Giona A. Nazzaro

altCome parli di un paese soffocato da una crisi finanziaria senza precedenti? Come rimetti all’ordine del giorno il cinema senza cadere negli schematismi ideologici che impediscono il farsi di qualsiasi discorso? E ancora, come smarcarsi rispetto all’idiozia dominante (e del cinema e della politica) restituendo al gesto filmico la sua libertà insurrezionale che in questi giorni di festival si rivela clamorosamente assente se si prescinde da Garrel, Desplechin, Apichatpong Weerasethakul?


Miguel Gomes, il cui magnifico Tabu offriva non di meno il fianco a un sospetto di precoce manierismo, con la sua trilogia delle mille e una notte compie una riappropriazione clamorosa delle possibilità del fare cinema oggi in Europa. Situandosi all’incrocio fra documentario e cinema, come direbbero coloro che ci tengono a fare distinzioni invece di ragionare di cinema, pone lo sguardo, e le sue possibilità di articolarlo in forma di un discorso politico al centro di un'impresa che non è stata ammessa in concorso (troppo lunga…) e che ha trovato asilo alla Quinzaine.

Presentando As Mil E Uma Noites Gomes, infrangendo i rituali d'anteprima, ha voluto sul palco, assieme ai suoi attori, tutti coloro che hanno lavorato al film. Poi ha contato i produttori presenti. “C’è qualcosa che non funziona”, ha dichiarato. “Sul palco ci sono più produttori che maestranze”. Con questa semplicissima dichiarazione il regista ha puntato l’indice sulla situazione del cinema europeo, un coacervo di centri produttivi che si uniscono fra di loro; e, al tempo stesso, preparava già il terreno al suo film (o meglio: al primo capitolo della sua trilogia). Lo diceva già Brecht: (parafrasiamo) come fare un discorso sugli alberi quando si rischia di commettere un crimine contro l’umanità trascurando le urgenze della storia?

Gomes la storia la prende e la porta di peso nel suo film. Quella di 600 operai che rischiano di perdere il lavoro. Una nuova specie di ape minaccia di distruggere l’agricoltura del Portogallo, paese sempre più povero a causa del debito. La jouissance gomesiana s’origina a partire dalla sua indifferenza più radicale nei confronti del fare cinema. Come dire che se l’economia ha condotto un paese al disastro, allora il cinema deve inventare – pensare – una nuova (non)economia del segno. Una nuova modalità di sprecare le risorse per farle funzionare come discorso che cessi finalmente di produrre plusvalore. Il cinema, dunque, come un’antieconomia che attraverso lo spreco del godimento riequilibri (annulli) le spinte all’accumulo del desiderio rilanciando le strategie della seduzione.

E come Sheherazade che notte dopo notte racconta una storia diversa, Gomes, pur conservando negli occhi la triangolazione de Oliveira - Paulo Rocha - Raul Ruiz, mette in scena una capacità d’invenzione assolutamente époustouflante, come direbbero i francesi. Nessuna inquadratura assomiglia alla precedente, tutte le invenzioni di Méliès sono a sua disposizione per creare un orizzonte di puro cinema che non diventa mai, mai, manierista o rococò, conservandosi sempre, rigorosamente, nel campo dei Lumière. E mentre si nuota, mentre ci si immerge in queste nuove mappe dello sguardo, la seduzione palpita forte negli occhi, godendo del proprio smarrirsi, consapevole che non sarà un improvviso/sospirato orgasmo a eliminare dall’equazione quell’elemento che rifiuta di assoggettarsi alla logica delle somme o della dialettica.

Gomes sfonda qualsiasi sistema che non sia quello della possibilità palingenetica del cinema di reinventare il mondo riconsegnandolo ancora una volta allo sguardo. Perché meravigliarsi se alla fine del primo capitolo esplode Fuck the System degli Exploited? E, soprattutto, perché meravigliarsi se alla fine del secondo capitolo il dolcissimo cane Dixie gioca con il suo fantasma come se fosse un immagine?