Pietro Masciullo

altSuperfici. Todd Haynes torna ossessivamente a “immaginare” gli anni ’50, il laboratorio (post)moderno che ha cullato la nostra epoca, configurando luoghi e tempi talmente iconizzati dalla cultura popolare da risultare superflua qualsivoglia operazione filologica che ne rintracci un lontano referente. Qui adatta un romanzo di Patricia Highsmith, chiama in causa due donne e la passione non-dicibile che le divora e (im)pone i loro corpi nelle gabbie intime/culturali che le separano. Haynes depura il suo stile e decuplica il lavoro sulla “forma”, si allontana ancora di più dal Paradiso e ci riconsegna un on the road apparentemente cristallizzato nel suo set. Carol diventa così un’esperienza estetica tutta potenziale perché occultata nelle pieghe di un’immagine diventata ormai l’unica “verità” su cui ragionare. Oggi.


Ecco: i segni del cinema di Sirk e Fassbinder (modelli da sempre irrinunciabili per Haynes) non tendono minimamente a ri-creare un prototipo nell’atto nostalgico del ri-filmare, ma piuttosto diventano umori ancora-vivi perché rammemorati in un tempo del cinema diventato ormai il nostro unico presente. Un film in the mood for love alla ricerca di un tempo di vivere perché la paura mangia l’anima? Sì. Haynes fa danzare le sue donne nell’immagine della Storia, le sfiora e accende in loro il desiderio insinuandolo nel campo-controcampo che impone. Film sul riflesso, allora, inevitabilmente. Sul riflesso dei tabù sessuali come eterni carceri (auto)imposti, sul riflesso del cinema classico come immaginario popolare condiviso, infine sul riflesso dell’esperienza estetica odierna in stimolante lotta con la galoppante anestesia. Non è un caso che il “set” sia costellato da schermi: televisori, vetri, specchi, finestrini, metalli riflettenti, insomma è un continuo e consapevole mettere in abisso l’immagine “perfetta” che con maniacale cura si è preventivamente costruita. Aprendosi ad un’alterità del visibile.

Insomma: è solo tra gli sguardi di queste due donne/attrici perennemente in primo-piano, nel cieco movimento delle loro mani che si cercano instancabilmente, ossia nell’oltre di quell’ossessiva costruzione formale (gli anni ’50 visti come apogeo dell’immagine cinematografica suturata), che il film classico potenziale (e mai girato) si proietta oggi per noi. Quel film lo riconosciamo subito e lo mettiamo tra parentesi: Haynes lo (pre)suppone nei suoi riflessi e ci riconsegna uno straordinario oggetto di modernariato pop (quasi un frame di Norman Rockwell) che ha comunque l’ardire di vivere nelle ambiguità che semina nel nostro sguardo. Oltre le superfici.