(trad. a cura di Giovanni Festa)

«Non muori perché sei un creatore
O perché sei questo corpo
Sei morto perché sei il volto eterno».

(Adonis, Deserti)

2666: un enigma. Il nome di un film di fantascienza dove le macchine ci dominano, mostri ci attaccano in autostrade perdute e piante crescono all’improvviso, mentre si moltiplicano omicidi senza nome. E c’è sempre un giovane scienziato che sospetta. 2666: è la nostra forma di immaginare il disastro, il western dell’ecodistruzione.

Un paese empio verso il quale ci incamminiamo, la cui cartografía è formata dai corpi delle donne assassinate, donne camminanti. 2666: un serpente arrotolato in lontananza, un'anaconda che si annoia e si svolge lentamente, senza distogliere lo sguardo da noi che la osserviamo. Una pupilla nella piega di un vestito, che ci mette a fuoco dal futuro. 2666: il numero autotelico. La nostra faccia riflessa nello specchio deforme di una paura indicibile, la paura di noi stessi. Un dipinto di Bosch: i mostri che guardiamo ci fissano e ridono. Smorfia senza denti. Grazie alla struttura del trittico, nell'opera nota come Il giardino delle delizie, Hieronymus Bosch (1450-1516) azzarda la messa in scena della cronologia cristiana che muove dal passato (mitico), all'attualità degradata e, in seguito, all'irremissibile condanna postuma dovuta al peccato. L'opera di Bosch inserisce, tuttavia, una tensione supplementare nell'immagine della fine dei tempi: l'origine è lo specchio in cui si osserva l'inferno. Nell'opera, non solo l'Eden stesso contiene il germe dell'ignominia (stormi di uccelli neri o animali che si divorano l'un l'altro in acque torbide o esseri deformi che emergono da quelle stesse acque per colonizzare, sembra, la Terra), ma, anche, la sua anticamera, il momento della Creazione, il terzo giorno (inizio e fine) pone una domanda sui traffici che si stabiliscono fra distruzione e realizzazione: il mondo in grisaille sotto la sfera trasparente che occupa il trittico chiuso - l' «Uno», come è stato definito - non include persone o animali e, forse, è persino il risultato dell'eliminazione dell'uomo durante il Diluvio Universale. L'inizio del mondo, sembra suggerirci in segreto il pittore fiammingo, ne contiene la fine.

Questa immaginazione estesa sul divenire del mondo e sulla singolarità dell'essere umano, evocata dall'opera di Bosch, appare periodicamente nell'opera di Roberto Bolaño. «Fusione ed esplosione di due rive: creazione come un graffito risolto e aperto da un bambino pazzo. / Niente di meccanico. Le scale della meraviglia. Qualcuno, forse Bosch, rompe l'acquario dell'amore», aveva annotato l'autore cileno nel suo Manifiesto Infra, già nel 1976, e quasi trenta anni dopo, avrebbe sostenuto quella stessa poetica in 2666, la sua ultima grande opera (pubblicata postumo nel 2004, un anno dopo la sua morte), elaborando in essa l'immagine del mondo, della sua creazione e della sua distruzione nella coesistenza fratturata e speculare di tutti i tempi umani nelle profondità del fucina dell'orrore latinoamericano.1«L'America Latina fu il manicomio dell'Europa come gli Stati Uniti furono la sua fabbrica. La fabbrica ora è nella mani dei kapo e dei pazzi latitanti, la loro manodopera. Il manicomio, da più di sessant'anni sta bruciando nel suo stesso petrolio, nel suo grasso» ha dichiarato Bolaño nella sua conferenza del 2002, «Los Mitos de Cthulhu».

Viviamo, diceva Susan Sontag, sotto il pugnale affilato di due minacce devastanti: la banalità irrevocabile e il terrore inconcepibile, spettri gemelli e identici, che sono anche i motivi che attraversano la scrittura di «La parte dei crimini» in 2666. Come in un incubo da cui lo stesso narratore non può risvegliarsi, egli trascrive e ripete la rappresentazione del male, la messa in scena di più di un centinaio di corpi di donne assassinate lungo la frontiera settentrionale messicana. Produce un rito che è la rappresentazione della rappresentazione di un crimine che, in sé aspira, tuttavia, all'impossibilità della rappresentazione perché vuole essere infinito, onnipotente: crimine che non finisce con un nome (non esistono o ci vengono negati i nomi di gran parte delle vittime; come non conosciamo il nome o i nomi dei carnefici), e neppure con un movente: qualsiasi donna è una nuova, possibile vittima. Un crimine non rappresentabile. Un occhio scientifico, quello del narratore, osserva ognuno delle centinaia di corpi aggrediti e li descrive, registrando le loro differenze, annotando le loro peculiarità: un collant probabilmente di una prostituta, scarpe con il marchio Nike, una camicetta gialla, jeans da lavoro, un paio di orecchini con elefantini. È la parte che si occupa dei crimini: colui che commette il crimine e colui che lo osserva; colui che lo narra e colui che lo legge e lo rilegge, lo consuma (come in un film snuff?): noi stessi, la ripetizione che sfida la nostra responsabilità. Ci rende nervosi, ci disturba Bolaño: però, in cosa ci disturba?

Una domanda che sorvola il romanzo dall'inizio alla fine è «chi è il colpevole»; la domanda poliziesca. E il cui effetto atteso è, come in tutto il genere poliziesco, la conversione dell'istanza di lettura in un’ abile ricompilazione di indizi, incorporata nella storia dentro lo sguardo del narratore che sospetta, insiste, cerca e osserva le parti, tutte trasformate, in questo modo, in indizi. Come un medico legale che ispeziona, ausculta e ricostituisce un discorso plausibile, il lettore si riconosce qui ripassando i corpi assassinati insieme al narratore, uno ad uno, uno dopo l'altro, come se fossero appunti per decifrare una composizione più ampia, un'opera; tutto il suo desiderio quindi è di istituire un significato, di costruire il caso, di fare opera. In questo passaggio attraverso i corpi, tuttavia, qualcosa si perde, qualcosa perde (a) questo lettore. Proprio come l'osservatore si è perso nel regime dello spettacolo del corpo. Vuole sapere, cerca, osserva, si introduce. Vorace. Se, come spiega Georges Didi-Huberman, il modello cristiano è quello della tomba vuota, «niente da vedere per credere in tutto», in questi crimini non c'è nemmeno uno spazio per il corpo, non c'è nessun letto, non c'è un luogo ma, al contrario, il corpo è stato assolutamente esposto: al sole, al freddo, all'umidità, alla spazzatura, alla sabbia.

È l'orrore: il corpo umano, femminile, spezzato, disgregato nella sua unità, offeso nella sua dignità ontologica (Cavarero). Che cos'è allora 2666? Un occhio che ci osserva, ma anche una data, un ordine, un limite dato al nostro tempo. È il futuro che sta accadendo oggi, è il corpo di una donna che è tutto il corpo del mondo e, nello stesso tempo, l'intero corpo globale, il cui tempo è la massima espressione dell' impulso (volontà e desiderio) e, insieme, dell'infinita sospensione del diritto. 2666 non è, come denuncia Johannes Fabian, un tempo residuo, sprecato, di un altro sistema di produzione, no. Questa moderna operazione cronopolitica2L'immaginazione sociale del tempo nella modernità, realizzata come politica, cioè come volontà di potere., che posizionava l'America Latina come resto sempre anacronico, è discussa qui con una cifra: 2.666, che è la certezza che qualsiasi orizzonte dipende da quel «residuo» perché è contemporaneo; è, di più, perché in questo confine è in gioco il mondo, il saperci mondo; è il buco nero che sta divorando tutto il tempo, il luogo da dove inizia la sua autofagocitazione, o la sua implosione.

All'inizio del XXI secolo, quello che Bolaño produce è un gesto geoculturale inverso a quello che la critica europea ha messo in evidenza nel passaggio dal XIX al XX secolo: ora, dice lo scrittore latinoamericano, il mondo dirige il suo sguardo, la sua nascita (o la sua morte) , non più verso la metropoli occidentale, ma verso la sua frontiera:  ossia verso la sua macchina, verso il suo nucleo di produzione e riproduzione, Comala, Hermosillo, Cananea, Ciudad Juárez, Santa Teresa - nella finzione di Bolaño. E questo non lo fanno dei barbari anacronisti, ma il sospetto è che si verifichi nel futuro, nelle sue paure e finzioni: nel mercato, nell'intrattenimento, nella fantascienza, nei film di zombi, nei film snuff (e il poeta lo sottolinea): l'apocalisse è l'essere, ci osserva e ci guida dal 2666. Ripetuto più e più volte, questo è un tempo inimmaginabile, la fine del cammino del presente, nel culo del mondo, nel suo immondezzaio - chiamato El Chile - e la sua origine (Messico, il luogo del primo sacrificio), si ubica nella città che è il suo fantasma e il suo stesso fine del mondo: a Santa Teresa, dove migrano le donne, dove camminano le lavoratrici del capitale e le loro figlie. E dove le cose accadono nel tempo verbale del «futuro perfetto»: tutto già sarà stato, ciò che abbiamo sono resti di stelle che avranno smesso di splendere centinaia di anni fa, le donne: presenze spettrali.

In 2666 nessuno sa nulla delle donne del deserto di Sonora, e non solo di quelle assassinate: tutte le donne, tutte, sono suscettibili di essere dimenticate o cancellate, i loro corpi sono, qui, tracce di un enigma delineato da un narratore che non conosce, che osserva , che guarda peró non sa. Abbiamo solo i loro corpi. Interrotti, implicati quando camminano, quando migrano, quando attraversano frontiere speranzose, quando vanno al lavoro, quando tornano a casa. Lacerazioni su lacerazioni, corpi semi-sepolti, pietre miliari di pelle e ossa. Limiti. Corpi rotti che sono un limite, il limite: non si deve camminare, non dovete camminare, non dovete cercare lavoro, non dovete andare a scuola, non dovete uscire di notte, né a metà pomeriggio o al mattino presto, non dovete passare in mezzo ai paesi né lungo i sentieri del deserto, non transitare, non desiderare. Corpi semi-sepolti per sottrarre spazio: il deserto è interrotto, non c'è più posto. Una casa che cade. Corpi che non hanno casa: che non hanno tomba.

Il mercato dell'isteria patriarcale3Isterico perché mai consumato, poiché è costituito dal desiderio di consumo, un desiderio sempre insoddisfatto. nel momento stesso della crisi patriarcale sembra condizionare ciascuna delle azioni che operano sui corpi delle donne lungo la frontiera. La violenza estrema sembra essere, come ha scritto Sayak Valencia, l'ultimo avamposto di questo mercato totale, che si colloca in una forma di capitalismo che fa della violenza il valore principale, il «gore / snuff». E noi, le lettrici e i lettori, sembrerebbe strofinarci in faccia Belano, il narratore di 2666, sono-siamo i consumatori totali che costituiscono, che alimentano questo mercato totale. Consumatori totali, siamo disponibili a consumarci, fino al limite: osservare la nostra autodistruzione nello specchio delle donne. Consumandoci nel limite, tragicamente, quindi, come ricorda Simon Critchley: «la tragedia esige la nostra complicità con il destino». Bene, siamo complici. L'occhio di chi, di chi è l'occhio che ci sta guardando esporci, osservando insieme al narratore i corpi assassinati delle donne di Santa Teresa? Siamo disposti a chiudere gli occhi davanti al racconto di «La parte dei crimini»? Siamo disposti a rinunciare a sapere quello che quest'occhio vede, ad allontanarci dai sentieri battuti, a disdegnare la trama per consegnarci ed assumere, con tutte le sue conseguenze, la minacciosa profondità dell'orrore che sta accadendo in 2666? «Affinché la rappresentazione esprima l'umano, l'umano non solo deve solo fallire, ma deve mostrare il suo fallimento.

C'è qualcosa di non rappresentabile che cerchiamo comunque di rappresentare, e questo paradosso deve essere mantenuto nella rappresentazione che facciamo», dice Judith Butler, ed è quello che tenta, secondo me, 2666: il paradosso di un narratore che può solo raccogliere pezzi per costituire una rappresentazione impossibile, il cui percorso conduce inesorabilmente ad una singolarità che gli è irraggiungibile (la soggettività di ciascuno di quei corpi feriti) e sulla quale solo possiede parzialità, indizi e un enigma al quale si avvicina a prezzo della sua integrità e della sua conversione in un voyeur dell' orrore (dal momento che guarda e fa guardare i corpi feriti, uno, un altro e un altro ancora, cosí, ripetutamente, centinaia di corpi di donne assassinate). Nello stesso movimento, l'opera svela l'impossibilità di un lettore che si perde affidandosi al narratore al prezzo della sua scomparsa nelle reti dello spettacolo del corpo femminile, che a loro volta ha accompagnato, come condizione, il regime patriarcale dell'estrema violenza perpetrata contro le donne.

L'orrore ripete, ancora e ancora, il crimine. Ma anche i corpi si ripetono: si muovono, camminano, perseverano, si ribellano, sembra dire Bolaño, corpi di donne che camminano senza crescere e senza poter essere catturati nel loro eterno tentativo, nella loro potenza vitale, come ogni vita, come «arcivita» (Nancy). Di che muoiono, quindi, le donne di Santa Teresa, in 2666? Le donne non muoiono solo della loro pelle, delle loro gambe, dei loro seni, dei loro vestiti modesti, provocatori o discreti, dei loro abiti infantili, dei loro percorsi quotidiani andando a lavoro o a scuola, le donne non muoiono solo di questo, muoiono perché sono questo volto eterno di cui parlava il poeta; l'interpellazione permanente a uno stato di cose che le vuole assolutamente visibili (il dispositivo spettacolare visivo della pornografia, in cui tutto riguarda il «dare a vedere») e che non transita (il regime dello spettacolo è tautologico, esaurito nel desiderio di sé stesso), mentre loro non fanno altro che muoversi. Che cosa fanno? Passano le frontiere, migrano, attraversano il deserto.

Sorvolano il deserto, come pietre gettate nel mare di questo spazio solitario, pietre recondite, pietre assolute come quelle evocate dal poeta peruviano Martín Adán, eternità sfilacciate che non smettono di passare, passaggio che è la loro stessa lingua, una lingua che parla dal centro di migliaia di oblii di migliaia di crimini; il riflesso della faccia che le odia, nei loro occhi ciechi e nella loro domanda muta: chi sei tu che mi uccidi? Chi puoi diventare? e la risposta riflessa dentro quell'occhio sfinito, la risposta che viene dal nodo stesso della misoginia e dell'odio patriarcale di sé, recita: «Posso essere ciò di cui hai paura, posso persino temere me stesso. Posso convertirmi nello spettacolo della paura di me stesso, della paura di mia madre, di mia figlia (possiamo essere la negazione della nostra genealogia, possiamo arrivare ad essere la mancanza di empatia con noi stessi fino ad arrivare ad a odiarci per sempre, a odiarci di più)» sembra sussurrarci 2666. Il più intimo non può che riconoscersi in un fuori, come estimità, ha detto Jean-Luc Nancy, e il lavoro di Roberto Bolaño non fa altro che lanciarci senza precauzione nel fuori totale, nel deserto accecante, nell'esteriorità delle donne vittime della ginofobia e del mercato che desiderano, a loro volta veder-si riflesse in extremis nei loro occhi morenti. Tutto questo, sia per l'abissale desiderio di potere che nascondiamo, sia, come recita l'epigrafe di Baudelaire che incornicia 26664«Un'oasi di orrore in un deserto tedio». Charles Baudelaire., per puro tedio, per vedere.


Testo originale

«No mueres porque seas un creador
o porque tengas este cuerpo.
Estás muerto porque eres el rostro eterno».

(Adonis, Desiertos)

2666: un enigma. El nombre de una película de ciencia ficción en la que las máquinas nos dominan, monstruos nos acosan en carreteras insalvables o plantas crecen intempestivamente, y se multiplican asesinatos sin nombre. Donde siempre hay un joven científico que sospecha. 2666: nuestra forma de imaginar el desastre, el western de la ecodestrucción. Un país impío hacia el que caminamos, cuya cartografía la forman los cuerpos de mujeres asesinadas, mujeres que caminan. 2666, una serpiente enroscada allá a lo lejos: una anaconda que se aburre, y se desenrolla lentamente, sin quitarnos la vista de encima. Una pupila en el pliegue de un vestido, que nos enfoca desde el futuro. 2666, la cifra, toda ella autotélica. Nuestro rostro reflejado en el espejo deforme de un temor inefable, el temor de nosotros mismos. Una pintura del Bosco: los monstruos que miramos nos miran fijo y se ríen. Mueca sin dientes.

Gracias a la estructura del tríptico, en la obra que conocemos como El jardín de las delicias, Hieronymus Bosch (1450-1516) se permite escenificar la cronología cristiana que iba del pasado (mítico), a la actualidad degradada y, luego, a la irremisible condenación postrera debida al pecado. La obra de El Bosco inserta, sin embargo, una tensión sobre la propia imagen de la Postrimería: el origen es el espejo en que se observa el mismo Infierno. Así, en la obra, no solo el Edén mismo contiene el germen de la ignominia (bandadas de pájaros negros o animales que se devoran entre sí en aguas lóbregas, o seres deformes que emergen de esas mismas aguas pareciera que a colonizar la Tierra), sino incluso, su antesala, el momento mismo de la Creación, el día tercero (principio y fin) interpela con una pregunta sobre los tráficos entre la destrucción y la realización: el mundo en grisalla bajo la esfera transparente que ocupa al tríptico cerrado -el “uno”, se ha dicho- no incluye ni personas ni animales y tal vez sea, incluso, resultado de la eliminación del hombre en el diluvio universal.

El comienzo del mundo contiene su fin, parece sugerirnos en secreto el pintor flamenco. Esta imaginación tensada sobre el devenir del mundo y la singularidad de lo humano, que evoca la obra de Bosch, aparece convocada con recurrencia por la obra de Roberto Bolaño. “Fusión y explosión de dos orillas: la creación como un graffiti resuelto y abierto por un niño loco./ Nada mecánico. Las escalas del asombro. Alguien, tal vez el Bosco, rompe el acuario del amor”, había anotado el autor chileno en su “Manifiesto Infra”, ya en 1976, y casi treinta años después, iba a refrendar esa misma poética en 2666, su última gran obra (publicada póstuma en 2004, a un año de la muerte), elaborando en ella la imagen del mundo, de su creación y de su destrucción en la convivencia fracturada y especular de todos los tiempos humanos en la profundidad del hervidero del horror latinoamericano.

Vivimos, decía Susan Sontag, bajo la daga afilada de dos amenazas igualmente asoladoras: la banalidad irrevocable y el terror inconcebible, espectros gemelos; mismos, los motivos que atraviesan la escritura de “La parte de los crímenes” que repite Bolaño en 2666. Como en una pesadilla de la cual el propio hablante no puede salir, este transcribe y repite lo representado por el mal, la escenificación de más de cien cuerpos asesinados de mujeres en la frontera norte mexicana. Produce un rito que es la representación de una representación de un crimen que, en sí mismo, aspira, sin embargo, a la imposibilidad de la representación pues quiere ser infinito, todopoderoso: no se acaba en un nombre (no lo hay, se nos niegan los nombres de gran parte de las víctimas; y no hay nombre del o los victimarios), y no se acaba en un móvil: cualquier mujer es una nueva víctima. Un crimen irrepresentable. Un ojo científico, el del narrador, observa cada uno de los centenares de cuerpos agredidos y los describe, anota sus diferencias, anota sus particularidades: una pantimedia como de prostituta, unas zapatillas marca Nike, una blusa amarilla, unos jeans de trabajo, unos aretes con elefantitos. Es la parte que toca a los crímenes: el que comete el crimen y el que lo observa; el que lo narra y el que lo lee, y lo relee, lo consume (¿como snuff movie?): nosotros, la repetición que interpela nuestra responsabilidad. Nos pone nerviosos, nos perturba Bolaño, ¿qué nos perturba? 

Una pregunta que sobrevuela la novela de principio a fin es quién es el culpable; la pregunta policíaca. Y cuyo efecto esperable es, como en todo policial, la conversión de la instancia lectora en una hábil recolectora de pistas, incorporada al relato en la mirada del narrador que sospecha, que insiste, que busca y que observa las partes, constituidas todas, de esta manera, en indicios. Al modo de un forense que inspecciona, ausculta y reconstituye un discurso verosímil, el lector se reconoce aquí repasando los cuerpos asesinados, uno a uno, uno tras otro, junto con el narrador, cual si fueran notas para descifrar una composición mayor, una obra; todo su deseo es entonces instituir el sentido, constituir el caso, hacer obra. En ese paso por los cuerpos, sin embargo, algo se pierde, algo pierde (a) este lector. Tal como se ha perdido el observador en el régimen del espectáculo del cuerpo. Quiere saber, busca, observa, se introduce. Voraz.

Si, como explica Georges Didi-Huberman, el modelo cristiano es el de la tumba vacía, “nada que ver para creer en todo” (25), en estos crímenes no hay siquiera un espacio para el cuerpo, no hay ningún lecho, no hay un lugar, por el contrario, el cuerpo ha sido expuesto absolutamente: al sol, al frío, a la humedad, a la basura, a la arena. Es el horror: el cuerpo humano, femenino, partido, desagregado en su unidad, ofendido en su dignidad ontológica (Cavarero). 

¿Qué es, entonces, 2666? Un ojo que nos observa, pero también una fecha, un orden, un límite a nuestro tiempo. Es el futuro que está siendo hoy, es un cuerpo de mujer que es todo el cuerpo del mundo, y a la vez todo el cuerpo global, cuyo tiempo es el de la más alta expresión del conato (voluntad y deseo), a la vez que de la suspensión infinita del derecho. 2666 no es, como denuncia Johannes Fabian, un tiempo residual, gastado, de otro sistema de producción, no. Dicha operación cronopolítica moderna6La imaginaciòn social del tiempo en la modernidad, realizada como polítíca, es decir, como voluntad de poder., que ubicó a Latinoamérica como el resto siempre alocrónico, es discutida aquí por una cifra: 2666, que es la certeza de que cualquier horizonte depende de ese “residuo” porque es contemporáneo; es más, porque en esta frontera se juega el mundo, el sabernos mundo; es el hoyo negro que se está tragando todo el tiempo, por donde comienza su autofagotización, o su implosión. En el comienzo del siglo XXI, el que produce Bolaño es un gesto geocultural inverso al que la crítica europea destacó en el paso del XIX al XX: ahora, dice el escritor latinoamericano, el orbe dirige su mirada, su nacimiento (o su muerte), ya no hacia la metrópoli occidental, sino hacia su frontera: sobre todo hacia su maquila, hacia su núcleo de producción y reproducción, Comala, Hermosillo, Cananea, Ciudad Juárez, Santa Teresa –en la ficción bolañeana. Y esto no lo hacen bárbaros anacrónicos, la sospecha es que ocurre en el futuro, en sus miedos y ficciones: en el mercado, en el entertainment¸ en la ciencia ficción, en el cine de zombis, en las snuff movies, y el poeta lo señala: el apocalipsis está siendo, nos observa y nos conduce, desde 2666.

Repetido una y otra vez, es este un tiempo inimaginable, el fin del camino que está ocurriendo hoy en el culo del mundo, en su basurero –llamado El Chile– y su origen (México, el lugar del primer sacrificio), se ubica en la ciudad que es su fantasma y su propio fin de mundo: en Santa Teresa, hacia donde migran las mujeres, por donde caminan las obreras del capital y sus hijas. Y donde las cosas ocurren en el tiempo verbal del “futuro perfecto”: todo ya habrá sido, lo que tenemos son restos de estrellas que habrán dejado de brillar hace cientos de años, las mujeres: presencias fantasmáticas. 

En 2666 nadie sabe nada de las mujeres del desierto de Sonora, no solo de las asesinadas, todas las mujeres, todas, son susceptibles de ser olvidadas o ser borradas, sus cuerpos son aquí huellas de un enigma esbozado por un narrador que no sabe, que observa, que mira pero no sabe. Solo tenemos sus cuerpos. Interrumpidos, intervenidos sus cuerpos cuando caminan, cuando migran, cuando cruzan fronteras esperanzadas, cuando se dirigen al trabajo, cuando vuelven a casa. Laceraciones sobre laceraciones, semienterrados, hitos de piel y huesos. Limites. Cuerpos partidos que son un límite, el límite: no se debe ir, ustedes no deben andar, no deben buscar trabajo, no deben ir a la escuela, no salir de noche ni a media tarde ni de madrugada, no deben pasar por mitad de los pueblos ni por las veredas del desierto, no transitar, no desear. Cuerpos semienterrados para restar el espacio: el desierto es interrumpido, ya no hay lugares. Un hogar que cae. Cuerpos que no tienen casa, que no tienen tumba. 

El mercado de la histeria patriarcal7Histérico porque nunca consumado, puesto que està constituido sobre el deseo de consumo,un deseo siempre insatisfecho. en el tiempo mismo de la crisis del patriarcado parece condicionar cada una de las acciones que operan sobre los cuerpos de las mujeres de la frontera. La extrema violencia parece ser, como ha desarrollado Sayak Valencia, el último reducto que posee este mercado total que se emplaza en esta forma del capitalismo que hace de la violencia el principal valor, el “gore/snuff”. Y nosotros, las y los lectores –pareciera restregarnos en la cara Belano, el narrador de 2666– somos los consumidores totales que constituyen, que alimentan ese mercado total. Consumidores totales, estamos disponibles para consumirnos a nosotros mismos, hasta el límite: observar nuestra autodestrucción en el espejo de las mujeres. Consumirnos en el límite, trágicamente, pues, como recuerda Simon Critchley: “la tragedia exige nuestra propia complicidad con el destino”. Pues somos cómplices. ¿El ojo de quién, de quién es el ojo que nos mira exponernos, observando junto con el narrador los cuerpos asesinados de las mujeres de Santa Teresa? ¿Estamos dispuestos a cerrar los ojos ante el recuento de “La parte de los crímenes”?, ¿estamos dispuestos a renunciar a saber qué ve ese ojo, a extraviarnos de las pistas, a desdeñar la trama y entregarnos y asumir, con todas sus consecuencias, la profundidad ominosa del horror que está sucediendo en 2666

“Para que la representación exprese entonces lo humano no sólo debe fracasar, sino que debe mostrar su fracaso. Hay algo irrepresentable que sin embargo tratamos de representar, y esta paradoja debe quedar retenida en la representación que hacemos”, dice Judith Butler, y es aquello lo que intenta, propongo, 2666: la paradoja de un narrador que no puede más que reunir partes para constituir una representación imposible, cuyo camino le conduce inexorablemente a una singularidad que le es inalcanzable (la subjetividad de cada uno de esos cuerpos heridos) y sobre la cual solo posee parcialidades, indicios, y un enigma al que se acerca solo a costa de su propia integridad y su conversión en voyeur del horror (pues él mira y da a mirar los cuerpos heridos, uno y otro y otro, así, repetidamente centenares de cuerpos de mujeres asesinadas). En el mismo movimiento, la obra expone la imposibilidad de un lector que se pierde como tal al confíarse al narrador al precio de su extravío en las redes del espectáculo del cuerpo femenino, que han acompañado a su vez, como condición, el régimen patriarcal de la extrema violencia perpetrada contra las mujeres. 

El horror repite, una y otra vez el crimen. Pero los cuerpos también repiten: se desplazan, caminan, perseveran, se insubordinan, parece decir Bolaño, cuerpos de mujeres que andan sin medrar y sin poder ser apresados en su eterno conato, en su potencia vital, como toda vida, como archivida (Nancy). 

¿De qué mueren entonces las mujeres de Santa Teresa, en 2666? Las mujeres no mueren solo de su piel, de sus piernas, de sus senos, de sus ropas modestas, provocativas o discretas, de sus ropas infantiles, de sus pasos cotidianos camino al trabajo o a la escuela, las mujeres no mueren solo de eso, mueren porque son ese rostro eterno del que hablaba el poeta; la interpelación permanente a un estado de cosas que las quiere absolutamente visibles (el dispositivo visual espectacular del porno, donde todo se trata de “dar a ver”) y que no transita (el régimen del espectáculo es tautológico, agotado en el deseo de sí mismo), mientras ellas sí ¿Qué hacen ellas?, ellas pasan fronteras, migran, cruzan el desierto. Sobrevuelan el desierto como piedras lanzadas alguna vez al mar de ese espacio solo, piedras recónditas, piedras absolutas de esas que convocaba el poeta peruano Martín Adán, eternidades haraposas que no paran de pasar, cuyo paso es su lenguaje, un lenguaje que habla desde el centro de miles de olvidos de miles de crímenes; el reflejo del rostro que las odia, en sus ojos ciegos y en su pregunta muda: ¿quién eres tú que asesinas?, ¿quién puedes llegar a ser? y la respuesta reflejada en ese ojo desmadejado, la respuesta que proviene desde el nudo de la misoginia y del odio patriarcal a sí mismo: -Puedo ser aquello que tú temes, puedo hasta temerme yo mismo. Puedo convertirme en el espectáculo del temor de mí mismo, del temor de mi madre, de mi hija (podemos ser la negación de nuestra genealogía, podemos llegar a ser la falta de empatía con nosotros mismos hasta llegar a odiarnos para siempre, odiarnos más), parece susurrarnos 2666.

Lo más íntimo no puede sino reconocerse en un afuera, como extimidad, ha dicho Jean-Luc Nancy, y la obra de Roberto Bolaño no hace sino lanzarnos sin precaución al externo total, al desierto cegador, al afuera de las mujeres víctimas de la ginefobia y el mercado que desean a su vez ver-se in extremis reflejados en sus ojos moribundos. Todo esto, sea por el abismante deseo de poder que portamos, sea, como adelantaba el epígrafe de Baudelaire que enmarca 2666, por puro aburrimiento, por ver.

 

Referencias:

Adán, Martín. “La piedra absoluta”. La Mano Desasida, Canto a Machu Picchu; La piedra absoluta: obra poética (1927-1971). Lima: Instituto Nacional de Cultura, 1976. 141-58.

Bolaño, Roberto. 2666. Barcelona: Anagrama, 2009.

___. “Los mitos de Cthulhu”. El gaucho insufrible. Barcelona: Anagrama, 2010. 534-548.

Butler, Judith. Vida precaria: el poder del duelo y la violencia. Fermín Rodríguez (Trad.). Buenos Aires: Paidós, 2006. 

Cavarero, Adriana. Horrorismo: nombrando la violencia contemporánea. Saleta de Salvador Agra (Trad.). Barcelona: Anthropos Editorial; México: Universidad Autónoma Metropolitana-Iztapalapa, 2009.

Critchley, Simon. “El futuro del pensamiento radical”. David García Casado (Trad.). ESTUDIOS VISUALES, N°7: Retóricas de “La Resistencia”, diciembre, 2009. 2009. 67-79.

Didi-Huberman, Georges. Lo que vemos, lo que nos mira (1997). Trad: Horacio Pons. Buenos Aires: Manantial, 1997.

Fabian, Johannes. Time and the Other. New York: Columbia University Press, 1983.

Nancy, Jean-Luc. Archivida. Del sintiente y del sentido. Trads. Marie Bardet y Valentina Bulo. Buenos Aires: Quadrata, 2013. 

Sontag, Susan. Contra la interpretación. Trad. Javier González. Barcelona: Seix Barral, 1969. 

Valencia, Sayak. Capitalismo Gore. Barcelona: Melusina, 2010.

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