A partire dal limine dell'après minuit, propagato però dalla mattina imminente ‒ e i rimandi al sole, alla luce, dentro e fuori dall'iconografia dello splendore che acceca, frantumando violentemente, evidentemente i notturni delle scene nella dissolvenza in entrata della mano stretta a pugno fra le catene, fra le sbarre ‒  si mostra, come nella scena in primissimo piano del taglio sulle labbra, l’altro "taglio", lo strappo, la lacerazione del contrasto. Ché poi, in fondo, l' indagine perpetrata dalle visioni mediante l'assenza di tutte quante le definizioni, scardina con la decostruzione del senso lineare del racconto l'impalcatura stessa del farsi spazio, e tempo, e ricordo del tempo e dello spazio proprio attraverso la dualità, l'ambiguità propria del dire, del nominare, che è qui visione, poesia, attraverso il paradosso della coesistenza di coralità e solitudine, epicità, perlopiù condotta dai dialoghi, e drammi individuali: compresenza di “storie” e di monadi schizzate fuori, impazzite, dal dolore ("[... ] Andiamo lontano da questa tristezza, siamo dei vecchi naufragi"), non sapendo se alla deriva si trovino uomini o fantasmi, demoni o ombre di uomini (“[…] E voi, chi siete voi veramente?"). 


È la giustapposizione di una miriade di "rencontres" a segnare in questo film di Gonzalez l'amplificazione della vista: intesa come vita e come morte, come ritorno alla vita finché c’è sguardo, finché c’è amore. Matthias vivrà attraverso gli occhi della donna che dice di amarlo, la sua vita non avrà durata più lunga di quello sguardo. "[...] Vivrà attraverso i tuoi occhi": la presenza, il costituirsi come presenza esige il desiderio dell'altro poiché diversamente, venuti meno l’abbraccio,  l'intensità dell'incontro negli occhi, il soggetto (l'oggetto) dell' amore muore. Smettere d'amare uccide, nello stesso momento in cui ad essere "guardato" è non più, non solo Matthias ma "L' Adolescente". L' ontologia sartriana, e non solo, del nulla si fa qui in tutta la sua potenza, presenza: ancora la "mezzanotte" del contrasto, dell’ opposto, che in Nietzsche coincide, andando oltre, come in queste visioni, il desiderio di non morire. Non importa se questa storia sia vera, allora non importa neanche sapere se la vita di questi pirandelliani personaggi sia vita, se la loro morte sia vita o ancora morte. Questa poetica del desiderio a partire dallo sguardo diventa sottrazione, negazione: ed è già segno, occhio divorato dalla decomposizione.

E il sesso, la solitudine del sesso nelle scene esplicite di chissà quali promesse incompiute, tranne che, in parte, nella classicità dionisiaca dei baccanali, neisimboli fallici in evidenza, rimanda ancora alla morte ma che si avvia, che desidera andare oltre, al di là della mezzanotte ("après"); così come, muovendosi in orizzontale la macchina da presa a seguire "La Cagna" che attraversa carponi i tempi dei piani, scorrendo in sezioni di dipinti sui quali si stagliano figure immobili senza volti di uomini nudi, il riferimento a certa fotografia d'avanguardia (da individuarsi, forse, in Man Ray per lo scintillio sui seni e sul ventre) si coglie essenzialmente nell'iconografia della luce, della decomposizione e ricomposizione, nella luce e attraverso di essa, del busto di donna sfolgorante: fasci di luce, dopo che il regista ci ha resi partecipi di questo artificio dell'andare da una sequenza ad un'altra, fino al buio intorno alla luminosità propria del busto appunto, monco, di una donna, inondato solo quest'ultimo dal bianco, destrutturato prima e ricomposto poi dai fasci luminosi che si propagano sui lembi nudi della pelle: a cui si avvicina, per eccesso di significato, completandolo nelle membra mancanti, il collo reclinato della donna, e tutto il resto.

Perché attiene alla morte, vista come finzione o realtà ‒ e non è attinente che si specifichi in questo affollarsi di spettri uomini voci ‒ il luogo del cinema, lo spazio della proliferazione dei segni e dei significati nei segni: quando ci si ritrova davanti allo schermo nella sala deserta e buia, da persone si è di nuovo personaggi nella finzione cinematografica, che ancora è occhio pervaso dal sangue rappreso, non-vita: o amplificazione, propagazione della vita?  Il discorso sul cinema che conduce Gonzalez, la musica degli M83 in climax ascendente fino allo scioglimento finale, dal quale saremo risucchiati fino allo stordimento, si serve del paradosso dell'angoscia nelle visioni oniriche, dello scavo interiore fin dentro lo scandalo delle pulsioni, del barbarico affondare nei sensi, nel consumo dei sensi per “dire” che anche dal ricordo non ci si salva (e qui l’apoteosi del dolore delle voci dei bambini, non più vivi, a scatenare le guerre, attraverso le parole di Matthias). Qualcuno ha divorato un cuore: “Je me souviens”. In netta contrapposizione alla delicatezza, dolcezza delle due teste vicine, poggiate l’una sull’altra come in un sogno, sopra e intorno il cielo stellato di una notte in fuga. Ed è qui, anticipato dal finale del film, dai titoli di coda sull’alba, sulla vita, finalmente “vita” nella supplica disperata a restare (“[…] Vorrei restare dentro questa notte, chiudere gli occhi insieme a lei”] che si compendia, liricamente nelle scene centrali dell’opera, una epistemologia della Bellezza per mezzo di piani sequenza lunghissimi a sospendere il fiato.
Perché a restare sia la luce sul buio (“[…] Questo stato di grazia probabilmente non durerà oltre questa notte”), la sopravvivenza, invischiata in tanto, estremo dolore, dell’amore.

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