Numerose pagine della letteratura argentina sono dedicate a un paradosso: la vita colta in un momento complesso, inesplicabile, al bordo dell’intraducibile che, pure, riesce a trasformarsi in territorio e, quindi, in romanzo (La vie est un roman, chioserebbe Resnais nel titolo del suo film - scritto da Jean Gruault - forse più vicino al dettato del crepuscolo) e a ricostruire un sito che, come dice Borges, è menos documental que imaginativo. Cortázar, come si sa, non finiva mai di interrogarsi sulle leggi segrete della creazione letteraria: come Piglia, come Saer il narratore è, anche, secondo una tradizione esoterica ed erudita – inaugurata da quel grande amanuense che era proprio Borges – «lettore»: ultimo, come si voleva Emilio Renzi-Piglia, ma anche «poeta» come Saer, e, in tutti i casi, «critico» (un racconto emblematico di Cortázar è, in questo senso, Los pasos en las huellas) che abbraccia tutta la letteratura universale scoprendo, alla fine, che non si è fatto altro che comporre, come in un quadro di Arcimboldo con la sua simbiosi paranoica di oggetti, un mosaico di immagini il cui risultato è il proprio stesso volto. Cortázar, si diceva: in Intermedio magico accenna alla forza della poesia e del suo strumento principale, la metafora, capace di penetrare nel mondo delle cose stesse, fuori dalla legge del nome (aborrita anche dall’Eltsir di Proust), e cancellare la singolarità delle cose attraverso il ponte magico del «come», che permette al cervo e al vento (qui Cortázar cita Levi-Strauss) di partecipare (di gioire, verrebbe da dire) di una medesima qualità.
Il regno della metafora, con le sue sovraimpressioni brucianti, è (per utilizzare una metafora architettonica), il nartece o il prònao del territorio del crepuscolo. La dimensione crepuscolare dell’esistenza è una specie di sindone calda dai confini sfumati e bruciati, che aderisce al mondo con il suo sostrato di vaghezza e la sua aria irrimediabilmente romantica: è mostrazione che si oppone (per utilizzare un altro contrasto cortazariano) alla descrizione. Quest’ultima è dotata di una, peculiare, «punteggiatura intermedia», che permetterebbe (come il montaggio invisibile del cinema hollywoodiano classico) di separare connettendo, passando da un’abitazione all’altra, secondo un principio orizzontale di relazione uomo-mondo; la mostrazione esprimerebbe, al contrario, i «blocchi di materia», l’apparizione del dettaglio, dell’incidentale, piccola zona interstiziale attraverso la quale si può entrare in livelli ulteriori di esistenza.
Si rivela qui, in tralice, la presenza di una nozione, preziosa, di Bachelard, quella di «immaginazione materiale» che, maestra della combinazione elementale (e non di composizione, come l’immaginazione formale), possiede la lentezza della germinazione, e lavora come un’anima primitiva, mescolando profondità e sviluppo, memoria e desiderio, primitivo ed attuale. La terra del crepuscolo si manifesta (almeno secondo la nozione espansa che vogliamo dargli) al di là della legge dell’ora: può mostrarsi di mattina presto (nel momento, paradigmatico, del risveglio, ancora appiccicaticcio di frammenti di vita onirica), a mezzogiorno (quando l’aria si fa torrida) o al principio della notte (quando il buio inizia a inghiottire il visibile): ovvero quando la chiarezza viene meno, i confini si sgretolano e cominciano ad apparire presenze, tracce d’altrove.
Il primo spazio crepuscolare è quello che si situa tra sogno e veglia, di mattina presto e che apre a un primitivo, idiosincratico, sentimento del montaggio. Espressione di questo frame torbido è Adán Buenosaires di Leopoldo Marechal (libro inaugurale del modernismo argentino scritto negli anni ’30 e ambientato negli anni ‘20, non a caso i due decenni chiave per la teorizzazione e lo sviluppo di un «pensiero attraverso il montaggio» nel cinema, in filosofia e nelle arti visive) che, nelle primissime pagine, ci mostra il risveglio dell’ «eroe» di sapore vagamente proustiano: se Proust, in un certo senso, secondo un meccanismo raffinatissimo, aggiungeva alla panoramica «a schiaffo» del mobilio fantasma della stanza la sovraimpressione di tutti i mobili, di tutte le stanze abitate nel passato dal narratore, Marechal sembra dotare il suo protagonista di un occhio peculiare, che possiede la sinistra capacità, auratica e tachigrafica insieme, del mangiatore d’oppio, che è quella di «fissare» gli oggetti paradigmatici della veglia in una natura morta allucinatoria, di tipo fiammingo-nominalista (e non cubista-sintetico come in Proust) o al massimo, vicina a certi bodegones «volanti» di Zurbarán: la rosa, la melograna, la pipa, il libro, sono oggetti singolari che lo allontanano dal piano sequenza compatto, anassimandrico (come dice Marechal) del sogno e introducono la possibilità (se gli occhi si richiudessero di nuovo completamente, inghiottiti dal pozzo dell’onirico), della loro scomposizione atomica. Due tipi differenti di angoscia assalgono, quindi, Adán al risvegliarsi: la sensazione di aprire gli occhi e rimanere assorbito dentro un mondo bizzarro di capricci e metamorfosi e quella di visitare un bazar di oggetti usurati (manoseados, scrive, ossia consumati dal contatto delle mani, per l’uso, e viene in mente, chissà perché, l’orlo sbrecciato e umido, perfettamente liso al tatto, delle acquasantiere golosamente morbide nella penombra di quella grande carena rovesciata che è la navata della chiesa).
Una volta aperti gli occhi, è grazie al tabacco che Adàn riesce ad adottare un principio di scrutinio e di individuazione e, osservando la natura morta, si rende conto, come lo Stephen di Joyce nei suoi «epicleti» che l’oggetto può racchiudere la radiance, che Marechal chiama splendor formae. Cortázar, qualche decennio più avanti, implicherà il lettore («deposito di entusiasmo aperto ad ogni classe di cose distinte», capace di associare il separato, stabilire connessioni ed accettare l’abisso) in un montaggio di oggetti singolari e disparati che ricordano, amplificandola, la natura morta dell’Adán Buenosayres (il passaggio sarebbe simile a quello che nelle arti visive, si consumava dal merzbau in cornice di Schwitters al combine painting «a tutto tondo» di Rauchenberg autore che, non a caso, possiede numerose affinità con Cortázar): davanti alle dispari immagini di una «porta che si chiude»; «il sorriso di mia moglie»; «il ricordo di una stradina di Antibes»; «la visione di una rosa in un vaso» (in Ùltimo Round) ma anche di un «cigno che nuota nel Bois de Boulogne», una «foglia secca che si sporge dal bordo di un banco»; una «gru arancione enorme e delicata contro il cielo azzurro della sera»; «l’odore di un vagone di treno quando uno entra e possiede un biglietto per un viaggio di molte ore»; «L’année dernière en Marienbad»; la «Locomotiva in Gare de Lyon»; «questo cartello disgustato e sudicio» (in La Vuelta del dìa en 80 mundos) il lettore deve essere in grado di scoprire vincoli nascosti, strade segrete, somiglianze di famiglia tra eventi apparentemente disconnessi fra loro.
Si tratta, per il lettore complice, di diventare anch’esso un montatore capace di attuare secondo l’arbitrio del «papador de moscas» dove, attraverso una visione passiva e fatale di avvenimenti isolati, si giunge non ad una superiore forma di conoscenza dialettica ma a quello che Cortázar chiama «extrañamiento instantaneo», un déjà-vu, un blocco folgorante, un cristallo di tempo dove tutto occorre nello stesso momento, spazio-tempo dove le figure si mostrano come facce riflettenti in un accadere senza durata (come ne l’Aleph di Borges). Quello che rimane, ci suggerisce il grande scrittore-montatore argentino, non è nessuna presa di coscienza ma qualcosa di confuso, simile ad un’ansia senza oggetto, un tremito o una vaga nostalgia, una spaccatura che permette l’ingresso, nella vita della coscienza vigile, della rêverie e del sentimento del fantastico attraversato da una sottile nostalgia che assomiglia al vago sentore che percepiamo quando la notte, e la coltre di sogno che la ricopriva come un manto stellato, si è appena ritirata «Algo ha estado aquì, tan cerca, y ahora no hay màs, no queda màs que una rosa en un vaso. Una rosa es una rosa es una rosa. Y nada màs».
Il secondo spazio crepuscolare impone l’adozione di un punto di vista paradossale, come mostra Ernesto Sabato all’inizio di Entre Heroes y Tumbas che si apre alla dimensione crepuscolare attraverso il misterioso evento del anochece, che non è, semplicemente, un fattore temporale, quanto la propagazione silenziosa di tutto un sentimento notturno. All’inizio, si tratta di una sensazione: il narratore, mentre sta osservando, in una piazza deserta, una statua di Cerere, si sente osservato e il sentimento che lo pervade è quello di un fruscio sospettoso che possiede l’alone sinistro dello spettrale. All’improvviso il giovane si ritrova prigioniero di una strana forza che lo trascina verso un oscuro abisso, situato «nell’altro lato dell’esistenza» e che cerca di comunicarsi con lui. Gli occhi della statua, all’improvviso (il monumento sembra possedere qui una forza analoga a quelli di Nadja di Breton o di Le paysan de Paris di Aragon), aspirati da questa forza misteriosa, si ritrovano come girati verso l’interno.
Dietro le spalle del narratore, lo scopriamo all’improvviso, si cela una donna misteriosa e la visione, allora, si sdoppia: da un lato la statua di Cerere, che appartiene al mondo plastico della bellezza eterna e dall’altro la fanciulla, pallida, i capelli corvini, sembiante che presto si dissolve in un pulviscolo dorato, simbolo della inattingibile velocità moderna: la donna si allontana e scompare, per chiudersi di nuovo nel suo mistero ninfale, attratta dal fuori campo assoluto, mentre il narratore, fuoriuscito dall’imbuto del crepuscolo, scopre di non essere più lo stesso di prima: quello che rimane occulto, ci ricorda Starobinski, è sempre l’altra faccia di una presenza e mille volte l’occhio, in questa sua passione del socchiuso, dopo aver girato intorno a sé stesso, si chiede, alla fine, se ciò che è visibile esiste oppure no.
Il terzo spazio crepuscolare è il sito geografico di una terra, insieme immaginaria e reale, che sovrappone il pezzo di terra desolata con il frontespizio del libro di avventura: nella sequenza incipitaria di Evaristo Carriego Borges ci introduce in un peculiare spazio tripartito. Il primo spazio è la «Biblioteca-Mondo», insieme cantaro salomonico e macchina del tempo; il secondo è il «Giardino», piccolo cosmo ordinato e zolla d’erba dureriana, quindi, davanti al confine della staccionata, che è anche un visore ed una cornice, si situa, in fuori campo, l’altro lato, il «barrio di Palermo», regno delle risse con i coltelli, degli accordi di chitarra che risuonano nei vicoli e della polvere che riempie le pupille e trasfigura le sagome in un balletto di ombre rosse.
In questo «vago terreno annegato» che fu mattatoio, le strade della città nascente ritornano ad essere selciato e mucchio compatto di terra e, in definitiva, lo spazio urbano che iniziava a imporre le sue striature si appiana di nuovo, diventando residuo di Pampa, pezzo di pianura sterminatamente vuota, e luogo privilegiato della gauchesca (come la biblioteca era il territorio privilegiato per il fiorire di un altro genere, quello della letteratura non empirica e concettuale) e dell’epos dei compadritos, figli esiliati del gaucho che ballano il tango fra di loro e, ansiosi di duello, finiscono, feriti a morte, per stramazzare nella polvere (nel secondo capitolo di Adán Buenosaires, dedicato alla riunione a casa degli Amudsen, non si ascolta, forse, una antica registrazione della voce di uno di questi malevos primitivos? Lo stesso Marechal non definisce il compadrito come un gaucho urbanizzato?) Un lembo di Buenos Aires può quindi, contenere o rivelare, come uno strappo o un buco in un tela di Fontana (che si chiamavano «Concetto spaziale» o, ancora meglio «La fine di Dio»), la pampa onirica, lo spazio crepuscolare della quale la città è fatta. Gombrowicz, nella sezione del suo Diario dedicata al «viaggio nel lontano nord argentino», viaggio esistenziale perché si scopre misteriosamente unito alla vita stessa, accenna a questo avanzare nell’identico che dura giorni, attraverso l’improvviso sorgere, come in una cataratta, di macchie bianche. «Osservate la mappa!» scrive lo scrittore polacco (che tradusse in un bar argentino, bevendo mate e birra e giocando a scacchi, aiutato da avventori-complici, il suo primo romanzo, Ferdydurke): «il nord significa un’ immensa estensione di sabbia e arbusti, una regione dove, in centinaia di chilometri quadrati, non c’è un’anima vivente» e gli spazi e i silenzi sono così interminabili che fischiano le orecchie.
Saer in La ocasión descrive la Pampa come una «estensione piatta, senza accidenti (...) grigio come il cielo alla fine di Agosto, che rappresenta meglio di qualunque altro luogo il vuoto uniforme, lo spazio spogliato della fosforescenza variegata che comanda i sensi, la terra di nessuno trasparente all’interno della testa».
Nel romanzo Bianco, un medium caduto in disgrazia in Europa, raggiunge questa terra spopolata e si rende subito conto che si tratta di una «terra spirituale», simile a una zona imprecisa e brumosa della memoria che non appartiene solo al campo (o, borgesianamente, al patio e al giardino), ma si inserisce fluttuando nell’atmosfera: in Saer la Pampa diventa una sostanza erratica e ostinata, che penetra fra le cose, e una sensazione che introduce, nel pensiero, il sentimento del precario: se da un lato trasforma tutto in miraggio (ricordiamo che Bianco è un metafisico: è convinto che tutto, anche il rugoso sfiorato dalle dita, sia una nostra rappresentazione), dall’altro insinua nella coscienza del lettore l’ultima spora del pensiero illuminista, il dubbio. Lo scopo di questo metafisico rigoroso è, però, del tutto immanente: vuole importare filo spinato e iniziare a delimitare e assegnare questa grande estensione senza nome, segmentando l’infinito e pausando lo scorrere selvaggio dell’occhio sul filo dell’orizzonte.
Il troperito Burgos, protagonista di uno dei racconti della «Macchina che produce storie» ne La ciudad Ausente di Piglia, vive una condizione paradossale: nonostante sia un gaucho estremamente abile e diestro, sembra che nessuno lo noti, che nessuno si accorga della sua presenza: Burgos è un Gaucho invisibile, a galoppo verso la tormenta, quando le nubi si confondono con il campo aperto, siluetta la cui materia spettrale si compone di quelle stesse nubi e di quella stessa terra umida. Pampa che nelle sovraimpressioni dei fasci di narrazione della Macchina si trasforma in cimitero della dittatura: il sottosuolo nasconde i tragici resti dei desaparecidos: i generali trasformano la prateria in un inferno, la terra blanda, l’erba tenera e senza coltivo, in una sterminata tomba. Nel romanzo, il protagonista, Junior, si imbatte nei manoscritti inediti di Macedonio Fernandez, che, inventore della «macchina che produce storie» è forse il più grande esegeta della terra crepuscolare (un passo dei manoscritti per esempio, recita: «Fuggire verso gli spazi indefiniti delle forme future. Il possibile è tutto ciò che tende all’esistenza. Ciò che si può immaginare accade e inizia a far parte della realtà»).
Pareda, l’avvocato protagonista del Gaucho insufrible di Bolaño, avvolto in un mondo di fantasmi donchisciottesco, decide di affrontare l’etica rigorosa degli spazi aperti e per questo si installa nell’antica casa pampeana di Rio negro, in ricordo di una cavalcata bambina con il padre (chiama, non a caso, il suo cavallo Josè Bianco, come il protagonista del romanzo di Saer). Ai due gauchos che contratta per aggiustare il tetto della casa, racconta, di notte, storie sorte dalla sua immaginazione letteraria: l’Argentina è un romanzo, e quindi è falsa o almeno bugiarda, terra borgesiana di compadritos e ladri, simile all’inferno, mentre la pampa è l’eterno, paragonabile solo a un camposanto senza limiti, copia fedele dell’eternità, dice: magari un cimitero della Recoleta moltiplicato all’infinito, che Borges sognava come il luogo di riposo delle sue ceneri, e dove «los muchos ayeres de la historia se cristalizaban en una historia sola, detenida y única». Intanto il ritmo della storia si affaccia, di nuovo, anche nell’illimite e nel senza tempo della terra sterminata: i gauchos sono appiedati, perché hanno venduto i cavalli al macello e adesso o si spostano in bicicletta o fanno l’autostop, figure immobili come cartelloni pubblicitari lungo le interminabili piste polverose della pampa. Quando, di notte, svuota le trappole (tese più davanti al silenzio che per catturare prede), Pareda si imbatte nei resti rugginosi dell’operazione di segmentazione implacabile di Bianco nel romanzo di Saer, rovelli di filo spinato che, ancora, e dopo decenni, si mantenevano in piedi. A volte Pereda aspetta un treno che non arriva, come se questo pezzo di Argentina fosse stato cancellato «non solo dalle mappe, ma dalla memoria» (e che Jacopo Fijman definirebbe come «horno apagado del silencio» dove ogni itinerario si perde nel deserto, «lugar sin destino»).
Si realizza quello che potremmo chiamare, «pensiero pampeano» che ci fa tornare, di nuovo, a Bachelard, e alla pagine del suo La poetica dello spazio nel quale si intravedono diverse accezioni di questo pensiero dell’illimite, dello sconfinato e dell’ipotetico. Ad esempio si può considerare la pianura come un sentimento che ci ingrandisce in una specie di trapasso infinito di contenente e contenuto; o, anche considerare la pampa come dispersione, immagine fluttuante, fluida, dove l’inconsistenza dei sogni si confonde con un territorio ipotetico e che, in un rovesciamento paradigmatico, può diventare, all’opposto, carcere (l’illimitato opprime più del limitato) o infine, citando un poeta dadaista come Tzara immensità che diventa «palma del riposo»: la terra sconfinata entra, alla fine, come il mucchio di Sahara nel pugno chiuso di Borges, nel palmo della mano, con i suoi sentieri e la sua linea della vita inscritti nella carne ingiuriata dal tempo
Il Pareda di Bolaño accenna anche, in un racconto dominato dallo spazio notturno, alla differenza fra le notti europee, oscure come «bocche di lupo» e a quelle americane, oscure «come il vuoto», luogo aereo, fatto di pura intemperie. Ed è davanti alla pampa deserta che questo gaucho donchisciottesco intona una canzonetta francese, che parla di un porto delle nebbie e di amanti infedeli, storie urbane che potrebbe sperimentare, magari, a Buenos Aires, anche se è nella Pampa, che decide alla fine, di Volver, rovesciando l’assunto del tango (dove si tornava proprio nella capitale, dopo un viaggio in un territorio senza nome o semplicemente lasciato fuori campo): non è un caso, forse, che il racconto di Bolaño termini con questo verbo paradigmatico, introducendo, come in un lampo, la voce di Carlitos Gardel, altro grande esploratore dello spazio crepuscolare, del «parpadeo» delle luci che da lontano vanno segnalando il suo ritorno a casa mentre le nevi (del tempo, o dell'altro anno, come in Villon) lo picchiettano d'argento.
Bianco, nel romanzo di Saer, sperimenta una specie di dislocazione improvvisa e pensa di trovarsi, all’improvviso, a Parigi: «Adesso mi trovo in uno spazio vuoto, grigio e beige, dove non accade nulla, a parte il silenzio proprio dei sogni, del sogno di qualcuno che sono io e che non sa che sta dormendo nella sua stanza, in un posto che si chiama Parigi, che si chiama mondo». Gombrowicz provò a «disegnare» la distanza fra Europa e Argentina dandole la forma di un elefante che, misurato dalla testa alla coda è più lungo che dalla coda alla testa, perché l’Europa, dall’Argentina, sembra molto più vicina, mentre le distanze interiori, sperimentate personalmente, cioè drammatizzate, si allargano a dismisura Questo stato di dislocazione fra un lado de acà e un lado de allà, fra Argentina e Europa, è stato esplorato, com’è noto, anche da Cortázar, riempito da una Carta de una señorita en Paris, sovraimpresso nel racconto di Passages El otro cielo, fino a dividere Rayuela proprio secondo l’arbitrio di queste due porzioni di mondo in tensione «transatlantica» che si trasforma e modula attraverso le diverse caselle che compongono il gioco della «campana» o appunto, rayuela.
Quando Oliveira spia la Maga intenta nel salto da una casella all’altra, rimane colpito da come ella riesca a situarsi esattamente nel limite tra di esse, «come un flamenco rosa nella penombra»: immobile, su un piede solo, bellissima e remota, in questa rottura di un secondo fra il passaggio e la riapparizione, questa fanciulla incosciamente pagana-rinata, questa chica a-grisaille, vittima perplessa dei suoi chiaroscuri umbratili e inesplicabili, calcola mentalmente la distanza che la separa dalla terza casella, che secondo il dettato allegorico di Cortázar, rappresentava l’azzurro del cielo. La Maga, figura che, come la Nadja di Breton ma senza la fragilità tesa fino a spezzarsi, come Madame Edwarda ma senza la sua violenza della soglia, è la fanciulla – faro, la fanciulla – bengala, colei che aspetta sempre dall’altro lato, che invita a saltare chi non può dare il salto, verso lo spazio del crepuscolo e dell’immaginazioe.
In 62 Modelo para Armar, che «sorge» proprio dallo sviluppo ipertrofico di un capitolo di quel romanzo-mondo che è Rayuela), questo grande spazio crepuscolare e vuoto assume la qualità di luogo senza nome fra due stazioni, dove i protagonisti si ritrovano avvolti nella luce del giorno che declina, catturati in una fermata estrema, fra essere e non essere, movimento e stasi, memoria e dispersione definitiva: «Come si può rimanere lì? E una volta lì, che accade?» Chiosa Godard nei suoi Saggi: si tratta del mondo del destino, del mondo abbandonato dove la creazione si è seduta, e riposa come un accidente. Non rimane, direbbe Saer, che una luce vetrosa, che non è né penombra né chiaro lume, né cielo né terra, né orizzonte né nulla, unicamente un medium verdoso dove le cose fluttuano, come alghe nel fiume, o come pesci in un acquario (Gombrowicz non accennava anche lui alle sponde «violentemente verdi» che imponevano la loro presenza ondulante su entrambi i lati dello sguardo?): è la dimensione ukyio-e (immagini del mondo fluttuante) di queste rappresentazioni che impongono allo sguardo e al pensiero qualcosa di simile ad uno spazio costiero, ad un bordo mobile a ridosso dello sconosciuto.
La spazio crepuscolare è quella zona nomade che assale il viaggiatore quando, in uno stato di sonnolenza allucinata, si rende conto che il mondo esiste da tempo immemorabile e che gli è sconosciuto: un lembo di terra fra cielo e mare che si osserva sperimentando il fascino sinuoso e interminabile della deriva senza approdi, come fece quell’operatore Lumiere (Promo) che, disteso lungo immobile su una canoa (in una posizione del tutto simile a quella del Virgilio moribondo e vaticinante nel romanzo di Hermann Broch) e sincronizzando il movimento della manovella al tamburo del cuore per renderlo uniforme, filmò il bordo limaccioso del Nilo, in una vue di 50 secondi che sembra la registrazione del mondo quando inizia a sorgere e dove, nel silenzio del muto, si immagina l’eterno mormorio del fiume che un tempo fu un dio e che adesso è il sito dove l’occhio, per metà addormentato e per metà desto, offre all’intelligenza di una macchina e al suo movimento di registrazione monotamente passiva, qualcosa come un risveglio o un’ebbrezza gentile, insieme spalto dove fermarsi e flusso dove perdersi per sempre.