Punto primo. La prima coincidenza de Il traditore ci riporta sui sentieri battuti del rapporto di lunga durata tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, che si spinge persino oltre la prematura scomparsa di quest’ultimo. Tra i due c’è sempre stata e continua ad esserci una segreta, sottile, sotterranea concomitanza che va ben al di là della conclamata e creata ad arte competizione o conflittualità. Una segreta corrispondenza piuttosto continua a legarli.

E la prova tangibile è Il traditore di Bellocchio, che sin dal titolo riprende quello del racconto di Jorge Luis Borges, Tema del traditore e dell’eroe, da cui Bertolucci aveva tratto Strategia del ragno. La seconda corrispondenza sottotraccia riguarda invece la figura specifica del “traditore” mafioso. Ovvero del “pentito”. Non dimentichiamo che sul primo pentito di Cosa Nostra, Leonardo Vitale, quindi alla sua intrinseca “follia” e allo spazio manicomiale che lo riguardò, Stefano Incerti si era dedicato nel suo film più dichiaratamente “bellocchiano”: L’uomo di vetro. L’aggettivo “bellocchiano” assume in questo caso una valenza diretta, concreta. Perché L’uomo di vetro è del 2007. Negli anni precedenti Incerti condivide con Bellocchio il direttore della fotografia Pasquale Mari. Mari cura la fotografia di tutti i film di Incerti fino a Gorbaciof, quindi di Bellocchio tra il 2002 e il 2006 L’ora di religione, Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni, oltretutto ambientato in Sicilia in un contesto manzoniano-mafioso di rara connotazione bellocchiana. Chiaramente è il direttore della fotografia anche del documentario su Bellocchio e Buongiorno, notte che Incerti dirige nel 2003. Il cerchio si chiude. Un “traditore” - che tale non è o lo è in un’accezione diversa, sconcertante, rivelatrice - tira l’altro, e poi un altro. E un altro ancora.  

Punto secondo. Sulla marcata componente scenica poi de Il traditore occorre intendersi. Non basta enunciarla. Questo perché non resti un elemento quasi esteriore, riconoscibile come puramente suggestivo nel meccanismo della rappresentazione. In realtà, come cercheremo di (far) capire, sulla scorta delle indicazioni contenute anche nel film stesso, quindi della messa in campo della premessa (in scena) teatrale ostentata, l’approccio ad un nucleo fortemente narrativo di Marco Bellocchio nasce da una convinzione di fondo: l’impossibilità di ridire cose già viste e sentite, spesso dentro impianti collaudati e lontani dalle corde bellocchiane, di un cinema civile dichiarato e politicamente esplicito. L’eccesso della recita, “recita della storia” per definizione, è inversamente proporzionale al difetto conoscitivo di fondo, come la ferma volontà di ricordare lo è alla predisposizione a dimenticare, confondere, semplificare nel corso del tempo e della sovraesposizione divulgativa dei fatti. La recita, saldata all’atto memoriale, inseparabile da un consapevole bisogno di accomiatarsi dal passato, suggerisce quindi l’apoteosi spettacolare per eccellenza, la sua infinita reiterazione, replica dopo replica, a futura memoria per scongiurarne l’oblio. Donde la necessità di siglare un “addio” multiplo, cangiante, transitivo: l’inevitabile “Addio del passato” a Cosa Nostra, nella prospettiva fallace della “invenzione della tradizione”, categoria cara agli storici, perfettamente consona alla costruzione del paradigma leggendario mafioso,  e perciò accarezzata in maniera compulsiva da Buscetta,  si collega quindi ad un altro “Addio del passato”, ovvero ad altre “Cose”, in accezione freudiana e lacaniana, certamente più in linea con le pratiche memoriali di Bellocchio. Questo “Addio del passato” congiunto non può quindi che consumarsi nell’unica chiave concepibile, quella della Traviata verdiana, già evocata nel documentario Addio del passato.

Il senso del teatro inteso come forma estrema e dichiarata della finzione costituisce l’elemento determinante di un film come Il traditore, come del resto di Buongiorno, notte, accomunati l’uno e l’altro dalla circostanza di presentarsi ed essere allestiti parabole di una differente/reiterata segregazione di fatto. Colpisce nei due casi concomitanti l’elemento della prigionia, dell’interrogatorio, del tradimento dei due personaggi chiave che, pur separati a monte dalla linea di demarcazione che rende incompatibile lo Stato (Moro) da Cosa Nostra (Buscetta), a valle, per una terribile serie di eventi, contraddizioni, commistioni oscure, si ritrovano ad essere, ciascuno sulla sua sponda, coerenti testimoni in altrettanti processi della verità ambigua, sommersa, infida. La carcerazione e la massima sorveglianza cui vengono sottoposti i protagonisti dei rispettivi film, ad opera di apparati interni ed esterni riconoscibili, (come ne Il traditore) o non meglio identificati (di cui ad esempio si intuisce persino in Buongiorno, notte, di scorcio e in chiave visionaria, la matrice istituzionale), è il tratto che rende indispensabile una definitiva scelta di scena e di campo giocata sull’esasperazione dei toni. Scelta che ne Il traditore diventa prepotente e assoluta, eccedendo addirittura la misura colma dello stesso Buongiorno, notte. E questo dopo l’esperienza scenica diretta e indiretta di Bellocchio, che ha ormai istituito un perfetto di sistema di coincidenze significative e vasi comunicanti tra schermo e palcoscenico, quindi sulla scorta de Il trovatore, Addio del passato, Rigoletto a Mantova, Pagliacci, Andrea Chenier. Il traditore è strutturato come se davanti e non più necessariamente dietro le quinte fossero stati predisposti il testo e la musica, il libretto, l’orchestrazione e le arie da opera lirica o da teatro elisabettiano, senza soluzioni di continuità tra tardo Rinascimento, Ottocento e presente inoltrato. Il traditore diventa così una specie di controcampo esterno di Buongiorno, notte, che forse – ma è soltanto un’ipotesi, diciamo pure un’illazione – il progetto in fieri di Esterno notte, che del caso Moro dovrebbe portare alla luce elementi legati appunto a circostanze o digressioni esterne rispetto alla singolare/plurale “prigione nella prigione” in cui si è consumata come da copione l’azione principale della prima libera(toria) interpretazione di Bellocchio degli eventi.

 Punto terzo. In estrema sintesi, Il traditore contiene e recepisce molte “Cose”, di Bellocchio, italiane, cioè “nostre” e diversamente “Nostre” in accezione criminale. C’è, a teatro, l’idea centrale della versione di Bellocchio di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo: le telecamere a circuito chiuso per il controllo audiovisivo dei detenuti/pagliacci, quindi le pagliacciate tragicomiche italiane, sintomo di un’Italia bellocchiana prima ancora di diventare l’Italia secondo Bellocchio. E c’è in tema di sicilianità e vendetta l’opera complementare o inseparabile di Pagliacci, Cavalleria rusticana di Pietro Mascani. L’onore, il delitto d’onore, la famiglia. Tutto torna. E torna ne Il traditore il Macbeth, quello di Shakespeare, quindi il “preludio” verdiano. Che è poi il Macbeth di Bellocchio in La Cina è vicina, Sorelle e Sorelle Mai. Nel Macbeth agiscono con effetto retroattivo, quindi a maggior (s)ragione attivo altre vendette che forniscono il modello di quelle mafiose, che colpiscono i nemici e i traditori negli affetti più cari, nel parentado. Ma Verdi, il Verdi de Il trovatore stabilisce un’assonanza con il titolo stesso Il traditore, riscontrabile come la “cifra nel tappeto” in una porzione riposta di un’inquadratura del film. Vedere per credere. Del resto, il film, questo film viene concepito come opera lirica in atti, scene madri, recitar cantando, in tutti i sensi, puntellato di arie. C’è infine la grafica, i numeri della “seconda guerra di mafia”, macabra sintesi di “un paese senza verità”, per dirla con Sciascia, ma fitto di morti. Dunque l’ombra o lo spettro di Aldo Moro nelle attività non meglio precisate di Pippo Calò a Roma, il legame indicato tra le righe che porta al delitto di Carlo Alberto Dalla Chiesa, quindi Giulio Andreotti in mutande.

E il “prigioniero” Moro o “traditore” che dir si voglia poiché parla, cioè “canta”. Aldo Moro alle Brigate Rosse in Buongiorno, notte, Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone ne Il traditore. Che dire inoltre dell’ampia aula bunker del Maxiprocesso di Palermo anch’esso presentato come spazio manicomiale e teatrale a un tempo, simile alla “prigione nella prigione” di Buongiorno, notte? In questo melodramma corale popolato di personaggi/pupazzi/pagliacci da operetta e opera lirica ecco che l’ultima soglia della possibilità di rappresentare l’Italia altrettanto da opera e operetta, con melodramma e melodia, serio e faceto, inseparabili, è il nero. Il noir. Il nero giudiziario. Non sfugga infatti, nella trama di coincidenze significative la concomitanza delle iniziali: Tommaso, ovvero Masino Buscetta come Marco Bellocchio. Né sfugga il rapporto paterno con di Buscetta con l’agente della scorta interpretato da Pier Giorgio Bellocchio. Il gesto di “tradire” insomma equivale a dire la verità, liberarsi, in un film altrimenti liberatorio. Si tratta di liberarsi dalle ideologie mafiose, liberarsi dalle ideologie storiche, le religioni della storia, il cattolicesimo, il comunismo, la psicanalisi freudiana, cara ai marxisti. Liberarsi di tutto e tutti, come estremo “addio del passato”: ai maoisti, all’anti-psichiatria, all’analisi collettiva, alla religione laica dello Stato e delle istituzioni. Mentre nel processo ad Andreotti, che si trasforma in processo al “traditore” Buscetta assistiamo alla prefigurazione dell’avvocato Coppi, legale di Andreotti, ad un atto di accusa nei confronti di Buscetta. E che allude all’attuale linea politica, odierna, populista, istituzionale che coincide con il fare i conti in tasca. Allora a Buscetta. Oggi alla “casta”, invero agli avversari politici come argomentazione giudiziaria, culturale, ideologica. 

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