altCirca due anni fa, a Bari, durante la seconda edizione di Registi fuori dagli scheRmi, la nostra redazione ebbe modo di conoscere personalmente Shinya Tsukamoto. Il suo aspetto, come il suo porgersi, calmo e gentile, infondevano un senso di tranquillità e pace a chi gli stava intorno; in certi momenti si arrivava quasi a dubitare che potesse essere lui l’autore di opere radicali come Tetsuo, Tokyo Fist o Nightmare Detective. Da sempre, infatti, Tsukamoto ci ha abituato a immagini incandescenti e violente, a suoni metallici e stridenti; egli ha sviluppato negli anni una poetica rivoluzionaria e uno sguardo inimitabile, portando avanti un’indagine estrema sul corpo umano, convinto che solo attraverso quest’ultimo si possa arrivare a ritrarre lo spirito. Il suo è un cinema ibrido, polimorfo, che sotto una pelle cyberpunk nasconde una carne profondamente umanista, incentrato com’è sull’eterno conflitto cultura/natura: la cultura del metallo, la natura dell’uomo.


In quell’occasione fu proiettato Kotoko, all’epoca suo ultimo film, vincitore della sezione Orizzonti alla 68ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Già allora Tsukamoto ci aveva parlato vagamente di un suo nuovo progetto sulla guerra. Nobi (Fires on the Plain) è stato presentato in Concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. I nostri redattori, ancora impressionati dalla potente visione, hanno incontrato il regista giapponese per una breve intervista durante il suo periodo di permanenza al festival.

È la prima volta, mi pare, che giri un film di guerra in senso stretto. Un film che racconta la guerra e che ne offre un ritratto terrificante e pauroso. Cosa si nasconde dietro questa scelta?

La maggior parte delle persone che hanno vissuto la guerra sulla loro pelle ormai sono sempre più anziane, se non addirittura già morte. Questo implica che non vi è più nessuno che può testimoniare cosa sia davvero la guerra e quanto dolore questa comporti. Se non si ha memoria di ciò che è successo, aumenta il rischio che la gente torni a credere nella guerra e che magari se ne avvii una nuova. A maggior ragione ora che in Giappone vi è una certa situazione politica. Bisogna, dunque, mostrare il prima possibile ciò che queste persone hanno provato e quanto questo sia stato doloroso.

Consideri Nobi un film politico?

Non lo considererei un film politico né tanto meno un film di propaganda perché non vi è alcun riferimento al presente. Ciò non toglie che ognuno è libero di interpretare il film come vuole e dunque anche di considerarlo politico. Quello che penso sia indiscutibile è che si tratta di un film che ripugna la guerra e i suoi cosiddetti valori.

Tra l’altro il tuo è un film di guerra anomalo perché il punto di vista è quello degli aggressori, di chi perpetra la violenza. Che tipo di reazione credi ci sarà in Giappone?

In Giappone ci saranno diverse reazioni poiché chiaramente vi sono tante persone che si schierano contro la guerra, ma anche tante altre che invece premono perché si realizzi la stessa situazione che ha portato al conflitto anni fa. Ciò che mi interessava e che ho voluto realizzare con Nobi, era mostrare la guerra per quello che è realmente. Sono abbastanza sicuro che i leader politici odieranno questo film, ma non è detto che la stessa cosa valga anche per tutte le altre persone, per l’intero popolo giapponese. Ci saranno delle persone che forse vorranno capire questo genere di film ed è soprattutto a loro che mi piacerebbe mostrarlo.
Solitamente vediamo (al cinema, ndr) gente cattiva e gente buona, e in genere ci schieriamo dalla parte dei “buoni” che lottano contro i “cattivi”; ma se continuiamo a pensarla in questo modo, allora la guerra non finirà mai e andrà avanti ancora a lungo. In questo film ho voluto creare una situazione differente, dove un uomo si ritrova semplicemente solo e non capisce più chi siano i nemici, da dove provengano le bombe, del perché vi siano queste bombe, chi sia a dare gli ordini, chi sia a comandare. Lui semplicemente si ritrova in questo luogo, senza capire cosa sta facendo e cosa sta accadendo intorno a lui.

A proposito di luoghi… Un’altra novità, a nostro avviso ancora più rilevante, riguarda l’ambientazione: Nobi si svolge in una giungla. Mai prima d’ora ti eri avventurato in un simile scenario, avendo girato praticamente tutti i tuoi film in contesti urbani, facendo della metropoli il soggetto principale dei tuoi film. Da cosa è stato dettato questo cambiamento?

Fino ad ora nei miei film sono sempre stato interessato a un’atmosfera differente. Come hai detto, per anni ho immaginato un uomo che vive in una grande città e tutto intorno a lui è materia inorganica e così lui è costretto a vivere all’interno di una sorta di realtà virtuale, in uno spazio molto stretto in cui deve trovare la maniera di sentirsi vivo. È come se tu stessi dormendo e in certi momenti dovessi toccarti e colpirti per poter dire: “sono ancora vivo”. Devi sentire il tuo stesso corpo all’interno di questa realtà molto piccola e non organica.
Ora anch’io sto invecchiando, e così i miei interessi stanno mutando, anche se non del tutto… Prova a immaginare un uomo in una piccola barca: prima questa barca stava galleggiando in una “città-giungla”, una giunga fatta di cemento. Ora invece sta galleggiando all’esterno, tra la natura, ma si trova pur sempre in una piccola barca. Benché tutto intorno a lui sia cambiato, egli è ancora in uno spazio stretto, egli deve ancora trovare una maniera per sentire il suo corpo e provare certe sensazioni.

Spesso, specialmente nei film di guerra occidentali ambientati nel Pacifico, la giungla assume le sembianze del nemico: penso a un film come Platoon, ad esempio, dove il caldo, il sudore, le zanzare insidiano i soldati (americani) prima ancora dei loro nemici. Nel tuo film, anche se claustrofobica, la giungla non mi sembra avere questo aspetto, essendo piuttosto una presenza benigna nel quale uomini, spesso per giunta dello stesso schieramento, si attaccano a vicenda, compiendo atti terribili. Sei d’accordo con questa lettura?

È esattamente come dici. È quello che volevo rappresentare. La giungla non è uno scenario ostile o un’entità maligna, è semplicemente la natura che circonda l’essere umano.

Parlando di ciò che volevi rappresentare: mi sembra che in questo tuo ultimo film, come già nel precedente Kotoko, il suono assuma un’importanza centrale tanto da prevalere, in certe scene, persino sull’immagine. Penso ad esempio alla sequenza che “mostra” l’aggressione da parte del cane: è possibile percepirla chiaramente, anche se non attraverso le (sole) immagini, ma appunto tramite la loro dimensione sonora. Si potrebbe forse arrivare a dire che hai creato un’immagine quasi unicamente “acustica”…  

Con questo film, più ancora che in Kotoko, non mi interessava raccontare una storia quanto piuttosto dare la possibilità agli spettatori di vivere qualcosa di molto simile a ciò che succede su di un campo di battaglia. E ho voluto farlo attraverso i suoni e le immagini, chiaramente.

E dunque possibile parlare di una “percezione della percezione” stessa? In fondo lo spettatore vive ciò che vive il protagonista, i suoi stessi dubbi, le sue stesse paure…

La mia intenzione era di ritrarle entrambe: quello che vediamo noi (spettatori, ndr) e quello che vede lui (il protagonista, ndr).

C’è una ragione particolare dietro la scelta di prestare il tuo corpo e la tua voce al protagonista?

Ho recitato come attore protagonista anche in altri miei film, come Tokyo Fist o Bullet Ballet, ma in questo caso avrei davvero preferito utilizzare un attore differente per il ruolo principale. In realtà si è trattata di una scelta dettata principalmente da ragioni economiche poiché, come per molte altre persone, anche per noi registi non è un periodo d’oro da questo punto di vista.

Lido di Venezia, 3 settembre 2014.


Filmografia

Bullet Ballet (Shinya Tsukamoto 1998)

Kotoko (Shinya Tsukamoto 2011)

Nightmare Detective (Shinya Tsukamoto 2006)

Nobi (Shinya Tsukamoto 2014)

Platoon (Oliver Stone 1986)

Tetsuo: The Iron Man (Tetsuo) (Shinya Tsukamoto 1989)

Tokyo Fist (Shinya Tsukamoto 1995)