Grazia Paganelli
Un film femminile su una società matriarcale governata dagli uomini. Suona come un paradosso il tema attorno al quale ruota il film di Ida Panahandeh (e con lei molto cinema iraniano). Inserito nella selezione Un certain regard, Nahid è il primo lungometraggio di una regista coraggiosa (fino ad ora ha diretto cortometraggi, documentari e film per la televisione) che riflette sui contrasti di un paese dal tessuto sociale contraddittorio e pieno di storie da raccontare.
Nahid è una donna divorziata con un figlio di dieci anni. Ha una relazione con un altro uomo ma non può sposarlo perché, secondo la legge, perderebbe la custodia del figlio. Poco da dire e molto da approfondire, a partire dai mille problemi quotidiani che la donna deve affrontare, e che si trasformano in corse e affanni, in bugie, situazioni taciute, stratagemmi per recuperare qualche soldo e pagare l’affitto. Come un animale selvaggio, sola e incompresa, Nahib vaga per le strade di una bella città del nord dell’Iran, affacciata sul Mar Caspio, in un autunno fatto di colori plumbei, cieli in veloce cambiamento, nuvole e piogge che irrompono senza preavviso e contribuiscono, su un piano puramente visivo, a moltiplicare gli ostacoli che si frappongono sulla sua strada.
Dal monitor di una videocamera di sorveglianza si vedono, in lontananza, un uomo e un cane, fermi davanti al mare. Immagine ricorrente in questo film fatto di continui cambiamenti, di andate e ritorni, ripensamenti e ricerche. I personaggi non fanno che inseguirsi e fuggirsi. Si allontanano e si riavvicinano in disordinata sequenza. Nahid corre spesso a far visita all’amato, in modo uguale e contrario al suo ex marito, che va spesso a trovare la donna e cerca di convincerla a tornare con lui. Una sorta di cerchio imperfetto, assecondato dai luoghi di una città opprimente. Non c’è posto dove ci si possa rifugiare senza timore di essere visti. E quella telecamera di controllo ne è la prova definitiva. Come dire che in una società tanto claustrofobica, anche il nuovo contribuisce a radicare le vecchie tradizioni. Così, via via che si procede, si ripensa ai film ugualmente femminili di Rakhshān Bani-Etemād, alle sue donne sempre di corsa col capo chino, Nargess, Gilane, che attraversano le città, senza sosta e con fatica, per fuggire o semplicemente aggirare gli ostacoli. Si pensa a certi film di Panahi (Il cerchio, appunto), misteriosi e fragili nella caparbietà dei gesti sempre uguali, si pensa a certe storie di Asghar Farhadi, The Beautiful City ma anche, stranamente a Il passato. Nel dito dolorante della dattilografa Nahid ci sembra di vedere la mano fasciata di Marie. Solo che qui si va oltre e il dolore diventa ferita sanguinante, inferta dall’ex marito, allontanato per l’ennesima volta. Ma i cerchi che Panahandeh disegna sono destinati a non chiudersi mai, nonostante l’apparente lieto fine, resta il senso di incertezza, l’immagine sgranata di quel monitor, l’idea di un foulard da cambiare, o di un divano acquistato chissà per quale motivo, e poi trasportato sul tetto dell’auto, come segno evidente di un nonsenso che attraversa le strade ed entra nella vita quotidiana per non andarsene mai.