Giuseppe Gariazzo
Un film di recinti nello spazio dell’immensa natura selvaggia islandese. Una contraddizione che esprime, espande restringendolo in una serie di micro-luoghi, l’isolamento, la fatica del vivere e del sopravvivere, la solitudine e l’incomunicabilità radicate nei corpi delle persone, le parole pronunciate con difficoltà, i silenzi e i gesti, i comportamenti che, ben più dei dialoghi e talvolta sconfinanti in un umorismo trattenuto, anch’esso recintato eppure folgorante, evidenziano antiche o recenti separazioni. Al tempo stesso, quell’isolamento è fonte di fierezza, di indelebile attaccamento a un ambiente respingente ma che non si ha la forza di abbandonare perché quei contadini, quei pastori anziani (a differenza dei giovani che, di fronte a un ennesimo ostacolo, decidono di trasferirsi), non potrebbero risiedere che lì, per loro impensabile adattarsi ai ritmi di una città. Reykjavík è lontana da quella valle dove uomini e animali condividono ogni istante di ogni giorno, fin dai tempi remoti.
Hrútar (Pecore) dell’islandese Grímur Hákonarson parla di questo, e molto altro. Ed è stata una delle più belle sorprese del festival (incorniciata dalla sua vittoria nella sezione Un Certain Regard). Un film che, nella sua semplicità, rivela lo sguardo di un cineasta sicuro, che sa cogliere le emozioni dei personaggi e rendere intimo lo spazio che li circonda, li mette alla prova. Hrútar conferma, inoltre, la vitalità della cinematografia islandese, il talento nel corso degli anni sia di autori affermati sia di registi esordienti (si pensi a Benedikt Erlingsson, al suo Hross í oss [Of Horses and Men] del 2013) o, come nel caso di Hákonarson (documentarista e, nel 2010, esordiente nel lungometraggio di finzione con Summerland), che hanno una filmografia ai primi passi.
Si tratta, in Hrútar, al manifestarsi di un’epidemia, di nascondere e salvare dall’abbattimento delle greggi (necessario per eliminare il contagio, sostengono i veterinari venuti da lontano) un gruppo di pecore. A tutti i costi. E si tratta, contemporaneamente, di descrivere il possibile riavvicinamento di due fratelli, vicini di fattoria, che non si parlano da quarant’anni. Recinti, appunto. Fisici e interiori, concreti e simbolici. Hákonarson li mette in primo piano fin da subito, li disegna all’interno delle inquadrature, ma non insistendo sulla loro presenza, inserendoli come un elemento, come degli oggetti anch’essi parte di quella quotidianità dove si manifestano, come in una sovrimpressione a più strati, realismo, surrealismo, tragedia. Dentro steccati sono confinate le pecore. Dentro le case o un posto di pubblico ritrovo dove sono confinate le persone. Una cantina diventa la temporanea abitazione del protagonista e delle pecore che ha sottratto alla morte. Mentre negli interni e negli esterni, dove la macchina da presa si muove con lenti avanzamenti, accadono cose che fanno procedere la narrazione, che spingono personaggi e animali a confrontarsi e scontrarsi e, infine, i due fratelli e le pecore superstiti, scoperti e braccati, a intraprendere un pericoloso verso le montagne. La neve, una bufera, la notte li accoglie.
Non si può non pensare al western, per le dinamiche, per i set, per le sfide (c’è anche una scena con una sparatoria quando uno dei fratelli si reca davanti alla casa dell’altro e mira alla finestra). Ma vedendo Hrútar il pensiero va anche a certa letteratura islandese. Il cammino impossibile dentro la bufera, che cancella ogni orientamento, ogni visione, dove le pecore si perdono e i due uomini cercano, forse trovano, salvezza costruendosi un rifugio nel ghiaccio e abbracciandosi nudi per darsi calore, fa venire in mente le pagine poetiche e estremamente fisiche della trilogia di Jón Kalman Stefánsson iniziata con il capolavoro Paradiso e inferno. Così come quella scena finale, la lunga inquadratura frontale con i fratelli riparati in quella improvvisata capanna di/nel ghiaccio, ovvero un ulteriore recinto, evoca quella conclusiva de La cosa di John Carpenter. Corpi sospesi nell’attesa della fine. O di un nuovo inizio.