Montanha (nella Settimana Internazionale della Critica) di João Salaviza dimostra ulteriormente quanto il cinema portoghese, senza tante storie, riesca a essere espressivo, manipolando, anzi lasciandosi manipolare dalla luce, che assume uno spessore cubico; e dal suono impregnante di bisbigli, sibili, stridori lontani, la superficie porosa dell’immagine.
Qualcosa di simile ai film di Vítor Gonçalves, tutto teso nello spessore esistenziale delle penombre: condizioni di luce che dicono il silenzio e il freddo; uno spazio come dolore, dimenticanza, stanchezza. Monthana è appunto cinema di spazi, denotati da sfaccettature luminose: gli interni in costante, raggelante penombra, luogo dei primi baci degli adolescenti; gli esterni, prati, atri, binari, bagnati da luce limpida. Su tutto regna un silenzio di bisbigli, anche dalle finestre, come se i bambini ruzzanti fuori siano ormai stanchi; e la musica hard-techno che fa ballare David e Paulinha, unici momenti in cui i due sembrano davvero, seriamente in simbiosi con le cose, che per il resto formano una struttura esistenziale ostile o indifferente.
In concorso, Abluka di Emir Alper è citta dei cani, imperio kafkiano di sedizioni, di maschere grottesche o surreali, ora ghignanti, ora seriose o tenere: struttura prismatica che mostra superfici di senso, il loro inizio, senza proporre esiti che non siano l’ennesima sfaccettatura, il risvolto di una situazione che si crogiola ossessivamente nella propria ambiguità. Il contesto è quello tipico dei film di Ceylan, di Pirselimoglu: una Istambul periferica, squallida, ora percorsa da accalappiacani con fucile, terroristi imboscati, tutta una costellazione di personaggi sfuggenti nel loro prendere parte alle tante variazioni sull’assunto che non si chiude mai stagnando in una follia di senso, anzi di sensi.
Bellocchio (in concorso) fa un film libero, vitale, accorato come la musica liquida della colonna sonora: si immerge nell’acqua del tempo, raccontando una storia d’amore che si permuta tra le epoche e gli spazi di Bobbio; che non è solo storia d’amore tra suore, preti e zitelle in preda ad amore folle, ma anche, appunto, amore per la propria terra, quel “sangue del mio sangue”, rifluito nella bellezza femminile, che fulmina alla fine il conte Basta e Il cardinale Federico. In mezzo al Sangue del mio sangue c’è un bestiario di pazzi, simulatori, pseudomassoni che si dimenano presi nella loro comica disperazione di essere al mondo e che traspare poi nell’umbratile elegia del finale, tornata finalmente a L'ora di religione.
Commovente Heart of Dog (in concorso) di Laurie Anderson: film confessionale, contiguo alla poesia confessionale americana (per lo più femminile: penso ad Anne Sexton), perciò fuori dalla comune narrazione: la voce fuori campo confessa, svela la sostanza (frammentaria e spesso ritornante) delle immagini e delle musiche (della stessa Anderson) in una vera e propria sinfonia visiva, o anzi si direbbe un pop-free folk sofisticato visivo, fino al canto finale di Lou Reed.
La gente si sta disperdendo, portata via dal vento che gonfia come mongolfiere le gonne, gli ombrelli, le giacche di lino (le sciarpe sono turchesi, per lo più): e cerca di aggrapparsi alle transenne, agli alberi; ma quando è in aria ride inebetita, ebbra di spazio vuoto intorno da percorrere in bicicletta: lì il ruminare di Matteo pedala i maestrali in un liquore che sa di treno in una mattina di autunno e di perdita, come ogni volta. E’ appena terminato Desde Allà di Lorenzo Vigas in Sala Perla, che sembra avere portato la desolazione definitiva al Lido con la sua asciutta, larrainiana storia d’amore che s’annichilisce come cadavere nelle strade di Caracas: e allora ci si stringe nelle giacche e si torna a casa con una tristezza più scura del mare bavoso all’orizzonte, senza neppure la forza di mangiarsi un tramezzino carciofini e porchetta al Chiringuito, che se ne sta metallico e muto sotto gli epifonemi, un sordo uhelare alla luna, e le biciclette nuvolari.