L’incipit del brano dedicato al Minotauro nel Libro degli esseri immaginari di Borges è folgorante: «L'idea d'una casa fatta perché la gente si perda, è forse più singolare di quella d'un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s'aiutano, e l'immagine del labirinto conviene all'immagine del minotauro». Nella descrizione borgesiana, il labirinto è sempre abitato, è sempre pensato sotto la forma del doppio, della duplice immagine. La geometria mostruosa di un luogo si accompagna sempre alla mostruosità di un essere vivente e, soprattutto, entrambi sono immagini che si rispecchiano.
La geometria – dei luoghi, dei corpi e delle parole – da sempre accompagna la scrittura di Borges, come quella di Cortázar d’altronde (basti pensare a Rayuela). Una geometria che diventa struttura mobile, mai definita una volta per tutte e, proprio per questo, si presenta come un’immagine straordinaria del cinema, non del cinema tout court, ma di quella idea di cinema ossessionata dalla dimensione perturbante del geometrico, del simmetrico, della prospettiva come forma della perdita. Il labirinto è una forma dinamica, si diceva; ma ciò che la rende dinamica è la particolare dialettica tra riconoscibile e apparenza, tra visto e non ancora visto. Una dialettica che, nella poetica di Borges assume spesso la forma del doppio, appunto. I giardini dai sentieri che si biforcano, i labirinti di lettere de La biblioteca di Babele o la creazione di un intero mondo (Tlòn) in Tlòn, Uqbar, Orbis Tertius, sono sempre costruzioni che non cessano di produrre doppi, duplicati, copie, come gli specchi, che «sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini».
Ma c’è di più: il labirinto borgesiano è l’immagine di un ordine apparente del reale, o forse promesso, ma mai completamente comprensibile (e proprio per questo sfugge, scappa ad ogni tentativo di comprensione): «anche la realtà è ordinata. Può darsi che lo sia, ma secondo leggi divine – traduco: secondo leggi inumane – che non riusciamo mai a percepire del tutto. Tlòn sarà forse un labirinto, ma è un labirinto ordito da uomini, un labirinto destinato a essere decifrato dagli uomini».
Se il labirinto artificiale, creato ad arte, offre la possibilità di essere decodificato, permette cioè di ritrovare un’uscita, la forma visionaria e mentale del labirinto che non cessa di duplicarsi, e che diventa l’immagine del reale, si pone come l’immagine unheimlich del mondo. In un testo ricco e denso di riferimenti come Il libro dei labirinti, Paolo Santarcangeli (che comunque non cita mai Borges né il cinema) costruisce una sorta di mappa impossibile – perché mai finita – delle forme del labirinto. C’è ad esempio il labirinto “gomitolo di lana” che nonostante l’intrico dei percorsi, basta seguire per arrivare dall’entrata all’uscita. C’è l’albero dai molti rami, uno solo dei quali porta all’uscita. E c’è il rizoma, il labirinto impossibile, in cui potenzialmente ogni punto è collegabile ad un qualsiasi altro, e in cui il cammino, la costruzione di un senso logico entra profondamente in crisi. In questo ultimo caso il labirinto è dunque la forma sensibile di un mondo che si presenta “come se” avesse un ordine, ma la cui logica non è comprensibile.
Immagini di immagini, duplicati. Se ripensiamo tutto questo dal punto di vista del cinema otteniamo non tanto una sequenza di citazioni, di rappresentazioni del labirinto (cosa possibile da fare, e anche divertente, magari); ciò che in realtà otteniamo è un’idea, come si diceva, della forma cinematografica, un’idea generatrice di immagini. Ma quali immagini? Un cinema-labirinto si struttura sulla forma del doppio, della moltiplicazione che non è mai simmetrica, che non chiude mai, tanto più quando si presenta come spazio simmetrico perfettamente chiuso. L’immagine esemplare è quella kubrickiana in Shining. Nella rilettura del regista americano del romanzo di Stephen King, tra le innumerevoli varianti e differenze tra il testo e il film – spesso noiosamente snocciolate nelle tante analisi comparate – c’è sicuramente il diverso ruolo che il labirinto di fronte all’Overlook Hotel svolge nell’economia della narrazione. Quello che in King era un altro luogo dell’hotel inteso come spazio di concentrazione del male (nel romanzo il labirinto si anima e produce mostri che minacciano Danny), in Kubrick si pone come figura del doppio, non altro spazio, ma lo stesso spazio rivisto nella sua struttura essenziale. Uno spazio mentale, spazio del cervello, avrebbe poi detto Deleuze anni dopo.
Soprattutto uno spazio che permette un moltiplicarsi della visione. Nella sequenza in cui Jack osserva il modellino del labirinto nel grande salone dell’albergo, la mdp si avvicina al modello come fosse una soggettiva straniante e noi spettatori possiamo vedere muoversi al suo interno le figure minuscole di Wendy e Danny che stanno passeggiando lungo i sentieri del labirinto. Un improvviso cortocircuito della visione abbatte dunque la distinzione tra interno ed esterno, tra hotel e labirinto, fondendoli in un’unica immagine. La simmetria prospettica delle inquadrature (ironicamente esibita lungo tutto il film) è allora svuotata di ogni fondamento: il labirinto è la figura del vortice, della perdita dell’equilibrio che ogni doppio porta con sé. Non importa quanto cerchiamo di orientarci, di fissare punti fermi nello spazio e nel tempo: il cinema-labirinto lavora proprio per scardinare i punti di orientamento, ancora di più quando li dichiara.
Si pensi allora a L’anno scorso a Mariembad di Resnais, in cui sin dal titolo l’indicazione di un tempo (l’anno scorso) e di un luogo (Marienbad) non fanno altro che attestare l’inconoscibilità labirintica del mondo. Il luogo e la sua permanenza nel tempo, lo spazio come ingannevole simmetria sono al centro di questa idea di cinema. Lo ribadisce Borges ne L’immortale: «Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine». Non sono in gioco qui i falsi labirinti di tanto cinema contemporaneo, da Nolan a von Trier, labirinti esibiti come tali, a cui si allude e che di fatto si rivelano spesso puro meccanismo scenografico; e neppure gli spazi orizzontali e verticali di Bong Joon-ho, così evidentemente progettuali da ospitare tutto il film.
Sono tutti esempi, questi, di “gomitoli di lana”. Allora, sono semmai i luoghi che all’improvviso si rivelano impossibili, vertiginosi, anche in singole sequenze, momenti appunto di cortocircuito della narrazione, a costruire le tante immagini del cinema-labirinto: la corsa di K nei corridoi che portano allo studio del pittore Titorelli ne Il processo di Orson Welles, la scissione di Kafka-Jeremy Irons in Kafka di Steven Soderbergh, il passaggio da un quartiere all’altro di Griffin Dunne in Fuori Orario di Scorsese, la ragnatela invisibile che circonda il mondo del protagonista di Spider di Cronenberg, la sala degli specchi nel finale de La signora di Shanghai di Welles. Tutti momenti in cui l’apparente riconoscibilità del luogo lascia spazio a un’altra immagine, indecifrabile, che lo duplica mostrandone l’indeterminatezza e l’inconoscibilità. Al tempo stesso, però, ogni luogo rimane lo stesso, ancorato nel medesimo. Soprattutto, ciò che importa è che non c’è un soggetto che crea quello spazio, non c’è un artefice del labirinto che non sia il cinema stesso. Non è forse questo quello che intendeva Rohmer quando analizzava l’organizzazione dello spazio in Murnau? Ciò che Rohmer metteva in luce parlando del Faust è che lo spazio filmico non è una struttura chiusa, ma composta di molteplici livelli, che non cessano di entrare in corto-circuito gli uni con gli altri, di impedire fino in fondo ogni possibile analisi. Lo spazio del cinema-labirinto è uno territorio aperto e che si rigenera e si trasforma costantemente.
Oggi (scrivo queste righe il 5 aprile del 2020), qualcuno ha postato su Twitter una foto della sua finestra sulla quale ha posto un adesivo trasparente con una scritta: “directed by David Lynch”. Immagine folgorante: un’immagine che cerca di dire il presente, l’esperienza che accomuna molti di noi. Nel tempo del coronavirus per molti la realtà quotidiana, la realtà-schermo che offriva sicurezza e coerenza al mondo si è incrinata gravemente. Da quella crepa è emerso un reale fatto di indeterminatezza e di fragilità. La finestra con l’adesivo sembra allora rispondere al bisogno di creare un’immagine di tale indeterminatezza del reale. David Lynch, non a caso: forse l’autore che con più costanza e in diverse forme ha sperimentato l’idea di un cinema-labirinto è proprio il regista americano. Sono i suoi spazi impossibili e al tempo stesso apparentemente riconoscibili, i mondi paralleli che convergono l’uno nell’altro rimanendo separati, l’indecidibilità tra esterno ed interno a costruire quel mondo di doppi che attraversa la sua opera (non solo cinematografica).
Le tre stagioni di Twin Peaks sono un esempio lampante di questa dialettica impossibile, del rizoma che costituisce la matrice profonda delle immagini lynchiane. Se Borges legava insieme lo specchio e il labirinto, Lynch mette in pratica tale rapporto sin dal titolo, sin dai due picchi gemelli che non sono l’indicazione di un luogo, ma il segno di un’immagine del cinema. Un cinema in cui è possibile, e finanche necessario perdersi, proprio perché appartiene alla più radicale idea di labirinto, quello in cui non c’è una sola uscita, ma molte, ognuna delle quali non può che essere parziale.
Il discorso potrebbe continuare a lungo e elaborare persino una mappa (ironico in un certo senso) del cinema-labirinto. Ciò che c’è in gioco comunque, nell’idea di labirinto borgesiana e nel cinema che ne interpreta lo spirito è proprio l’indecidibilità tra spazio esterno ed interno, tra luogo mentale e spazio materiale, tra i raccordi del montaggio, che il cinema mostra a volte con una potenza incomparabile e che oggi come oggi si riscopre essere una immagine contemporanea, adesso più che mai.