Pietro Masciullo
Vita. Quando inizia (?) Mountains May Depart e vedi Zhao Tao ballare al ritmo di Go West, pensi subito a The World e alla sua travolgente voglia di “evadere” dal simulacro del mondo ricostruito in un parco divertimenti. Quando la vedi camminare poggiando lo sguardo sulle cose e portandosi dietro il cinema nella contingente “scoperta” (della memoria) dei luoghi, pensi subito ad I Wish I Knew e alle sue improvvise sopravvivenze di passato, oppure a Still Life e alla personale cartografia immaginaria dello spazio. Ancora, quando la scopri alle prese con due uomini innamorati nel paese di Fenyang, un operaio e un rampante uomo d’affari, pensi inevitabilmente a Platform e ai lenti moti interni della società cinese che oggi stanno cambiando il mondo.
Insomma il cinema di Jia Zhangke è un corpo vivo che muta e cresce al ritmo “organico” della Storia, vista-e-vissuta da una musa/compagna che truffauttianamente ha un suo passato immaginario. Un passato che ci ri-guarda. Le immagini di Jia, allora, non vogliono proprio saperne di essere finite, compiute, in-quadrate o ammansite dal set e Tao funge da musa (in)corporea che detta i tempi del movimento e dell’amore: cucina e balla, ama e soffre, sceglie e sbaglia, sorride e piange, lavora e diventa madre, vive e ci fa vivere nelle intermittenze del suo sentire. Tutto il film è uno sregolato battito di vita che sfonda il quadro e apre un’antica e commovente finestra baziniana sul mondo.
Mountains May Depart, poi, prosegue il cammino intrapreso dal precedente Il tocco del peccato segnando una sottile adesione a percorsi narrativi più solidi e fruibili. Struttura, però, che viene subito ridiscussa da una regia tesa a sottolineare le smagliature, le intermittenze, le fratture, rinunciando paradossalmente alla sublime stilizzazione formale di The World e Still Life e abbracciando in toto un’immediatezza rosselliniana nel seguire i suoi personaggi. Zhao Tao sceglie il corteggiatore più rampante, la Cina del Futuro, e manda in esilio quella del passato. Ma non tutto va per il verso giusto: suo marito scappa (nel fuori campo della storia, quello che succede dal 1999 al 2014 non è dato sapere) e porta il figlio in Australia, un nuovo mondo (quello del 2025, l’ultima parte del film) che annulla il tempo cinese. Cosa rimane? Rimane la memoria emotiva a unire le persone, a questo serve il cinema! Jia Zhangke crea voragini temporali di dolore ma riaccende la luce sul tempo quando un alito di speranza s’insinua come un fantasma nell’inquadratura. Con la musica, per esempio, con quelle canzoni popolari che oltre la lingua, oltre l’oceano, oltre gli anni, segnano un contatto, creano il presente, riuniscono le persone nell’immaginario condiviso. “Credo di aver sentito da qualche parte questa canzone, da bambino…”.
Rimane la memoria allora, anche cinematografica. Proseguendo un altissimo discorso sui materiali d’archivio e sui formati dell’immagine concepiti come memoria mediale del dispositivo: vecchie riprese del 1999 in video dialogano con il digitale odierno, creando ponti tra le tracce di reale ospitate in quelle testimonianze e l'architettura finzionale di quest’ultimo film. Una dialettica intermediale che vive nei nostri occhi: perché quando il cinema proprio non riesce più a contenere quest’abisso sentimentale, assistiamo ad improvvisi frame (quasi da videoarte) che smagliano e smarginano l’inquadratura, la fanno pulsare, letteralmente, come le informi emozioni di una madre che pensa a un figlio lontano. Go West. Tutto in Mountains May Depart tende alla (nostra) vita e (non) prende forma nella contingenza del mo(vi)mento, in questo magnifico film(are) in divenire posto sempre tra sogni possibili e impossibili, voci di fantasmi e canzoni lunghe una vita, sentimenti spezzati e poi suturati in un singolo e assoluto atto d’amore. Il cinema, in tutto questo vivere, diventa solo un sublime dettaglio. Grazie Jia.