Se è vero che uno degli aspetti più evidenti della letteratura sudamericana del Novecento (stante l'azzardo ad accomunarla entro un assioma, una schematicità che del resto si consustanzia nella riprova entro i territori, le regioni, fino agli ecosistemi più minuti e particolari, casi antropici che si rivelano poi specificamente letterari) è la stratificazione e la coloritura dell'azione, della storia, trame magmatiche, impastate di polvere e sangue, raffreddate da sferze di vento; è anche vero che entro questa plastica degli eventi emerge un tratto formalista che corrisponde all'assottigliamento o disarticolazione di quella plastica (in favore dello scorcio), verso la riflessione e la sperimentazione linguistica.

Ad esempio da Reynoso a Lamborghini il racconto della ruvidità, del livore del mondo, le tinte vistose, violente in cui agiscono i personaggi, si diluiscono di volta in volta in un lirismo cristallino e sembrano cercare l'aseità sonante della parola (che si sofferma sulle cose, al di là dell'azione) riordinata in strutture sintattiche di contrappunto, sincope, e di segrete, intime corrispondenze proprie della poesia e del gioco linguistico. Fino al Gioco del mondo che spariglia il modello del racconto, lo pone in un mosaico di tessere narrative, ognuna delle quali sembra mostrare un'induzione alla disarticolazione, alla torsione espressiva, alla domanda di parole e forme non investite dalla retorica del dire, dell'ordinarsi in copule, qui scritte, riscritte nel senso di asindeti (una cosa non è, o non è solo, piuttosto c'è una cosa e una cosa e così via), per arrivare al gliglico, come nel capitolo 68, linguaggio immaginario, fonosimbolico, fonoerotico, in cui «lui le amalava il noema» e «a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti». Che è qualcosa di simile a certe concrezioni lemmatiche sopraggiunte in Alejandra Pizarnik all'altezza di Bucaniera di Pernambuco1A proposito del Pernambuco cfr. Claudio Cinti, postfazione ad A. Pizarrnik, La figlia dell'insonnia, Crocetti, Milano 2003. , in cui si trova «lettorco o lettorca: il mio disinteresse per la tua approvazzoccola farà che tu mi legga a tutto vapore», tentativo estremo (anche umoristico) di operare la torsione spasmodica dell'espressione nella carne della singola parola.

In questa traiettoria verso la carne, lo strato di pelle fonica della parola, la sua dilatazione epistemica (ed epidermica) al di là del dire, dalla narrativa, da certa narrativa, alla poesia sudamericana, Pizarnik rappresenta forse l'esito estremo (accanto a quello di Manoel De Barros) consumatosi entro il tessuto della poesia che è già per definizione rastremazione del discorso, del racconto e calcificazione d'ipostasi. La stessa ricercata da Cortázar come si capisce non solo leggendo certe pagine della sua prosa o i suoi interventi di critica letteraria ma anche la corrispondenza, intensa, dettata da un'amicizia intima e accorata, proprio con Pizarnik. I due sembrano incontrarsi partendo da sponde opposte – quella della narrativa per Cortázar e della poesia per Pizarnik – in una zona di scrittura disarticolata, ritorta, flessa, che è anche, anzi soprattutto, metascrittura, riflessa in uno specchio convesso a deformarne e allo stesso tempo essenzializzarne i tratti.

È il discorso, quello di Pizarnik – fattosi ellissi, invocazione, oscura, pura semantica – sull'impossibilità del discorso, del significare se non l'insignificante assembrarsi di significanti e di motivi del loro essere, sempre monco, abortito, morticino stridente; la giustezza della parola che subito si guasta, cade in sfacelo, in silenzio; di nominare se non il silenzio, specie di “cosa ultima” dell'essere, da cui risorgono tentativi di dirlo, di dirsi, così di esserci in una dimensione di puro sgomento, di apnea costante. E allora, al di là della carne delle cose, della loro materia trepida, si staglia nell'opera pizarnikiana il susseguirsi di versi come manifesti di poetica, riflessione linguistico-esistenzialista, una possibilità di esistere in ragione del dirsi, dello stagliarsi effimero della parola, del plusvalore di senso offerto dalla forma, dalla disarticolazione, qualcosa come un distrarsi, contrarsi di sintassi.

Nel frammento 28 dell'Albero di Diana la parola, nel suo parlare di se stessa, sembra avere ancora sostanza, «ti allontani dai nomi/ che filano il silenzio delle cose» e nel 31 «tastiamo gli specchi finché le parole dimenticate suonino magicamente». Si tratta di una poesia, nella definizione “chimica” di Octavio Paz, in quanto «cristallizzazione verbale per amalgama di insonnia passionale e lucidità meridiana in una dissoluzione di realtà soggetta alle più alte temperature». Dissolta, anzi nel mentre che si dissolve, la realtà, sopravanza la poesia del poetare, la scrittura a proposito dello scrivere, di usare il linguaggio per dire la sproporzione tra l'enormità della solitudine, del dolore, di un dolore senza senso, e le proprietà lenitive, cioè nominali (la capacità di nominare le cose, le ragioni delle cose) della parola. La nominalità del verso che nello spasimare, nel contorcersi del dettato si assestava in nuovi stati in luogo, fatti di tessuto sintattico («prima fu una luce/ nel mio linguaggio nato/ a pochi passi dall'amore//. Notte piena. Notte presenza» o «Contro il vento con artigli che alloggia nella mia respirazione») si perde mano a mano che la poesia di Alejandra giunge alla fine: si frantuma implicata nel processo di storcimento, nello spasimo della scrittura, nel tentativo di sillabare una solitudine endemica, non accidentale, uno stare lancinante sempre “in limine”, sempre in sogno, fantasma soffocato da lampi di luce, i cui tratti, il cui corpo si confondono, si fondono con quelli del mondo, un'immanenza vista attraverso il filtro di uno spasmo: «qui c'è qualcuno che trema».

Ma è più di un tremito: è flessione ossessa della carne, disossamento bruciante del corpo – e del corpo della scrittura: «quando alla casa del linguaggio vola via il tetto e le parole non guariscono, io parlo» – che nelle sue scosse, torsioni bestiali soffoca, spreme i nomi, scartandone le qualità, le proprietà organolettiche, così i lillà, l'infanzia, il vento, la nebbia, il grigio si scarnificano, si astraggono fino a divenire pura fonetica nella notte chiusa in una stanza. Una poesia che nel suo itinerario metapoetico va perdendo nominalità in favore di preposizioni, dell'affioramento di commessure logico-anzi-illogico-sintattite, collegamenti di stati, moti a luogo, provenienze non più di cose, ma di parole, immagini acustiche, rami di un'arborescenza scarnita, ritorta, scura che è il verso, che quasi scompare nella solitudine, nel rimbombo della notte. «E la solitudine è non poterla dire».

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