Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.

E poi esiste un altro cinema che, partendo dalla grande tradizione sciamanica del “cinematografo” muto (Epstein con il filtro pazzo della fotogenia nei suoi esiti più liquefatti e mortiferi, come, ad esempio, il caos del bassopiano animale e il travelling nel corridoio sterminatamente vuoto della Chute, asciutto di lacrime; Vertov con il suo cineocchio strisciante e onnivoro a cui non bastano sei parti di mondo; l’Eisenstein messicano e sacrificale, che si sofferma, come il pastore di Poussin davanti alla tomba, sulla piccola ara precolombiana colante sangue) passando giusto in mezzo alla grande divaricazione Von Sternberg-Von Stroheim (il primo con le sue superfici obnubilate e metamorfizzate da veli spessi e occludenti, che tutto coprivano come un sottile arabesco di lacrima, il secondo con il suo affanno gestuale, la sua ansia di deserto, il suo corpo a corpo intensivo con le cose: provate a sommarli: il risultato non è una specie di bellezza innervata nella forza, splendore di abisso e ghiacciaio, occhio che si autocostringe a conoscere il volto segreto della bellezza imputridita?) via via attraverso il Mishima cineasta (il cui Yokoku risalta come un diamante purissimo macchiato di sangue e dove tutti i cineocchi e cinepugni del cinema diventano cine-eiaculazione e cine-spruzzo, in quel dire Si batalliano fino in fondo alla morte impresso nel muro di carta come un tatuaggio) e poi Oshima (Il cimitero del Sole con le sue derive sfinite e senza approdo dentro dintorni sterminati ancor più, forse, de L’Impero dei Sensi, che innervava le “immagini di primavera” dello shunga dentro la loro destinazione sacrificale pulsante di umori gialli, rossi e neri), Wakamatsu (regista non della violenza senza causa, ma della sfrenata ricerca di uno splendore cieco e fragile come la line of grace fosforescente rilasciata da una falena dentro un lunghissimo corridoio della paura senza luce, pieno di neri acquitrini e accensioni salnitriche e colanti su muri lisci di cemento) Cronenberg (quello più infetto, delle prime covate sottopelle e degli spasmi bizzarri che rivelano brutture), passando attraverso tutto il b-movie più truculento, quel cinema di mostri che non mostrava altra cosa che l’orrore cencioso e fasciato della nostra vita d’ospedale, ustionato dalla pressione della torcia sulla nuca, come annotava, più o meno, Schefer, arriva fino a certe cose estreme e frenetiche di Amir Naderi e allo Scorsese, sublime, di Silence

A questa lista, precipitosa e assolutamente parziale (a cui bisognerebbe aggiungere, ma non è questa la sede, tutta una tradizione pittorica parallela dell’illimite e del non padroneggiabile), dobbiamo annettere, ovviamente, Tsukamoto Shinya.
Ecco, in veloce carrellata, un cinema che non ha paura di affrontare il caos, lo scandalo, della materia in gestazione nel suo stato caoticamente cieco, quando, una volta incisa la scorza tiepidamente odorosa delle superfici, le pulsioni emergono e, con esse, un’ansia annaspante di vita cieca, ma, nello stesso tempo, profondamente umana, che il cinema restituisce sempre controtempo e grazie alla fragile resistenza “soggettile” di una carta che brucia.

Zan sembra voler mettere in luce, fin dalle primissime immagini, una dicotomia fra rigore (che è quello del cammino della spada) e ardore. Nella restituzione di questo nucleo precipitoso nessuno è più abile di Tsukamoto: muovendosi, “mettendosi” in un contesto poverissimo di elementi (un villaggio con quattro casupole di contadini) ma ricchissimo di forza evocativa (la boscaglia che i rumori sfrenati dell’intorno rendono stregata e naturans fino alla patologia), il regista di Shibuya utilizza come sempre tutte le risorse che l’intelligenza psicotica di una macchina gli mette a disposizione e, nel caso specifico, soprattutto la camera a mano (cosa inedita in un film la cui radice, per così dire, geroglifica, resta il film di cappa e spada, ma violentato e impoverito di arabeschi e donne-vela, come già avevano fatto, in maniera diversissima, Takashi Miike e ‘Beat’ Takeshi, per ricondurlo alla radice storica kurosawiana, amara e satura di silenzi e cose perdute) movimento che diventa (ma in Tsukamoto è sempre stato così) una perlustrazione dell’aspetto lichenico delle cose, un’assunzione della memoria del corpo, con tutta la sua sfrenata e golosa e ottusa volontà prensile (è come se su ognuna delle dita che immaginarie, stritolano quello che toccano o lo sfiorano appena, spuntassero occhi come quelli che il pavone ha sulla coda) facendo gemmare, a furia di riavvicinamenti improvvisi e pericolanti, una vegetazione che è insieme vello di animale e pelle umidiccia di donna. Il travelling allora, come si vedrà alla fine, comporta, illimitato e spoglio, la perdita di qualsiasi compito esplorativo o (tanto più!) voyeristico, ma diventa traiettoria che si appesantisce del suo stesso, ottusamente cieco, girovagare e, assorbendo tutto ciò che vede, diventa striatura gravida, solco lasciato dall’aratro, sacco di iuta o superficie combusta per le fiamme che l’hanno appena lambito. Cioè traiettoria sfinita e perduta che alla fine trasforma l’immagine cinematografica nella veste della Putrefazione dell’Angelo di Mishima, piccola cosa consunta e ancora vagamente splendente, bella come chioma femminea, sinistra come resto di offerta e appesa come un trofeo animale a un ramo d’albero vicino alla spiaggia. Un cencio che è, anche, una veronica, una dorata e serica coperta contadina, un calco, una svolazzante sindome ripiena delle cose del passaggio, impregnata ed erosa dalla vita, attraversata, lacerata e delirante (perché tutto ha visto e toccato) per i tramonti dietro il Fuji, la germinazione folle dei ciliegi e la prima carne nuda.

 Zan inizia così, con una fucina e una spada: si vede la cenere, la paglia stopposa, il legno crepitante e il grumo di luce infuocato che “cucinano” la spada come Rembrandt faceva gli elmi e gli scudi: attraverso una accensione bruciante di luce vera. Spettacolo di una materia che emerge dal buio come un bulbo colloso, ecco la spada sonora e stretta dal pugno tremante (leitmotiv del film) del samurai mentre, sopra un paesaggio di campagna scaturisce, sterminatamente bianca, la striscia superiore e pittorica dell’ideogramma “uccidere”: ideogramma che fuoriesce, quindi,  programmaticamente, dal nucleo bruciante della realtà, spolpando la superficie stessa delle cose. Sorgono così anche i personaggi: il contadino che vuole essere guerriero e il suo amico, abilissimo spadaccino già circonfuso di presagio; la ragazza, che nelle sue scappate nel folto, le mani tese verso un oltre che non può lambire, ricorda le scissioni di Kotoko, però panteisticamente connotate; il samurai venuto dal nulla, interpretato dallo stesso Tsukamoto, che lacera, imprimendogli un solco sanguigno, la mano dell’avversario, senza neppure muoversi; e poi il bassorilievo dei contadini e dell’orda degli assassini, peones che i primi non vogliono guardare negli occhi, come già quelli di Kurosawa. Su tutto, in questo film umbratile, aleggia il peso greve delle ali cormoraniche della morte che giunge di notte, e accumula cadaveri nel chiuso di una stalla: sotto le stuoie di paglia intrecciata non si vedono che piedi anonimi (più atroci di quelli dei naufraghi di Gericault, più negri di quelli degli appestati di Zumbo, più insozzati di sporcizia di quelli che, nel film di Scorsese, calpestavano icone): sollevatane in alto una a caso, ecco scoprire che la poverissima coperta nasconde, sotto le sue dune geometriche e la sua superficie di alveoli, il corpo del giovane contadino, aperto in due da una larga ferita longitudinale.

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Ma questo movimento di morte, per un attimo, Tsukamoto ha pensato di sospenderlo. Qualcosa di opposto e segreto, infatti, andava sorgendo poeticamente in quel mondo ridotto a quattro casupole di paglia e a un’enorme distesa verde-verde. Il giovane samurai, attraverso l’interstizio fra le due assi di una della parete di legno sbilenco e umido che sono la sua casa, può tendere le dita verso fuori dove lo attende, dolcemente famelica, la bocca della ragazza, che succhia e morde quella dita, desiderandone il corpo intero. Poi, all’improvviso, dalla fessura le braccia escono fino ai polsi, e l’uomo, senza vedere, può stringere forte il collo dell’amica, che arrovescia gli occhi e forse sogna; ritorna alla mente il complesso cerimoniale di Vital, dove il pathos dello strangolamento e del sesso avveniva sempre dietro un’altra cortina, che era quella del sogno: in entrambi i casi, si può toccare l’oggetto amato fino a stringerlo a morte, ma sempre a prezzo di una distanza dolorosa che proprio la morte renderà eterna. Non è un caso che Tsukamoto mostri, immediatamente dopo, l’immagine di un torii nella boscaglia: entrambi, il povero uscio di assi marcite e il vuoto incorniciato di legno del portale che introduce nella dimora delle divinità e verso altri spazi di esistenza, sono, entrambi, Ma, risacca di silenzio, intervallo e varco interstiziale, abissale e pericoloso.

Poi il duello e lo stupro nella grotta, remota e satura d’acqua colante, che prepara la grande parte finale, con l’inseguimento dei corpi feriti e mutilati nella boscaglia, itinerarario - penitenziale e sacrificale insieme - secondo quella direzione unica e sempre uguale che è sempre quella, impressa dalla strisciata di colore bianco, pennellata informale sopra la selva e il suo brulichio, dell’ideogramma all’inizio del film.
Ed è lì, nella scena dell’ultimo combattimento (che sembra anche l’ultimo combattimento della storia) che Tsukamoto compone il suo “fotogramma” definitivo che, lontanissimo da qualsiasi “registrazione”, si fa spalto di sostanza terrenale gonfia di umidori, che impasta pressando insieme diversi ambiti di esistenza: le falde spettrali della nebbia, il nervosismo appiccicoso del dripping di sangue sul corpo, la scorza volitiva e antica dell’albero dove sorge, improvvisa, la piccola coccinella con due punti neri, il tappeto di foglie laccate di smeraldo, l’ondoso mare d’erba, e infine, ghiottoneria d’altrove scovata dall’acciaio, il sacchetto di viscere espulso dalla pancia del guerriero: il tutto compresso e osservato, è bene non dimenticarlo, dal volto (cioè da occhi, gote, labbra, il tutto bagnato dalle lacrime) colto dall’irrelata mescolanza del tremendum-fascinans proprio della morte violenta, della ragazza.

C’è una poesia dell’artista informale tedesco Wols che, nell’ultima parte, fa pensare a proprio al film di Tsukamoto:
“A priori un uomo deve, se davvero porta cura a se stesso, formarsi una idea sulla questione, sono un recipiente, una fontana o nulla”.
Recipiente, in Tsukamoto è sempre il corpo: umidore di corpo disteso e violato della ragazza, febbricitante e sporco del giovane dopo la lotta nella spelonca, e quello che espelle, in ginocchio, il suo labirinto di viscere; ma anche corpo mutilato degli sgherri che perde sangue e, mentre perde la vita, deve riflettere su di essa; Fontana, zampillo di sangue, certo, ma ancor di più agitazione di qualcosa di completamente pulsionale che si impadronisce di tutto, corpi che agonizzano, paesaggio che assorbe, occhio che scruta, cinepresa che crea. Nulla è il corpo del giovane samurai che, dopo aver imparato ad uccidere, ed aver scoperto il segreto del “recipiente che zampilla”, del corpo e del sangue, si allontana fino a scomparire nel sentiero fra gli alberi. 

Ed è allora che la ragazza, ebbra di dolore e dello sporco vischioso della grande foresta sulla quale ha lungamente strisciato, come se lo spostamento polveroso, sfinito e rasoterra di Duel in the Sun avvenisse nella foresta magica di Rashomon, grida: grida infinitamente, e il suo urlo nero si spegne in un travelling nella boscaglia deserta mentre crescono, insieme alla musica di Chu Ishikawa, i rumori di uccelli, piccoli animali, fonte, cascata, vento fra le fronde, Cantico delle creature che aveva insaporito, ispessito, irrorato, nutrito per tutto il tempo, e senza che che accorgessimo, il profilo tagliente dell’ideogramma “Uccidere”, che giusto alla fine del film, in questa deambulazione cieca, in questo sorvolo invisibile e senza meta dentro un mondo sonoro e animato, incontra espressione e compimento.

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