolar escrito por César Bunster, muy utilizado en las aulas de primaria durante tres décadas enteras, cuyo título era El niño chileno. Agüero va más lejos aún: afirma que Ruiz le regaló un ejemplar de ese volumen indicando que era también una clave. Todo su cine, le afirmó al darle el libro, estaba allí. Al recorrer las páginas del volumen, compuesto por textos misceláneos que pasan de las ciencias a las historias edificantes, de episodios jocosos a otros que buscan estimular los buenos sentimientos con resultados al menos paradojales, semblanzas de personajes históricos y relatos provenientes de las fuentes más diversas, sin solución de continuidad, sin duda se percibe un aire tan ruiziano como el que atraviesa sus películas, cuyo travelling en extensión, a lo largo de ese más de centenar de títulos, iría a instalarse en su etapa final en esa reflexión entre la infancia, la muerte y los fantasmas que es su último largometraje, La noche de enfrente. La infancia, declaraba Rainer Maria Rilke en una de sus célebres Cartas a un joven poeta, es la patria del hombre. Los tiempos que se entrecruzan en el Diario son los de la contemporaneidad, pero anudados con otros hilos poderosos que vienen de distintas formas de un pasado lejano como lo fue la de aquel inquieto niño de Quilpué. Son crónica de una vida que en un punto se detuvo, pero de otro viaje mayor que, incluso ante la conciencia del fin de un viaje individual, avista un futuro superviviente para una obra. Ruiz, desde el Diario, hace señas a un lector, juguetonamente, como indicando que su cine, ese cine del que sigue habiendo novedades casi una década luego de su desaparición física, también era cosa del futuro. Y queda constancia de algo que, mentando el memorable título de una de sus películas, se hace evidencia. El escrito es el testimonio de un alma fuerte, que supo responder admirablemente a la consigna que quedó plasmada en la página 362: “Muerte a las fuerzas oscuras del decaimiento y al peso de la noche.” La relectura del Diario de Ruiz, aún haciendo más nítida la melancolía productiva que atraviesa sus páginas, opera como poderoso antídoto contra esas fuerzas oscuras mentadas por el autor, e ilumina desde sus páginas la larga vida de ese cine donde, cada vez más, se evidencia que hay mucho por descubrir.