altApoteosi di donne incinte come alto feticcio filmico, sessuale; corpo femminile che si fonde senza inibizioni, in piena liberazione, all’estraneo (il padre è assente), a cui aggrapparsi nel caos o nella dimenticanza (di orizzonti). Una è quella di Banat di Adriano Valerio (nella Settimana della critica), Clara posta sotto la luce di una stamberga di Banat appunto, in Romania, mentre torce il ventre sopra Ivo (ma la scena più bella, tra le più gioiose viste finora, è quella in cui lei canta Se t’amo t’amo di Rossana Fratello: il resto è fragile, forse verboso, non so…); l’altra, Geise, nel film di Gabriel Mascaro (Orizzonti), che s’accoppia con Iremar su un tavolo di una fabbrica di vestiario, in una penombra che però svela la realtà tanto carnea, proprio atomica, dell’amplesso, quanto, ad esempio, è anodino e dimenticabile quello tra Nia e Silos in Equals (in concorso) di Drake Doremus.


Ma a prescindere da quella che è una delle scene di sesso più bella vista negli ultimi tempi al cinema, Boi Neon di Mascaro è un film di grande, ingenua vitalità, che è tutt’uno con l’innocenza dei personaggi e la materia scatologica, terragna e spermatica del film. Anche il fiotto potente di sperma di un cavallo masturbato, che finisce in faccia a Zé rientra nell’innocente gioia (in questo caso proprio comicità) che tiene unito questo gruppo (di padri mancanti e altri mancati, madri svogliate, freaks eiaculanti su pagine incollate) nella ruralità raminga della provincia brasiliana. Del resto Zé non fa tragedie e si pulisce lo sperma di stallone come se niente fosse, intrinsecamente consapevole delle inalienabili, essenziali sostanze del mondo, e, si direbbe, del cinema di cui è parte. La bambina Cacà invece ha poca esperienza in materia e piange quando finisce in una pozza di escrementi di vacca: allora il cinema è ancora azione di pulizia dal volto, senza però eliminare la merda, la fanghiglia, che resta sulle guance, il naso, la bocca.

È la sostanza amniotica (del mondo) dentro cui si muovono i personaggi e che li fonda in quanto soggetti segnati dall’oggettività ribollente delle cose (caos), che restano marchiati (ma non certo spaventati, anzi esaltati) da merda, sperma, fango. Fenomenale in questo senso una delle scene iniziali in cui Iremar affonda nei liquami di una discarica alla ricerca di monconi di manichini da usare per la sua passione di sarto. Eppure ci sono i profumi (depurativi), le mutandine discinte, accrocchi per stirare i capelli, a punteggiare il film e a re-indirizzarlo verso i propri costituenti: la plasticità animale e gioiosa dell’amplesso, così come quella spettacolare e a tratti terribile degli animali (i tori) atterrati, prima che arrivi la sostanza della luce tramontante a coprire ogni cosa, e Iremar che stuzzica le vacche. Alla fine resta la canzone dei titoli di coda, suggello già nostalgico al film più bello visto finora. D’altronde Boi Neon sfata anche la regola del film d’autore effuso nella ruvidità dell’immanenza attraverso l’assenza delle musiche: infatti la colonna sonora emerge a tratti, accordandosi per lo più ai campi medi e lunghi, scorci campestri di un’allegra saudade.

A proposito di questo le musiche di Italian Gangsters di Renato De Maria (in Orizzonti) partendo in ambiente elettronico e post-rock schizzano di bassi fino a diventare techno uhelante.