C’è un doppio sguardo, frantumato dal taglio netto sulla dualità del soggetto, sovrapposto sul fascio di luce arrivato dall’alto, pure specchiato, che è di Hannah Höch nel suo Autoritratto con Crack (1930, Berlinische Galerie), al quale si ha l’impressione di poter accostare l’idea di cinema di Bertrand Mandico – astro nascente di una nuova tendenza francese, consacrato dai «Cahiers» – nelle specificità tecniche che gli sono proprie: metafora à rebours di un discorso sull’arte che riflette su di sé, sulle possibilità e sugli strumenti che ad essa sono connaturati; paradossale, vibrante, intensivo dream work che era stato delle avanguardie, ora reinterpretato nelle modalità dissacranti del ghigno, o del balbettio, quando non afasia, oppure al contrario dall’urlo, dal fluire emorragico, metafilmico, di liquidi che tingono lo schermo, del graffio furente sugli occhi.

Il meccanismo che governa la compresenza magnetica di ultrarealtà e finzione cinematografica di quel set onirico di Ultra Pulpe, l’integrazione/scissione dei corpi, pulsionali, deformati, mascherati di Les garçons sauvages, illimitatamente (s)confinanti nell’inorganico e nella sfera vegetale, intercambiabili, androgini, come pure la polarità gioventù-vecchiaia, la mobilità dell’andare nel campo fisso contro l’immobilità dello sguardo, scavo innaturale nella pelle bluastra di Manhen; e il viaggio dissacrante, sarcastico, di una camera che si insinua attraverso le viscere della protagonista di Prehistorique Cabaret, gioco irrisorio dell’ossessione visiva, voyeristica del contemporaneo, contrapposto a quell’altro viaggio alle radici della memoria della creazione raccontato da Boro in the box rispondono, tutti, ognuno secondo modalità specifiche, originali, ad un principio di svelamento del fervore che sta dietro l’immagine: che viene aggredita, smontata dall’interno, fedele Mandico a certa tradizione prima dadaista, che attraverso la commistione di pittura e fotografia aveva istituito nel collage il tratto distintivo di una visione del reale sfaccettata, variegata, contraddittoria, poi alla vertigine surrealista, per la tendenza derealizzante la logica convenzionale, fuga verso una dimensione che trascende il senso comune di intendere quella che per il regista assume, nel medesimo tempo, i caratteri di una soggettività che incessantemente la pratica cinematografica, la forza compositiva (e distruttiva) del montaggio crea e ricrea; e infrange, rendendoci partecipi di quel processo disgregante che è l’arte.

Nel mezzo di questa spaccatura – allegoria dolente, straniante è l’ambiguità dell’immagine, sempre subito altro da sé a partire dalla presenza, spesso in campo fermo, nel primissimo piano, di inquadrature che pongono al centro una poetica dello sguardo, declinata nei modi del doppio occhio attraverso la scatola di Boro in the box, che non vede, o dell’oblò del battello ebbro di Les garçons sauvages, pioggia battente sul vetro, in tempesta – opera Bertrand Mandico, come Yann Gonzalez nella scena del sangue rappreso sull’occhio deturpato di Les rencontres d’après minuit alla maniera di Buñuel e Dalì, e dei lampi delle pupille in Un couteau dans le coœr, poi, nel medesimo film, nelle scene del set in cui compare lo stesso Mandico: sintomi di una decomposizione ricorrente del campo visivo che, riprendendo l’attualità delle innovazioni sperimentali che gravitavano in seno alle avanguardie e che erano state, appunto, prima l’urto destrutturante dada, poi l’energia onirica del surrealismo, portano il segno di una riconfigurazione incessante del farsi (e del disfarsi) dell’immagine filmica, sottoposta dunque ad un meccanismo continuo di costruzione e decostruzione, irruente, irriverente.

Sta tutta qui l’impalcatura cromatica ottenuta dal sincretismo di effetti pittorici, fotografici, cinetici di visioni paragonabili alla terra, sulla cui desolazione si staglia l’albero fantasma, umanizzato (disumanizzato) dell’incipit di Boro; ed è qui, anche, quell’ideale ancora attuale del Bauhaus, vagheggiato da Moholy-Nagy nella commistione delle arti al fine di costruire il proprio tempo, che la materia onirica di Mandico restituisce allo spazio del visibile, così instabile, poetico perché rispondente ad un continuo slittamento semantico, ad un ricostituirsi ibrido, virtuale. Questa reinterpretazione ipercontemporanea di modi, forme, oggetti piegati ad una logica di spreco a volte brutale, disinvolto, di rottura è dissoluzione mimetica e disfacimento delle forme, dei luoghi, dei volti, e persino dell’ipotetico archivio visivo dello spettatore, indotto a lasciarsi risucchiare dalla fluidità magmatica, incandescente, multiforme – e, per ciò, frammentaria – di un mondo discordante, combinatorio, che annulla il limite stesso fra autorialità e ricezione, fatto che denota nelle rêveries di queste modalità creative la significativa importanza del luogo dello scambio comunicativo fra l’opera e chi la guarda. E da qui si intuisce come, leggendo Deleuze, della sua idea di liberazione dell’atto creativo nella scrittura, le opere di Bertrand Mandico, in particolare, spingano ad interrogarci sulla necessità di nuovi apporti critici, tanto incisiva si mostra non solo la spinta all’intertestualità della sua produzione ma anche la connotazione plurima, disgregante del suo portato simbolico, apertura continua al nuovo nell’atto stesso in cui avviene l’aggressione al divenire dell’immagine: perché si compia poi il rêve di quel farsi mondo che è il cinema.

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