Vérité c’est faux 

Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux

(Jean-Pierre Duprey, settembre 1946)

Oltre la mezzanotte del corpo, nel luogo fisico del cuore che pulsa, torna a manifestarsi l’allegoria della forza istintuale, possente: che appare in squarci di rossi e di blu fuori dalla retorica della forma, tanto che la scritta «OUT» nell’asfissia delle oscure ambientazioni al chiuso si fa paradigma di questa modalità estrema di fare cinema. E dentro la macchina infernale dell’occhio-movimento che torna, ripete, riprende, ri-vede, il regista francese costruisce, mimando il reale, o quel che ne resta, la struttura del farsi della visione, e del racconto nella visione.

Come in Bataille, l’energia dissacrante, perturbante di cui è impregnata ogni scena svincola, riscattandola in gioco gratuito, ironico, distruttore, l’esistenza stessa dell’immagine, le sue dinamiche aggressive, a tratti blasfeme; laddove il cerchio aperto nel manifestarsi dell’orrore, della lama che affonda nel sangue, tinge di rosso il campo visivo che si ritrae, disgustato. Perché deliberatamente Gonzalez smuove le viscere, scandalizzando persino nella scenetta comica di un teatrino dove la morte violenta viene messa in scena, data in pasto a spettatori divertiti mentre il sangue sgorga su un palchetto fra le risate di tutti, tranne di Anne, i cui occhi sono lucidi, inondati di lacrime.

Fedele a quella concezione dissacrante dell’«humour noir», «Un couteau dans le cœur» compie un’aggressione radicale nel segno di una caduta, divenendo pantomima, maschera, pirandelliana mano che gira la manovella (senza dimenticare che anche in «Quaderni di Serafino Gubbio operatore» il cinema è inteso nella sua forma, oltre che creativa, doppia, quindi distruttiva, con le sue implicazioni di morte). Sempre ripetizione, riproduzione, meccanica ripetizione, simboleggiata del resto dal meccanicismo delle sequenze da industria pornografica, e dalla perseveranza con la quale si scompongono i piani, aggredendo dall’interno l’immagine, denudandola.

Il meccanicismo dell’artificio cinematografico, che è meccanicismo dei corpi, passando per il voyerismo straniante del montaggio – e qui Loïs, moira post-litteram dell’opera, colei che, rifiutando d’amare, tuttavia ama, offrendo al coltello la carne, viva, del cuore – e allo stesso tempo, in una reciprocità diversa e tragica, per quello desiderante di Anne mediante la fessura del muro, diventa nel medesimo istante occhio che tenta di impossessarsi dell’immagine e spleen, noia esistenziale, contemplazione muta, cuore metaforicamente spezzato. Poiché tutto è eccessivo in Gonzalez,  e tutto ritorna: le blasfeme oscenità che aggrediscono la morale, la forza demistificante, dissacrante che gravita intorno ai drammi individuali;  i crescendo della musica degli M83 a modulare le scene portandole dal buio più scuro al bianco più intenso fino a diluirle nella vacuità della fiaba; ma tornano anche la misura del noir, del mistero, la commistione fra sogno e realtà nei fotogrammi in sequenza, scandagliati in sfrenato automatismo per rendere lo spettatore partecipe dell’artificio cinematografico, della finzione.

E ancora si assiste all’inutilità della domanda se questo gioco macabro esista davvero, se esista la foresta che richiama Duprey nell’insistenza degli elementi notturni, misteriosi, nel rovesciamento continuo dell’orizzonte d’attesa, negli eccessi di surrealtà: «[…] L’ombre de l’ombre et de l’ombre, sa forme barrée imite en noir les cinq pètales jaillis d’un cœur exangue qui se creuse […]» (J. P. Duprey, La forêt sacrilège, Palomar, Bari 1993, p. 94). Cosicché il tessuto sonoro, visivo, visionario di Yann Gonzalez è mimesi del gesto ripetitivo della macchina da presa, è meccanismo che si inceppa, volutamente, e volutamente crea disagio, caos.

Ma soprattutto la ricerca di una modalità particolarissima di stare al di qua della macchina da presa, che dunque si fa metacinema – e la presenza di Bertrand Mandico, autore di «Les garçons sauvages», conferma l’intento programmatico di fare un film sul cinema – è più volte anticipata dai volti a intermittenza in primo piano, dalla presenza ripetuta dell’immagine dell’occhio, vitreo dell’uccello della notte, oppure deturpato come in «Les rencontres d’après minuit», sebbene in quest’ultimo film la distruzione riguardi invece il viso per intero, la mano, comparsa dagli incubi in forma bestiale, in un andirivieni di campi tagliati, panoramiche dal basso, pellicole rapidamente riavvolte, luci fulminee, abbaglianti nelle fiamme della notte: in quel nero dove Anne è sola, da dove implora al telefono un ritorno che non può darsi che al momento della morte.

«Tu as détruit cet amour, le souvenir de cet amour», legge Anne seduta su una panchina della stazione: le parole di Loïs, la voce fuori campo ferma, lenta, pervadono lo spazio di un piano sequenza interminabile, che evidenzia il dolore di Anne di trovarsi, ora, di nuovo sola nella sera scura; l’ultima con Loïs è stata pioggia sulla faccia, sulle mani, cielo caduto dal grigio dei tetti sulle pupille dilatate, urlanti come l’acqua, come lo strazio per aver compreso di non appartenersi più, anzi di non essere state mai l’una dell’altra:« Ça c’est a moi! A moi! A moi!», parole che cadono violente, che lavano il trucco dal viso, che sono ancora pioggia.

“Tout est détrouit, tout est mort”: decostruzione ancora, privazione, spreco.

Ma si fa ritorno in una sala cinematografica: le luci sono già accese sullo schermo ed è forse, forse anche ritorno alla vita.

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