Se l'etimo della parola Tempo è collegato, come sembra, al dividere, al separare, il "nostro" tempo si identifica forse per una divisione, per una separazione, generate da un eccesso di con-divisione. Esistono molte specificità per cui il tempo in cui viviamo possiamo chiamarlo specificamente “nostro”, ma per Carlos Reygadas la più importante è quella che ce lo rende estraneo, o comunque davvero poco “nostro”.

Questo è infatti il tempo della paura, dell’improvviso insorgere del pensiero angoscioso di star perdendo l’amore che con troppa disinvoltura ci si era illusi di poter condividere. Condividere l’amore, condividerlo con un terzo. Mettere tra parentesi la fedeltà, privilegiare la franchezza, nei rapporti di coppia. Cancellare l’idea di tradimento. Ma il tradimento non si lascia facilmente cancellare: la sua angoscia assale, appunto, “a tradimento”, specialmente, direi, se il nuovo legame si rivela benefico solo per una delle due parti in causa. Nasce allora l’asimmetria: Ester si sente ri-vivere, Juan si sente morire. La pioggia cade improvvisa sui tori. Improvvisa cade l’oscurità sulle pianure messicane. È capricciosa, la meteorologia di Nuestro tiempo, il film diretto da Carlos Reygadas e presentato a Venezia 75, interpretato da lui stesso anche come attore, da sua moglie Natalia Lopez (montatrice qui in veste di attrice) e dai loro figli.

I bambini sguazzano nello stagno, si lanciano addosso, per gioco, manciate di fango. Nel fango si rotolano beati, come piccoli animali selvaggi, seguiti dalla mdp tanto da vicino che uno schizzo di fango finisce anche sull’obbiettivo. I ragazzi e le ragazze più grandi, invece, si scambiano baci. Quasi un film di famiglia, dunque, ma tutt’altro che un filmino di famiglia. Ognuno interpreta un altro se stesso, o una versione di se stesso quale vorrebbe essere o quale è costretto a essere: Reygadas è Reygadas e insieme Juan, poeta e allevatore di tori, proprietario d’un ranch, in fuga perenne dal caos metropolitano; Natalia Lopez è Natalia, moglie di Carlos, ed Ester, moglie di Juan. I loro figli, dunque, sono figli d’una coppia vera e di una immaginaria, che quella vera si impegna a recitare. Perché? Perché la macchina da presa rivela la verità su se stessi nel momento stesso in cui sembra raccontare storie immaginarie, storie di altri. Svela paure, desideri, gelosie, sotterfugi, ipocrisie: tutto sull’amore, si potrebbe dire. Tutto sul contatto dei corpi e sulla lontananza che può insinuarsi nel cuore del contatto, per colpa di parole non dette o prese troppo alla lettera.

Lo svelamento si rivela possibile in più modi. Uno è generato dalla vicinanza al mondo animale: cani, cavalli, tori. E bambini. Gli animali sono puri corpi mobili, che si agitano agili nella notte, davanti alla mdp. I tori sono immagini dell’altro ferino, corpi feroci e maestosi. Uccidono con furia innocente. Un povero asino viene sventrato, ma, come accade all’inizio di Post tenebras lux, una bambina può aggirarsi tranquillamente in mezzo a loro. Il cielo si rispecchia nelle pozze dello stagno, finché, anche qui scende un’oscurità improvvisa, una notte appena solcata dai lampi intermittenti d’una tempesta. Quello di Reygadas è un cinema di tenebre, che pure reca in sé una profezia di luce. O più che una profezia, un annuncio, per non dire una speranza. Un altro modo è legato alla tecnologia, allo scambio di messaggi su computer e cellulari: messaggi segreti, spesso rubati, spesso spiati. Un altro ancora emerge dalla cultura: vecchie leggende indiane, ma anche modernissimi concerti. È un concerto per timpani, carico di violenza sonora e gestuale, che colpisce Ester a Città del Messico.

E c’è infine una sorta di comunicazione mediatica a distanza, senza parole, magari tra una moglie che sta tornando a casa di notte in auto e un marito che la incrocia, cavalcando sotto la pioggia. Oppure parole, pronunciate nel buio, mentre la mdp sorvola cieli notturni, aerea come un uccello. Oltre l’immagine-movimento, oltre l’immagine-tempo, che in lui non entrano in contrasto, Reygadas persegue dunque, nell’oscurità, la conquista di un’immagine-luce (che lo collega a Dreyer): luce silenziosa, capace di aprire varchi (sia pure minimi) nel muro delle frustrazioni quotidiane – anche a costo che la luce (luce del giorno o lampo intermittente nella notte) lasci emergere la violenza (la violenza animale) e al limite la morte, secondo una tradizione messicana di cui già Ejzenstejn si era reso conto. Non si tratta di simboli (Reygadas, almeno, rifiuta di considerarli tali). L’immagine-luce mette in gioco tutto il peso dei corpi, il peso della morte come parte del ciclo vitale.

Non è escluso, però, che il toro scagliato giù dal dirupo da un rivale più forte possa essere considerato un annuncio. Non è escluso che una scissione familiare possa ricomporsi in extremis. Miracoli della luce.  

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