altUn ragazzo di Fenyang, recita il titolo dello straordinario documentario di Walter Salles dedicato a Jia Zhang-ke. E proprio come in Xiao Wu e Platform, si riparte sempre da lì, da Fenyang. Come se non si potesse che tornare sempre a casa, pur nella consapevolezza (come non evocare Nick Ray?) che a casa non si può tornare mai.

 

Con Apichatpong Weerasethakul e Kurosawa Kiyoshi, Jia Zhang-ke firma il terzo lato di un’ideale trilogia dei fantasmi. Eppure, rispetto ai suoi due colleghi, Jia compie addirittura uno scarto in più, uno scarto di tale ampiezza da confermare, ancora una volta, che lui è autenticamente uno dei maggiori cineasti del nostro tempo.

A partire dal suo paese, Fenyang, che diventa così il centro del mondo, Jia stringe in un potentissimo corpo a corpo il resto della Cina. Go West! incitano i Pet Shop Boys all’inizio del film che si apre alle soglie del nuovo millennio. Zhao Tao guida le danze, fuori dalle finestre esplodono i fuochi d’artificio. La promessa di un nuovo mondo si presenta nelle sembianze di una Volkswagen Sedan che Zhang non riesce a guidare (e infatti Shen Tao la fa sbattere contro un pezzo di muro).

Nemmeno il Robert Aldrich di Too Late the Hero, ha osato presentare i titoli di testa del suo film dopo quasi 50 minuti, ma la storia non è lineare, è spezzata, non procede mai come ci si immagina. Il cinema, calato nella storia, non può assumerne le fratture per sperare di farle diventare progetto di rinnovamento. E così, offrendo lo straordinario spettacolo di un cineasta che interagisce con precisione e urgenza documentaria con la storia del suo paese, la Cina che si appresta a fare un nuovo grande balzo in avanti, Jia mette in scena, letteralmente, la sparizione di un intero paese.

Saltando dal 2014 al 2025, condensando in un potentissimo stacco di montaggio tutta l’evoluzione capitalista, e spostando il suo sguardo in Australia, Jia osa mettere in scena una diaspora futura, la dispersione del popolo cinese. Mountains May Depart racconta cosa accade quando un paese scompare e, come accade in forme diverse nella trilogia di Gomes, il corpo a corpo con il neoliberismo è condotto sino alle estreme conseguenze.

Una vera e propria ucronia, il film di Jia. Un’ucronia che si chiede, “cosa accadrebbe se domani la Cina sparisse del tutto come risultato del suo diventare il primo paese capitalista a conduzione comunista?”. Ed è nel cuore di questa domanda che il cinema di Jia diventa un alveo di fantasmi e desideri. E se Apichatpong Weerasethakul si fionda nelle viscere del sonno tailandese e Kurosawa riporta alla luce, letteralmente, i fantasmi, Jia osserva il tempo in cui sono ancora in vita i fantasmi cinesi di domani, che non potranno non essere dei revenants, dei ritornanti.

Siamo già morti, divorati dalla logica del primato dell’economico. La storia è finita. È Zhang a spiegarcelo. Lui che in Cina non può avere un porto d’armi mentre in Australia può comprare tutte le pistole che vuole ma non ha nemici contro cui impugnarle. Film aperto e vulnerabile, Mountains May Depart, eppure avanzatissimo, porta il cinema di Jia in un luogo ancora tutto da scoprire. Un luogo dove ad attenderci ci sarà sempre Zhao Tao che balla da sola. Scorrete mie lacrime.