La  prospettiva di riflessione che riguarda le modalità con cui il film “adesca” il tempo, cioè il modo con cui lo mette in rappresentazione per contenerlo entro i limiti della propria durata di proiezione, ci offre una prima opzione di lettura su quel multi testo stratificato e organizzato per irruenti accumuli visivi che è Non C’è Nessuna Dark Side, opera prima di Erik Negro, presentata nella sezione Satellite dell’ultima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.


«Quattrocentosettanta ore e rotte di girato», parola di Erik Negro, «da far stare in un film di 2, al massimo 3 ore». È chiaro da subito che la dialettica tra tempo reale e le possibilità della sua rappresentazione filmica sia inscritta nel codice genetico di questo film sin dalla sua enucleazione progettuale.
Un’azione produttiva che intenzionalmente abiura la pratica istituzionalizzata e meccanica che si concreta nella catena set-ripresa-montaggio-visione e in cui, anzi, il valore d’opera si addensa anzitutto proprio nella processualità di realizzazione, consistente in una diuturna (e spesso notturna) cinematografizzazione della vita protratta per 12 anni, senza infingimenti o artifici di tipo drammaturgico, in cui  lo scarto tra il vivere quotidiano dei protagonisti e la sua edizione “sacrata” dalla messa in forma filmica tende al grado zero. Una documentazione dell’esistente di valore antropologico che potrebbe ricordare documentaristi blasonati del calibro di Wiseman.

Un'operazione eticamente necessaria ad Erik Negro : «Per un’ammissione di fallibilità, quella della memoria biologica, che ci espone a un continuo rischio di perdita» in cui l’azione involontaria del ricordare e quella volontaria del registrare immagini e dell’archiviarle in supporti digitali hanno pari importanza fondativa. Il percorso attraverso il tempo, infatti, avviene in una memoria ormai ibrida, di biologico (la memoria di Erik Negro) e digitale (la ben più estesa memoria dei numerosi hard-disk in cui stipa i milioni di Terabite di immagini che maniacalmente archivia) e la ricerca dei ricordi viene a coincidere sul piano pratico alla ricerca dei file all’interno dell’archivio. Per innescare il processo, il semplice ricordo, nella sua forma naturale e biologica, non basta; occorre, come poi di fatto accade ogni volta, che Erik ceda alla compulsione quasi patologica ad accendere la telecamera (o la cinepresa, o il cellulare) nelle occasioni apparentemente banali, come in quelle dense di significati, «Per paura dell’oblio, per paura di perdere un particolare, una persona, un istante, o una singola immagine che avrei voluto ricordare». C'è una sensibilità cyber punk al fondo di questa ammissione di superiorità della memoria artificiale su quella biologica, quest'idea che la memoria artificiale possa trattenere anche quei particolari che le cellule celebrari smarrirebbero tra le pieghe del tempo, una suggestione che, dato il background cinematografico di Erik, balugina di riflessi tsukamotiani e cronenberghiani.

«Le mie sole azioni da “regista” sono state riprendere, più nel senso del reggere la telecamera, e montare, perché l’idea di base è quella, sì, di rappresentare l’impressione del fenomeno, l’impressione soggettiva che ho avuto di certi momenti o persone, ma sempre riprendendo il fenomeno nella maniera più oggettiva possibile.»
Come materia di partenza Erik assume quindi l’aporia tra il fatto reale, il suo ricordo fissato nella nostra memoria, cioè «l’impressione del fenomeno» , che secondo lui «è già un primo livello di distopia rispetto al fatto reale» e le  modalità digitali della fissazione di questo ricordo in immagini archiviabili su un supporto di memoria esterno, «l’immagine  del fenomeno, immagine digitale, per giunta, che è un livello ulteriore di falsificazione del fatto originario, il “filtro” che distorce la memoria che ne avrei altrimenti. Se non le avessi filmate, infatti, non mi mi sarei potuto ricordare di tante cose, e comunque le ricorderei in maniera completamente diversa, perché il ricordo che ne conservo è mediato, anzi, coincide, addirittura, con le riprese che ne ho fatto, quindi ho solo ricordi “falsificati” perché non aderenti al vero dei fatti quanto alla codifica visiva che ne ho fatto nel momento delle riprese». Una ricostruzione del tempo soggettiva per definizione, perché ri-strutturata dal ricordo personale di Negro e anche una ricostruzione "impura", poiché i “mattoni” con cui la si edifica e il cemento interstiziale che li tiene insieme, non sono i ricordi di Erik “in presa diretta”, quelli suoi biologici, ma le loro fissazioni filmiche digitalizzate.


Attraverso questa continua fissazione biologica e digitale di immagini che valgono come ricordi di ciò che è avvenuto come di ciò che sta avvenendo il tempo diventa l’oggetto di rappresentazione principale, ciò che Negro in ultima analisi tenta di filmare nel suo dinamico fluire, catturandone in immagine alcuni fugaci istanti. Allo stesso tempo, col suo trascorrere, questo tempo fornisce al film la macrostruttura ordinativa generale, l’oggettivo ordine cronologico di successione degli eventi, che il ricordo biologico-filmografico di Erik Negro è sempre pronto a ricostruire, ri-strutturare e “falsificare”. È per via di questo ruolo privilegiato dell’elemento tempo all’interno del film, che le modalità del reciproco “agganciamento” acquistano rilevanza stilistica e strutturante primaria. Il materiale è organizzato in tre parti. La prima racconta con piglio documentaristico (ma regalando talvolta inserti più deformativi dal vago sentore lisergico) l’accadere già trascorso, quello che inizia 12 anni fa e segue da vicino “le persone” di Erik e dei suoi amici nei loro percorsi di formazione alla vita,  mentre l'ultima, simile a questa per tenore stilistico, ma orientata verso l’autoanalisi introspettiva, ocularizza l’accadere attuale della esistenza di Negro, il difficoltoso farsi del film, e i suoi mille dubbi di etica e poetica. Tra queste si interpone una parte centrale, decisamente più visionaria e antinaturalista nella veste iconica, che porta alla luce una “geografia emozionale”, una mappatura a cronologica e tutta visivo-emotiva di luoghi, momenti, e istanti.

Ad alternarsi sono anche due differenti modalità di incorporazione audiovisiva della materia cronologica, due modi diversi con cui Erik comprime e contiene il tempo rappresentato all’interno del film (e quindi all’interno del tempo materiale della sua durata). Nella prima e terza parte, in cui l’intento principale è quello di documentare, per quanto in modo rapsodico, di ricostruire ciò che già è accaduto e ciò che sta accadendo, l’organizzazione visiva del tempo risponde alle modalità lineari del montaggio, per come si sono storicamente codificate. Il cinema è storia nota, andò evolvendo nella direzione di un montaggio che, per non disturbare la Croyance nella narrazione, doveva diventare “invisibile”, fosse sempre meno percepibile dallo spettatore come artificio tecnico-linguistico, sino a sparire, regalandogli la perfetta illusione di realtà.
Ovviamente affinché questa illusione fosse credibile anche il fatto che il tempo della vicenda fosse un tempo rappresentato, simulato e artificiale doveva sparire, dissimularsi in una rappresentazione cronologica che per lo spettatore non differisse per velocità di scorrimento, continuità e direzione, da quella reale. Ma il montaggio è pratica che per natura include la dimensione della linearità, il fatto cioè che si realizzi collocando una accanto all’altra (e non una sopra o sotto l’altra) le varie inquadrature di cui si compone la sequenza, come se si trovassero disposte su una ideale linea orizzontale. Il cinema ha quindi ha imparato a rappresentare il tempo in modalità lineare-orizzontale, una sequenza dopo l’altra, un’istante dopo l’altro, imparando contestualmente a simulare le relazioni di anteriorità\posteriorità e la simultaneità attraverso appositi accorgimenti stilistici (dissolvenze, ellissi, montaggio alternato, ecc.) e imprimendo a questo tempo simulato una continuità e una velocità di scorrimento identiche a quello reale.

Caratteristiche storiche, queste, che vengono meno nella porzione centrale del film in cui il tempo, manipolabile grazie al digitale, scorre a velocità supersonica, accelerato e compresso, e diventa multilineare, o «spiraliforme», come Erik lo definisce, il tempo circolare dei suoi ritorni sugli stessi luoghi a distanza di anni, un tempo che si presenta visivamente organizzato nella verticalità del fotogramma, disposto su strati di immagine moltiplicati e sovrapposti «Un tempo compresso nella direzione dell'orizzontalità, perché accelerato, compresso nella durata effettiva, ma espanso nella verticalità perché “spalmato” su strati diversi che sondano la dimensione della profondità dell'immagine». È dunque secondo la predisposizione al montaggio orizzontale del tempo che un Erik, fresco di diploma, nella prima parte del film, dispone sullo schermo le mille peregrinazioni etiliche sue e del consesso di suoi pari, le strazianti interrogazioni sul senso della vita che segnano quella stagione giovane dell’uomo e il desiderio impellente dell’emancipazione dalle angustie intellettive della provincia, le serate con la birra e le chitarre discettando di filosofia, l’amore per il cinema e la musica. Un procedere per balzi irregolari lungo l’asse del tempo, un montaggio “a stacchi”, che si sofferma su istanti apparentemente casuali, visto che la scelta è quella di non mettere in scena gli eventi secondando un criterio di oggettiva “rilevanza storica” (la laurea, il primo bacio, un amore, un qualche trionfo o tragedia di quelli che cambiano il corso della vita), ma di selezionarli in base a un criterio del tutto soggettivo, di economia emotiva personale, coincidente con il suo tentativo voyeuristico di salvare dall'oblio istanti e frammenti registrandone l'immagine, cioè fissandone il ricordo in forma esternalizzata e tecnologica.

La rimembranza leopardiana, in un'era di riproducibilità tecnica più customer friendly che mai, elude la forma diretta (e “naturale”) del viaggio a ritroso nei ricordi biologici per concretizzarsi nell'attività pragmatica e tecnologicamente mediata della ricerca delle immagini all'interno di archivi digitali di files, in cui sono le indicizzazioni delle varie cartelle e sottocartelle, i loro titoli di riferimento e le loro date, a guidare i nostri percorsi mnemonici e la ricerca di  questi “ricordi”. Poi che di processo biologico o digitale si tratti a noi poco importa, per quel che ci riguarda interessa solamente dire che è questa la prima modalità di “agganciamento” del tempo da parte del film, il montaggio lineare, che storicamente e a partire da film germinali come The Lonely Villa di Griffith è andato affinando la capacità di mantenere la “continuità temporale” pur elicitando l'ocularizzazione diretta di intere porzioni di tempo diegetico. Si comprime il tempo di sviluppo della storia all’interno di quello di durata materiale del film semplicemente omettendo di mostrarne alcune parti che il testo permetterà di ricostruire mentalmente attraverso appositi accorgimenti stilistici (dissolvenza, ellissi, micro ellissi, ecc.).
Le parti di storia non ocularizzate non incidono sulla durata materiale del film, essendone omesse, ma esistono, e hanno una durata immaginata, nella percezione dello spettatore, che le ricostruisce e le salda alle “fette” di tempo che invece vengono visualizzate nelle scene in una rappresentazione del tempo coerente e unitaria.
Negro per personale predisposizione, frequenta con reticenza e in maniera sporadica le grammatiche ufficiali, preoccupandosi poco assai di creare una fluida continuità cronologica tra le scene e scegliendo piuttosto di spostarsi per salti e strappi che nel loro succedersi restituiscano comunque un'idea del trascorrere del tempo.

Un tempo che riconosciamo come lineare, continuo e progressivo nel suo procedere al di là delle modalità discontinue e frammentate della sua rappresentazione, e che scorre alla velocità “normale” del tempo di realtà nella prima, come nella terza parte del film, in cui però, lasciato da parte il racconto di formazione su questo manipolo di intellettuali valligiani, imberbi e in cerca di emancipazione, Negro volge l'occhio meccanico del dispositivo verso di sé e il proprio mondo interiore. Dalla ricostruzione storica emotivamente orientata di un vissuto il film va assumendo i connotati di una diaristica intima, che, data la natura “non innocente” sotto il profilo critico e cinefilico di Erik, tutta si spende miracolosamente in bilico tra la notazione affettivo-emotiva personale e l'acuta riflessione metalinguistica, celebrazione feticistica del linguaggio filmico e della sua unità fondativa, l'immagine, assurta ad oggetto libidico puro. Schermi che moltiplicano questa l'immagine, proiezioni analogiche e immagini digitali, videate delle interfaccia dei programmi di montaggio, fotogrammi di pellicola (una pellicola che vediamo anche fisicamente toccata da Erik, feticisticamente manipolata guardandone i fotogrammi in controluce, emulando il gesto iconico di Godard in una delle sue foto più famose), videofonini e smartphones con le loro immagii artificiali, ogni forma possibile di riproduzione dell'immagine è mostrata come oggetto-feticcio in una dichiarazione d'amore di quelle che è impossibile sottacere. Erik al montaggio tra notturnità insonni, birrette di conforto, banchi di nebbia di sigaretta e posaceneri stracolmi di pensieri, Erik dilaniato dal dubbio etico del “cosa montare”, che comporta sempre l'interrogazione dolorosa sul cosa escludere di sé e della propria vita dal film, sapendo così di condannarlo all'oblio.

In questo limbo etilico e cinefilo il tempo, pur sempre lineare e continuo nel suo scorrere a velocità normale, allenta i legami cronologici stringenti col reale e diviene tempo emozionale puro, il tempo per come la psiche di Negro, il suo reagire emotivo, lo ha processato, fissato, dilatato o ristretto. Ma anche in questa porzione di film, per quanto la dominante sia tutta soggettiva e interiorizzata la relazione immagine schermica-linea temporale resta ancorata alla proporzione dell' 1:1 storicamente codificata, secondo cui una immagine “contiene” una singola linea di tempo, quella su cui si collocano gli eventi o gli oggetti di ripresa. Questa specifica, solo apparentemente lapalissiana, si rende necessaria nella misura in cui nella sezione centrale del film, la seconda, tale proporzione viene programmaticamente disattesa grazie alla possibilità digitale della creazione di “multi-cronografie in movimento”, per usare un termine che sarebbe piaciuto a Étienne Jules Marey, l'inventore del fucile fotografico, ovvero di immagini “cronologicamente multiple”, in grado di racchiudere in una singola immagine-schermata una molteplicità di linee di sviluppo temporale, frammenti di tempo colti qua e la, magari distanti tra loro anni, che si ritrovano conglobati in una rappresentazione iconica unitaria. Negro innesca una dialettica paradossale tra tempo reale, quello della durata effettiva del film, e il tempo rappresentato, quello diegetico, che cerca letteralmente di stipare all'interno della durata di visione, come si fa con una valigia in cui pigiare quanti più panni possibile sfruttandone anche il più recondito angolino  «Per “farci stare tutto” ho dovuto lavorare comprimendo il tempo nella direzione dell'orizzontalità, ed espandendolo in quella della verticalità, anche a costo di comportare una forzatura stilistica». Il tempo del film non cerca più di somigliare a quello di realtà.

Immagini accelerate all'ennesima potenza (compressione orizzontale) ma stratificate in semitrasparenza le une sulle altre (espansione verticale), di modo che ciascuna permetta di intravedere quella sottostante. La logica è di natura squisitamente architettonica: ridurre l'ingombro orizzontale riducendo il tempo materiale della loro durata effettiva, così che il film possa contenerne un numero maggiore, ma lasciando immutata la quantità di tempo diegetico che rappresentano, che resta lo stesso ma scorre più rapido. Contemporaneamente, come quando si edifica un grattacielo a molti piani per contenere più gente in una superficie minore, Erik, accatasta una sotto l’altra più immagini singole, ottenendo fotogrammi "potenziati", in grado di mettere in immagine più frammenti di realtà simultaneamente, o come dice lui: « Espandere in direzione della verticalità la capacità di rappresentazione del singolo fotogramma». Nell'uso che Erik fa del termine “fotogramma” , bisognerà tenere ben distinta l’accezione che indica il fotogramma come una unità di ripresa, uno dei 24 “scatti fotografici” al secondo con cui la macchina da presa imprime l’immagine sulla pellicola, da quella che invece indica la singola unità schermica di visione, il “fotogramma” inteso come ciò che lo schermo ci mostra nella stessa unità di tempo. Ad essere potenziato, multistratificato, espanso nella verticalità, è, ovviamente, solo quest’ultimo, il fotogramma schermico, che viene artificialmente composto attraverso un montaggio “verticale” di più fotogrammi di ripresa singoli, che in quanto tali restano mono livellari, cioè rappresentanti una sola immagine e una sola linea di tempo.

Negro, l'architetto, stratificando immagini (riprese) iper accelerate e semitrasparenti in sovrimpressioni multiple, costruisce quindi il suo grattacielo rovesciato, che anziché svettare verso l'alto, l'esterno dello schermo, si sprofonda verso l'interno della materia iconica, come fossero i vari piani di un garage sotterraneo. Le immagini, lo sappiamo, sono portatrici di un lacerto di tempo, di una durata, e quindi stratificandole per trasparenza, saldandole al montaggio in una immagine unitaria che le mostra tutte simultaneamente, si finisce con lo stratificare anche le varie “fette” di tempo diegetico che rappresentano, che per effetto della trasparenza diventano visibili tutte contemporaneamente in una sola immagine dalla temporalità moltiplicata, una “multi-cronografia” in movimento, come abbiamo già detto.
C'è poi da dire che queste sovrapposizioni non sono casuali. Erik le compone con sapienza pittorica sfruttando un criterio geografico-mnemonico ben preciso. A partire da una ricognizione non biologica del proprio repertorio di immagini-ricordo, la consultazione e analisi dell'archivio digitale dei filmati, che permette di raffrontare i vari blocchi di materiale, di visualizzare date, luoghi di riferimento, di avere sott'occhio simultaneamente le fissazioni visive di eventi magari distanti anni tra loro, il critico-regista verifica con sorpresa l'esistenza di una serie di simmetrie, di ciclicità e ritorni altrimenti non sospettabili. Luoghi dell'affettività e della memoria in cui scopre di essere tornato a distanza di anni per realizzare riprese che, confrontate, si rivelano sorprendentemente simili, talvolta identiche, cicli reiterati del suo andare e venire attraverso lo spazio e la vita che rivelano le ciclicità del suo sguardo, il modo simile di percepire le geografie locali e dell'anima che si traduce nel simile modo di inquadrarle.

Ed è a partire da questi ciclici ritorni che Erik edifica le proprie multi-cronografie in movimento, sovrapponendo le immagini-ricordo degli stessi luoghi catturate in anni diversi, di modo che ogni singolo fotogramma, persi i connotati di fedele ricostruzione visiva mimetica della locale paesaggistica, diventi un'immagine astratta che permette di visualizzare tutti in una volta, in una singola visione, tanto i mutamenti fisici che hanno trasformato il luogo durante gli anni, come le diverse accezioni emozionali con cui il regista lo ha vissuto (e quindi ripreso) tornandoci in momenti diversi del proprio percorso esistenziale. E se certamente questa capacità di rappresentazione multipla, di azioni e tempi diversi è l'aspetto più scopertamente innovativo di queste immagini, ben altre e più complesse sarebbero le ragioni teoriche d'interesse da mettere in campo, se si cominciasse col considerare con maggior attenzione critica quella dinamica di significazione verticale tra le immagini di Negro che apertamente (e consapevolmente) collide con tutta la lunga tradizione cinematografica dell'orizzontalità, su cui abbiamo edificato le grammatiche e le pratiche di stile convenzionalmente in uso in quella modalità del rappresentare che chiamiamo cinema. Ma questo è un'altro discorso.

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