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  • Il cinema di Mandico (autore di un unico lungometraggio, più una serie paratatticamente compatta come un fregio fluorescente, di corti e mediometraggi) postula e mima, in un detour ansioso e continuo, movimenti di discesa nel profondo e, per questo, si serve di una “camera stilo” che permette visioni internali “per contatto” come si farebbe togliendo dal niveo braccio di un angelo un guanto parecchio aderente (e non era un guanto ad ossessionare Breton in Nadja? E non erano guanti di plastica quelli che Heurtebise aveva regalato a Orfeo per fargli attraversare lo specchio?), feticismo dell’estremità che diviene immagine-calco del braccio perduto. Quali immagini, questo dispositivo microscopico e fantasmatico, filmerebbe? Sarebbero a colori o in bianco e nero? Affiorerebbero figure o osserveremmo particelle, muffe, pulviscoli come in un quadro dell’ultimo, cosmico, Kandinsky? Il piccolo dispositivo di ripresa non diventerebbe, allora, sottomarino del capitano Nemo, che proprio da un boccaporto assisteva alla fioritura di un paesaggio d’altrove?

  • Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.

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