altIl selfie soddisfa due esigenze attuali: da una parte, si presenta come tentativo di risposta alla domanda «chissà come mi vedono gli altri?», domanda da cui traspare una certa insicurezza del soggetto e del suo sguardo, travolti entrambi da un flusso di immagini dal quale cercano di emergere per affermare il proprio esserci; e quindi, in seconda istanza, il selfie ci dà l’illusione che ogni istante della nostra esistenza sia degno di essere vissuto e immortalato, sortendo però l’effetto contrario: se ciascun momento è importante nella stessa maniera in cui lo è il successivo o il precedente, allora non lo è davvero nessuno. Il selfie si pone allora sia come ipotetica soggettiva di un fantasmatico altro che ci osserva (e forse ci giudica), sia come contributo involontario alla proliferazione dell’indistinto immaginale dal quale tentiamo di sottrarci.

La moltiplicazione delle immagini coincide con quella degli occhi, delle telecamere che ci osservano ma che (forse) non ci giudicano, apparentemente limitandosi a registrare noncuranti il marasma che accade dinanzi a loro. Ma se da questo flusso dovesse emergere un istante che valga la pena di essere vissuto, ci sarebbe qualcuno a coglierlo? Probabilmente questo istante, per essere visto, avrebbe bisogno di un’imperfezione nella perfetta omogeneità, un pixel rotto nella sfavillante policromia degli schermi, anch’essi innumerevoli, che riproducono ciò che gli occhi elettronici vedono. E Skolimovski, nel suo 11 minut, sceglie come istante degno di essere immortalato quello mortale per eccellenza, l’unico attimo che tutti potremmo potenzialmente riprendere (magari facendo ciascuno del suo smartphone un’arma da puntare contro se stessi) ma che nessuno potrebbe rivedere, quello della propria morte.

Vediamo i flussi di diverse esistenze quasi banali alternarsi tra loro senza mai incontrarsi, per poi darsi, senza volerlo, un comune appuntamento con la morte, un appuntamento catastrofico, collisione di immagini che cozzano tra loro e si infrangono in migliaia di pixel, in un nuovo big bang che coincide con la nebulosa iniziale dalla quale hanno tentato di emergere e dalla quale verranno fuori altre catastrofi, e altri inizi, mimando la circolarità in cui ritorneranno eternamente.
A chi rimane, in attesa della propria personale catastrofe, resta uno sguardo dimidiato. Con un occhio ci si può sforzare di compulsare ogni immagine, di analizzarla e di sezionarla infinitamente, e accorgersi di trovare immagini dentro altre immagini, storie che si nascondono dietro o affianco ad altre storie, fino a perdersi nei punti, nei pixel e nei codici binari dell’immagine elettronica; con l’altro, sanguinante per aver visto troppo, lacerato dalla visione, aggrapparsi a un ricordo, magari della persona amata, all’ultimo istante in cui ci si è dati la morte con un addio.