risultati per tag: yann gonzalez

  • A partire dal limine dell'après minuit, propagato però dalla mattina imminente ‒ e i rimandi al sole, alla luce, dentro e fuori dall'iconografia dello splendore che acceca, frantumando violentemente, evidentemente i notturni delle scene nella dissolvenza in entrata della mano stretta a pugno fra le catene, fra le sbarre ‒  si mostra, come nella scena in primissimo piano del taglio sulle labbra, l’altro "taglio", lo strappo, la lacerazione del contrasto. Ché poi, in fondo, l' indagine perpetrata dalle visioni mediante l'assenza di tutte quante le definizioni, scardina con la decostruzione del senso lineare del racconto l'impalcatura stessa del farsi spazio, e tempo, e ricordo del tempo e dello spazio proprio attraverso la dualità, l'ambiguità propria del dire, del nominare, che è qui visione, poesia, attraverso il paradosso della coesistenza di coralità e solitudine, epicità, perlopiù condotta dai dialoghi, e drammi individuali: compresenza di “storie” e di monadi schizzate fuori, impazzite, dal dolore ("[... ] Andiamo lontano da questa tristezza, siamo dei vecchi naufragi"), non sapendo se alla deriva si trovino uomini o fantasmi, demoni o ombre di uomini (“[…] E voi, chi siete voi veramente?"). 

  • Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique(2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

  • Vérité c’est faux

    Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
    Moi je n'ai pas d'étoile
    Le ciel est immobile dans la mer
    Moi je n'ai pas de mer.
    Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
    Pour voiler mon apparence de corps
    Je cherche un voile imperméable
    Aux regards de la vérité
    Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
    Elle m'apprenne que je souffre
    Car alors je n'aurai pas le mensonge
    Pour me dire que c'est faux.

  • Vérité c’est faux 

    Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
    Moi je n'ai pas d'étoile
    Le ciel est immobile dans la mer
    Moi je n'ai pas de mer.
    Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
    Pour voiler mon apparence de corps
    Je cherche un voile imperméable
    Aux regards de la vérité
    Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
    Elle m'apprenne que je souffre
    Car alors je n'aurai pas le mensonge
    Pour me dire que c'est faux

    (Jean-Pierre Duprey, settembre 1946)

    Oltre la mezzanotte del corpo, nel luogo fisico del cuore che pulsa, torna a manifestarsi l’allegoria della forza istintuale, possente: che appare in squarci di rossi e di blu fuori dalla retorica della forma, tanto che la scritta «OUT» nell’asfissia delle oscure ambientazioni al chiuso si fa paradigma di questa modalità estrema di fare cinema. E dentro la macchina infernale dell’occhio-movimento che torna, ripete, riprende, ri-vede, il regista francese costruisce, mimando il reale, o quel che ne resta, la struttura del farsi della visione, e del racconto nella visione.

  • È già da qualche anno che in Francia si fa largo un cinema fulgido, fiammante per quanto laterale - una specie di acrocoro animato da iniziati, da dei mistici scapigliati o altrimenti imbonitori della mise en scène - che si può definire “dream-cinema” oppure, per restare alla lingua d'origine, “cinéma-rêve”: un regime di sopra-realtà, di personaggi sonnambolici, lirici, vaganti come spettri in teatri di posa, in prosceni spogli, di cartone e anditi ingombri di chincaglie, o al contrario sgangherati, furenti, ridicoli nei loro eccessi e nelle loro pose, che avanzano, magari attraverso le strettoie di Parigi lasciate aperte nel mezzo dell'ingombro, del peso della realtà.

  • La nuit c'est l'oublié du jour

    Pace non cerco, guerra non sopporto
    Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
    Pieno di canti soffocati. Agogno
    La nebbia ed il silenzio in un gran porto
    […] La vita è triste ed io son solo
    O quando o quando in un mattino ardente
    L'anima mia si sveglierà nel sole
    Nel sole eterno, libera e fremente

    (Dino Campana, Poesia facile, in Il Quaderno)

    La notte è sembianza del giorno. Rimembranza. Ricostruzione e rivitalizzazione del giorno in un altro universo di simboli e significati. Essa non appare come la fine di tutto, come un sonno in cui non c’è dato «essere», creare, agire, dunque vivere, figurando invece l’inizio di una nuova esistenza, di un cosmo che transita, scorre, sopra le cose del mondo e nel cui corso – durante il sogno, la veglia, oltre la mezzanotte dei sensi – è possibile l’incontro, l’amore, la soddisfazione di aneliti inappagati. E se si è poeti affinché si riesca a “doppiare” la vita nel senso (duplice) che ha il termine, riproducendola e allo stesso tempo andando più in là, sperimentandone diramazioni e aperture, si stanno facendo largo, in una certa frangia di cineasti europei, alcune visioni estreme, radicali, dirompenti e distanti da un codice prescritto ma prossime ai generi (e al genere) e non dissimili da quest’idea di poetica.

  • C’è un doppio sguardo, frantumato dal taglio netto sulla dualità del soggetto, sovrapposto sul fascio di luce arrivato dall’alto, pure specchiato, che è di Hannah Höch nel suo Autoritratto con Crack (1930, Berlinische Galerie), al quale si ha l’impressione di poter accostare l’idea di cinema di Bertrand Mandico – astro nascente di una nuova tendenza francese, consacrato dai «Cahiers» – nelle specificità tecniche che gli sono proprie: metafora à rebours di un discorso sull’arte che riflette su di sé, sulle possibilità e sugli strumenti che ad essa sono connaturati; paradossale, vibrante, intensivo dream workche era stato delle avanguardie, ora reinterpretato nelle modalità dissacranti del ghigno, o del balbettio, quando non afasia, oppure al contrario dall’urlo, dal fluire emorragico, metafilmico, di liquidi che tingono lo schermo, del graffio furente sugli occhi.

  • Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique(2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

  • Vérité c’est faux

    Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
    Moi je n'ai pas d'étoile
    Le ciel est immobile dans la mer
    Moi je n'ai pas de mer.
    Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
    Pour voiler mon apparence de corps
    Je cherche un voile imperméable
    Aux regards de la vérité
    Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
    Elle m'apprenne que je souffre
    Car alors je n'aurai pas le mensonge
    Pour me dire que c'est faux.

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