Un’idea del cinema. Un’idea che ne rivela il suo strano e affascinante destino: poter essere la forma che più di ogni altra lavora la materialità del mondo, e poterlo fare attraverso la quasi totale immaterialità delle sue immagini, digitale o analogica che sia. Questa stranezza è, lo si sa bene, la potenza stessa della settima arte, che spazza via ogni prevalenza del narrativo rispetto alla potenza del mondo, che fa piazza pulita di ogni simbolismo davanti alla flagranza del reale che si dispiega di fronte alla macchina da presa. Ambivalenza costruttiva, feconda. I corpi, il mondo sono lì davanti ai miei occhi, eppure essi al tempo stesso non sono più.

Niente di nuovo, certo. Ma ancora una volta occorre tornare ai fondamenti del cinema. Il cinema che è anzitutto presenza della materia e dunque, attraverso questa presenza, esso può dispiegare i segni interiori del mondo, la coscienza, l’emozione, il desiderio, il pensiero, le loro dinamiche più profonde. Ecco dunque l’idea che attraversa le immagini di decine e decine di autori lungo tutta la storia del cinema, autori diversi, forme diverse. È una idea vertoviana in origine perché è stato proprio il regista sovietico quello che per primo e con più forza ha sottolineato che la potenza del cinema sta nel rivelare la materialità del mondo. Ma se in Vertov tale dimensione è fatta di connessioni e salti, di un montaggio che va al di là di ogni percezione umana, nel cinema di Reygadas la materia è la porta d’accesso alla coscienza, all’interiorità più nascosta, dello spettatore come dei personaggi. Più scorrono le immagini di Nuestro tiempo di Carlos Reygadas, più la consapevolezza che le immagini del regista messicano si collocano lungo questo solco, affermano questa idea potente di cinema si fa strada chiaramente in chi assiste al film. Le sue immagini sembrano infatti riprendere tutto il cinema del regista messicano, per mostrarne l’idea che ne sostiene il percorso.

Film materico e teorico al tempo stesso, Nuestro tiempo è anzitutto un film sulla percezione dei corpi: sin dalla meravigliosa sequenza iniziale in cui la macchina da presa segue, intercetta, accompagna i giochi di alcuni bambini sulla riva di un fiume; giochi allegri e violenti al tempo stesso, fatti di pause e improvvise accelerazioni, in cui lo sguardo si muove ora su un personaggio ora sull’altro. Lunghe inquadrature che appunto svelano un movimento, una dinamica del desiderio, del gioco, nel suo aspetto più immediato e pulsionale. Lo stesso movimento caratterizza il mondo degli adulti, Juan e Ester, la coppia che determina la dinamica di tutto il film, il cui movimento stabilisce le posizioni di potere e di impotenza all’interno della coppia stessa. Tutto nel film – il desiderio, la gelosia, il sospetto, la noia, il disprezzo, la fantasia – è determinato dai movimenti, dai gesti, la cui radicalità costituisce la tensione costante del film. La morte della mula, momento di flagranza assoluta del reale, di emersione della morte come tabu filmabile (ma puramente finzionale), che ha bisogno di uno sguardo per poter esistere, anzi di un doppio sguardo, quello del mandriano che assiste all’uccisione dell’animale da parte del toro infuriato e quello dell’altro mandriano, Budda, per il quale l’immagine è insostenibile, per il quale l’unica possibilità è la fuga disperata da quella scena. Le parole sono spesso impotenti, ingannatrici, devianti, interrotte nel film; la dimensione del linguaggio passa in secondo piano, rispetto alla dimensione del “sentire” e del movimento.

È dunque un cinema profondamente bergsoniano quello di Reygadas: come nel pensiero del filosofo francese infatti, l’immagine cinematografica diventa possibilità di consapevolezza di sé e del mondo, diventa coscienza attraverso un gioco di tensioni, di emozioni violente, di sensazioni affettive, in ultima istanza, di movimenti che permettono di “sentire” il mondo del film. Ecco che allora il presupposto vertoviano incontra altre forme di cinema, fondate appunto sul movimento che permette allo sguardo di “sentire” la materia. È qualcosa che appartiene anche al cinema di Herzog, di Albert Serra, di Lucrecia Martel, Lisandro Alonso, ideali compagni di strada di Reygadas. È la fatica dei corpi rosselliniani che non smettono di cadere a terra; è l’inquadratura fissa del cavallo ne Il cavallo di Torino di Bela Tarr; sono le mura scrostate e sporche degli appartamenti di Pedro Costa, sono la terra, l’acqua, il fango nei film di Tarkovskij. È qualcosa che lega la fatica fisica della montagna in Japón al sudore dei corpi in Batalla del cielo; è il cibo frugale nella tavola di Stellet Licht o gli animali che circondano la bambina nella sequenza iniziale di Post Tenebras Lux. Profondamente bergsoniano il cinema di Reygadas lo è proprio perché questi elementi fisici, tangibili, corporei e spaziali permettono ai personaggi di ritagliare una propria prospettiva di esistenza, un proprio sguardo, una propria coscienza di esistere.

Movimenti che non possono essere identici, ma appunto percepiti in modo diverso dai diversi personaggi. Juan, proprietario terriero e poeta, è condannato ad un movimento sterile, fatto di attesa o di circuiti che ritornano sempre al punto di partenza. Il momento in cui la consapevolezza di ciò che sta succedendo al suo rapporto si fa strada in lui è consegnato ad un lungo piano sequenza in cui la macchina da presa, immobile, ci consegna il suo sostare inquieto di fronte alla porta della sua casa, senza entrare né uscire, senza cioè poter decidere, compiere una versa scelta. Il movimento di Juan è la parola, poetica o accusatoria, violenta o sublime.

Ester, al contrario, è il corpo che si muove sempre lungo vie di fuga, spesso in auto, nei suoi viaggi verso altri amanti. Il suo movimento è di puro desiderio? Nella sequenza apparentemente più vertoviana del film, il suo muoversi sembra fondersi con il pulsare del motore della sua auto, il suo corpo sembra essere appunto macchina, meccanismo, ma il suo pulsare è tutto tranne che meccanico, automatico. Infatti è suo lo sguardo che segue, incantato, il crescendo del concerto per orchestra e percussioni cui assiste da sola in uno dei suoi viaggi fuori dalla hacienda. Così come è sua la musica sublime e disperata dei Genesis che ne accompagna le mosse. Ogni personaggio dunque crea un proprio movimento in rapporto allo spazio e all’ambiente, costruendo così la propria coscienza di sé e del mondo, ritagliando una prospettiva, uno sguardo, un pensiero. Per questo dunque, bergsonianamente, il film non smette di fluire in un incessante intercambio di movimenti diversi, di falsi movimenti o di punti di fuga, di esplosioni dei corpi o degli sguardi, di fiumi di parole o di silenzi. La narrazione non è dunque bandita, anzi. Essa diventa la struttura mediante la quale i movimenti dei personaggi sono possibili. È un film profondamente teorico dunque Nuestro tiempo, che riprende e rilancia le immagini (i movimenti, le parole, i silenzi, gli atti sessuali, le morti) dei film precedenti del regista messicano, che questa volta si filma, filma appunto sé e la sua famiglia, si mette in gioco appunto come dichiarazione di una poetica o, meglio di una idea potente di cinema.

 

 

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