Il cinema di Mandico (autore di un unico lungometraggio, più una serie paratatticamente compatta come un fregio fluorescente, di corti e mediometraggi) postula e mima, in un detour ansioso e continuo, movimenti di discesa nel profondo e, per questo, si serve di una “camera stilo” che permette visioni internali “per contatto” come si farebbe togliendo dal niveo braccio di un angelo un guanto parecchio aderente (e non era un guanto ad ossessionare Breton in Nadja? E non erano guanti di plastica quelli che Heurtebise aveva regalato a Orfeo per fargli attraversare lo specchio?), feticismo dell’estremità che diviene immagine-calco del braccio perduto. Quali immagini, questo dispositivo microscopico e fantasmatico, filmerebbe? Sarebbero a colori o in bianco e nero? Affiorerebbero figure o osserveremmo particelle, muffe, pulviscoli come in un quadro dell’ultimo, cosmico, Kandinsky? Il piccolo dispositivo di ripresa non diventerebbe, allora, sottomarino del capitano Nemo, che proprio da un boccaporto assisteva alla fioritura di un paesaggio d’altrove?

Boro in the Box, “allegoria biografica” in forma di dizionario (che nella secchezza litografica delle immagini è un ottimo preludio all’esplosione lisergica degli altri film del regista) racconta di un cineasta che visse tutta la vita con il volto inserito dentro una scatola di legno simile a un rifugio per uccelli (con una apertura a forma di O e numerosi scomparti laterali). Film, davvero, iniziatico, che offre una vera e propria lista di passepartout-mots del lessico mandichiano. È dalla “I” alla “O” (due vocali non a caso sinestesicamente rimbaudiane), che questo “vocabolario biografico” entra nel vivo: la “I” di Iniziazione segna infatti la fine dell’infanzia dolorosamente solipsistica e l’apertura all’altro, con la scoperta delle possibilità additive di un corpo cubico e degli orifizi di cui è lacanianamente ricoperto. La “J” di Joy (termine medioevale che indica l’usufrutto di un bene, come spiega Lacan nel Seminario XX, Ancora, dedicato al godimento), segna il momento culminante del contenuto della lettera precedente: Olga, l’amica, sdraiata sull’involucro di legno, sfrutta i segni dell’(a)muro, segni estranei iscritti sopra il corpo, tracce, caratteri sessuali secondari, distesa e beante come Santa Teresa d’Avila nella statua di Bernini. Segue la “K” di Kafka, che si apre con un piccolo dagherrotipo della vita interiore, montaggio spettrale dove il box di Boro è disposto accanto a una mano di manichino, una gallina e una mela marcia, mentre fuori infuria la guerra. La “L” di Lanterna magica trasforma prima il vuoto del monocolo in un fascio di proiezione (l’occhio proiettato batallianamente sulle lenzuola bianche, umidicce di sogni) e poi “apre” alla dimensione del fare cinema, ovvero non solo “fissare” o proiettare le immagini ma, soprattutto, immergersi in un corpo a corpo teneramente tattile con il dispositivo. La prima cinepresa di Boro è una macchina “pesante”, da cinema muto, del tutto identica al box che rinchiude il suo volto, e che possiede un obbiettivo - fallo invece del buco - foro, strumento di penetrazione, registrazione e duplicazione invece della semplice apertura curiosa e schiusa alla visione. La macchina da presa apre ad un close contact che è già quello della cameramen-attrice di Ultra pulpe che mentre filma racconta o, passando dall’altro lato della macchina da presa, si filma raccontando la prima visione di un “film proibito” (e dietro le spalle la regista le suggerisce tutta una serie di titoli paradossali, assecondando la vertigine del nome, del titolo che va a vuoto).

Mandico, attraverso un linguaggio fatto di incontri ravvicinati, insieme tattilmente erotici e oniricamente subliminali (come se l’occhio programmaticamente tagliato buñueliano si sovraimprimesse, con un viraggio sensuale e lussuoso, all’occhio spalancato della Santa Ludovica Albertoni berniniana, l’orbita cieca di marmo più l’organo rovesciante fluido spumoso, lo sguardo perduto dentro la macchia solarizzata al termine del desiderio più quello schiuso dentro la vertigine del sogno e le sue associazioni labirintiche) sembra voler sprofondare e nello stesso tempo indicare (con una lucidità spaventosa da Bateau Ivre rimbaudiano, grande soggettiva folle ante litteram che mostra e dettaglia mentre scivola nel romanzo nero degli abissi spalancati) tre aspetti, tre possibilità di “scrutinio” e “vaticinio” del cinema: l’anatomia del profondo; la reviviscenza; la perlustrazione d’altrove, tutti e tre continuamente rimescolati attraverso un dosaggio folle, sui corpi isterici, di desiderio volgare, sensualità lustruosa e delittuosità ultra pulp del corpo violato o sognato.

Cinema che permette, come accade in Prehistoric Cabaret, di “vedere dentro le cose”: non accadeva proprio questo in quel set che mescolava il trovarobato scenico affastellato di Carmelo Bene, gli alimenti che Claes Oldenburg modificava, nel suo Store, con il raggio X di una softness golosa e mortifera, le luci della locanda sul porto di Querelle dove qualcuno ha appena cominciato a fischiettare il refrain di Each man kills the thing he loves, il tutto in una sovrabbondanza ottundente e “marziana” di veli sternberghiani che scorrono davanti allo spettacolo di tutte le cavità intime schiuse come i riflessi di un mirrorball in un ballo di corpi nudi e appiccicosi, da inauguration of the pleasure dome fuori mano. Il cinema di Mandico crede ciecamente in questa utopia disorganizzata del vedere toccando (o toccare vedendo) senza limiti, fino a godere, in lunghe sequenze oniriche, scivolose e lisergiche, della fotogenia del dentro. E in un mondo dove l’idea dell’anima si è eclissata, si tratta di un tour nelle regioni cave del corpo: In Prehistoric Cabaret lo si fa utilizzando un apparecchio particolare, insieme sonda sottomarina e dispositivo di videoregistrazione del profondo che assomiglia al bulbo di un occhio appena reciso, a un sex toy e al Papaver somniferum dal quale si estrae l’oppio (il piccolo dispositivo sarà introdotto nell’ano della performer e uscirà dalla bocca: non a caso Anal Opium è uno dei titoli della filmografia immaginaria della regista di Apocalipse After). L’apparecchio permette di mettere in luce il mimetismo del landscape intimo, gli strati originari dell’individuo, lo spettacolo sommerso di organi divenuti liquescenza di alga e diafano di ameba, proiettandoli immediatamente su uno schermo (nonostante alcuni problemi di connessione interrompano continuamente il flusso delle immagini con un frame disturbato di bande colorate - come succedeva con la televisione a tubo catodico). Quello che si vede è vicino, per certi versi, ad alcune cose del New American cinema più dissolutamente orgiastico e liquefatto: Jack Smith, Anger, più alcuni frame di farfalle compatte e vetri rotti del Brakhage più sterminatamente romantico...

Il Cinema secondo Mandico permette quindi, dopo la penetrazione dentro il mondo interno, l’animazione come illusione di vita: è quello che si vede nel corto Manliv, fantasia cocteauniana dove una giovane (con guanti di plastica rossi da Orfeo femme) riesce, vagabonda dentro spazi marginali e distopici, vittima di una cromìa malsana (un giardino innevato; una grande spiaggia incrostata di neve; l’argine, giallo sporco, di un fiume; un interno che diventa laboratorio) nel miracolo della resurrezione attraverso l’animazione semplice, toccante, dello stop motion post-mareyniano. Con quanta delicatezza questa demiurga compassionevole si prende cura dei cadaveri degli animali, prima preparandoli (il sacco delle viscere del cane trasformato in intrico gioioso e luminoso di piccole luci natalizie) e poi, in uno spazio d’altrove che è quello della vita animata, permettendo loro una reviviscenza minore, meccanica e automatica. Ma l’animazione forzosa può, in Mandico, riservare anche innesti da Isola del Dottor Moreu, come quella del mostro con il volto bucato come frammento di ametista dal quale fuoriesce liquame verde in Ultra Pulpe (che poi si scopre essere, un po’ come il vestito d’orso di Marlene, un travestimento grottesco che cela un corpo femminile). L’ultima funzione è quella della perlustrazione d’altrove, come si vede in tre film profondamente e intimamente legati, come il corto Y’a-t-il una vierge encore vivante, il medio metraggio Ultra pulpe e l’ultimo Les garçons sauvages.

Nel primo film sprofondiamo subito in un giardino delle delizie saturo fino a scoppiare di junk art smithiana, natura sessualizzata dove ogni svolta nasconde un Cadavre exquis (o fiorito), un corpo di donna disteso, un occhio e uno specchio (Mandico, a differenza di Borges, ama tutte le superfici di riflessione e moltiplicazione del mondo) e dove ogni scorza d’albero può rivelare il suo bassofondo genitale. La figura principale è un corpo di donna deambulante che cela ogni suo orifizio o sporgenza dietro lo sbarrato metonimico dell’ex voto in simil-oro, senza occhi né organi, corpo risorto della pulzella vagante che si sdoppia in quello di una Ofelia preraffaellita di Millais trascinata alla deriva fra le fronde ombrose di un’isola vivente, che è già quella dei garçons sauvages. Questa “piccola banda” proustiana di adolescenti che è insieme “orda arcaica” di banditi in miniatura (della piccola banda proustiana possiede il carattere di indecidibilità di fregio di marmo pulsante materia mnestica pressata; dell’orda dei primordi la ferocia univoca contro un corpo vittimale), enfants terribili come quelli di Cocteau, criminali come il Narratore e Simone nel romanzo di Bataille, viziati come l’Harvey di Capitani coraggiosi, ambigui come i negri di Genet, sono costretti, per scampare all’accusa di violenza sessuale e omicidio, a un viaggio punitivo su un galeone pirata governato da un capitano tirannico. Che lupo di mare corrotto e bigger than life questo mon capitaine! Il pene tatuato con una mappa, senza una gamba, accompagnato da un cane feroce, è il carceriere che condanna i garçons a una dieta a base di frutta acida agente di interne metamorfosi, mentre la nave si inoltra nel poema del mare litografico fra sogni erotici (una ragazza di bronzo come una bond girl sull’ennesima altalena fiorita camp di Fragonard), un teschio di diamanti neo-azteco, e il continuo ondulare di un galeone che si rivela presto essere macchina celibe che obbedisce ad una deriva fantasmale e fantastica, il cui legno è, come in una natura morta cubista, puro trompe l’oeil, che si inoltra nella notte scura.

Ah, la notte artificiale di Mandico, né medioevale (dove il frinire dei grilli nel buio assoluto della campagna svuotata amplificava il fremito delle distanze); né moderna e borghese (con il cielo tatuato dalle luci dei lampioni a gas); e neppure postmoderna (notte senza notte nel riverbero simultaneo dei mille visori); né, ancora, notte dove il crocevia delle stelle indicava ai marinai traiettorie, né notte di boudoir e di paccottaglie kitsch (dove i travesti di Jack Smith accendevano ceri a Maria Montes, notte da veglia funebre satura dell’aura posticcia di simulacri da B-Movie). E, allora, di che notte si tratta? Notte che è, soprattutto, ultima, sterminata nuit amèricaine (come in Ultra pulpe), notte fittizia del cinema, più che truffautiana, forse, spielberghiana, da ET, ma a patto che il piccolo alieno nasconda dentro di lui un corpo di donna come il gorilla la sua Venere Bionda... Nello stesso tempo si avverte, sempre, una spossatezza che non è propria della frigida muscolatura, del corpo ammaccato, quanto dell’anima anchilosata, in uno spleen dove la speranza è ormai stanca di consumarsi le ali sui muri ripieni di manifesti strappati, protesi sfiliacciate che, più che al volo, rimandano agli orpelli di qualche dance party finito all’alba. Non notte solamente, allora, ma regione di una eclissi chiassosa, illuminata da mirror ball che “fanno firmamento”. Ma, anche, qualcosa di completamente diverso: la notte di Les garçons sauvages non è filmata, forse, come se si trattasse della prima notte del mondo, notte da prima di qualunque Arabian Nights, notte di sudori edenici subito dopo la corruzione della mela, e che rivela, di nuovo, il suo mistero ritrovato, la sua nostalgia che si chiude sopra un mosaico di flora metamorfica, ibrida, nauseante? Si tratta forse, come direbbe Aragon, dei vapori del romanticismo che intossicano, ancora una volta, lo spirito del sognatore, nel play it again dell’isola misteriosa?

Si, se si intende per romanticismo il suo ricordo oppiaceo, qualcosa di svuotato, corrotto, guasto, locus solus dove i partigiani dell’oscurità ritrovano la piccola serra ricolma fino a scoppiare di boiserie, e dove splendono i “razzi” della fantasia sfrenata e della incredulità sospesa in un sogno lungo un giorno: in Mandico la visione si sgancia del tutto dalla percezione grazie ad una macchina da presa che ha imparato a farsi veggente.

Ed è così che il gruppo dei ragazzi selvaggi finisce per approdare su un’isola che, più che del tesoro, è un’isola dei misteri e delle metamorfosi. “Dio è ermafrodita”, scriveva Kubin alla fine di un romanzo chiamato L’altra parte: e nell’ “altra parte” sterminata del proteiforme e delle trasmutazioni sprofonda questa gang di adolescenti, perduti nudi e isterici in una nowhere land composta da una topografia lussureggiante dove tutto è vivo, come durante un viaggio allucinogeno, e dove l’io, eclissato, può aprirsi al panico e alla dolcezza, asfissiante e terribile, dei suoi processi regressivi. Latte delizioso e ubriacante schizza da tuberi sessualmente eretti; piante a forma di vulva si aprono come in un film di Corman, fino a quando questo sfondo irresistibile e goloso finisce per contagiare i naufraghi: sui loro petti maschili comincia a fiorire il gonfiore dei seni, mentre il pene, organo in disuso, inutilizzabile, cade come un frutto marcio e al suo posto sorge l’aperto del sesso femminile (anche se il corpo di uno dei ragazzi, con un seno solo, sembra rifiutare una metamorfosi definitiva). L’isola dove Crusoe sbanda nel paese delle meraviglie di Alice, è un’isola ostrica del mondo femminilizzato, è la conchiglia schiusa e natante della Venere nel quadro di Botticelli, sogno di un mondo erotizzato in fuga perpetua: se il capitano diventa torso impalato ricoperto di incrostazioni marine, gli ex-ragazzi finiscono per accettare l’ultima metamorfosi, quella del nome. Severine, la professoressa che ha ordito il gioco dell’esilio era, al principio,  Severin: la vocale E “bianca” aggiunta, secondo un dettato completamente rimbaudiano, implica il “candore di vapori e tende” che celano “la lancia di ghiacciai”; la vocale che mancava alla fine del nome funziona come la O schiusa del sesso femminile al posto del pene, “suprema tromba piena di strani stridori”, e piccola anamorfosi, “raggio viola” assorbente qualunque previa identità “chiusa”. Altri “nomi” segnano, come aperture ma anche come indizi e prove a carico, Ultra Pulpe: dal cognome del regista underground Joe d’Amato che diventa participio passato del verbo amare (aprendo alla lista sterminatamente melanconica dei passati, trapassati e futuri anteriori) richiamato dal nome (d’arte?) della regista protagonista (Joy invece di Joe, nome che corrisponde alla lettera “J” del dizionario di Boro), fino alla lista dei titoli provvisori per un film da farsi (da “Dirty paradise” al magnifico “Suave agony towards the exit on the right”), un cinema come quello di Mandico (ma è anche il caso del suo “gemello”, Yann Gonzalez) si ripensa sempre a partire da un set, da un’ipotesi di set; pensiamo, naturalmente, a Ultra Pulpe ma anche a Un coteau dans le coeur.

Nel primo caso il film nel film, che si chiama Apocalipse after, è girato dalla “pornografa tribale” Joy - Elina Löwenson (che era Severine nell’altro film), lei che sognava di essere Ophuls e invece (o proprio per questo) crea un set sterminatamente post-moderno e post-coppoliano (al now si sostituisce l’after), finzione dentro un deserto “poco reale” costellato da segni commestibili e deteriorati.

Nel secondo caso, il film girato dalla cineasta “porno noir” Vanessa Paradis inizia (secondo un gioco di rimandi che non sembrano casuali), proprio dove finisce I ragazzi selvaggi: su un’isola deserta. Ma se Gonzalez parte sempre da un set torbido (un club underground, come in questo caso; o la casa delle “orge chic” di Les rencontres d'après minuit dove ognuno ha uno pseudonimo e si usa un juke box sensoriale per accordare la musica con lo stato d’animo) per poi “aprirlo”, come si apre una scatola magica, al sogno e alla rêverie (il bosco magico degli uomini-uccello di Un coteau; la spiaggia illuminata d’azzurro e la stanza spoglia alla Carrà e alla Parsifal dove si separano gli amanti di Les rencontres) mentre ogni “taglio” di montaggio può rivelare, all’improvviso, la dimensione fittizia di quello che si è appena visto, in Mandico questo scivolamento non ha mai fine. La particella di sur-realtà che nel primo viene assorbita, alla fine del film, nello specchio compatto di brina di una gelida mattina d’inverno parigina, nel secondo, come attraverso la polvere di stelle del caleidoscopio delle fiere, termina per avvolgere tutto nelle spire dell’avventura e del sogno.

Se c’è un taglio, in questo cinema-detour, serve solo ad inoltrarsi in un altro set impossibile, come il viaggio dell’attrice di “Apocalipse after” mandata su Marte (di nuovo, dai genitori, per punizione). Sul pianeta rosso la giovane subisce il medesimo stupro del “ragazzo selvaggio” sulla spiaggia, ma al bianco e nero si sostituisce qui una cromia da star trek, ai marinai e ai fuochi artificiali (ricordo dei Fireworks e dei marinani di Kenneth Anger) uomini mascherati con rilevatori di radioattività, Chernobyl su Marte, pianeta di enormi falli di pietra falsa e arti penzolanti e commestibili.

Fino al magnifico cut con la coppia che si bacia davanti a una parete decorata di graffiti, mentre fioriscono ovunque strani organismi, coralli e arti finti, mentre pietre germinano sui volti insieme a nuove lacrime azzurre e brillanti. Mandico, nell’anticipazione di un set iper- illuminato (che allude a un ultimo, impossibile set di Cocteau) saluta così il sorgere di una nuova razza necrofila e virile, transgender e abituata a manipolare qualsiasi tipo di protesi, febbricitante per la luce del proiettore, azzurri avatar nell’isola misteriosa del nostro corpo liberato.

Tags: