Due anime s'incontrano nella notte: Ivo è in partenza per la Romania, un posto da agronomo che lo attende; Clara si è appena trasferita, in una settimana ha perso lavoro, fidanzato e cagnolina della sua padrona di casa.
Banat è fin dal principio un inno al movimento, e dunque al viaggio vissuto come tormento, incapacità alla staticità. Nella spasmodica ricerca del loro posto i corpi dei protagonisti si muovono ondivaghi per le strade di una Bari desolante. Come fantasmi superstiti si aggirano stanchi tra una paninoteca e una rampa di scale fatiscente; i loro due volti si disperdono in un silenzio di spazi, contesi tra una panoramica lenta sul porto e una sulla piazza alle prime luce dell'alba, popolata solo da infinite bottiglie di birra, residui di presunta umanità.
Adriano Valerio si aggira tra i sobborghi della città pugliese e tra le campagne di Banat, regione rurale della Romania. Prosegue il suo discorso sulla solitudine avviato dal corto 37°4 S (menzione speciale al 66° Festival di Cannes) ritratto di una cittadina, Tristan da Cunha che ospita da due secoli una piccola comunità considerata come la più isolata al mondo, e di due adolescenti del posto. Al di sopra della critica sociale (la fuga dei giovani dall'Italia della crisi) i suoi campi lunghi e statici, le sue panoramiche lente, più che maniera riflettono un rigore quasi adorativo nei confronti del paesaggio, dello spazio inteso come limbo. La sensazione più ricorrente è lo straniamento, come se il tempo viaggiasse in tondo, sospeso in un attimo che dura l'eternità.
Ivo parte ma perde presto il lavoro, Clara lo raggiunge ma rivuole il mare. Il loro è un falso movimento: nel viaggio ricercano la staticità (stabilità), è come se ruotando su se stessi osservassero un panorama sbiadito dal moto ma in fondo sempre familiare, come spettri obbligati a infestare per sempre lo stesso posto. E non è un caso che l'ultima scena si chiuda sulla deserta ma bellissima spiaggia rumena, con il moto sempre uguale eppure diverso delle onde in sottofondo.