Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.

Bisognerà approfondire prima o poi le pieghe teoriche, le tendenze (anche per certi versi antitetiche) e le occorrenze di questo che io chiamo il dream cinema francese (per non dire dei differenti approcci critici che esso ha ispirato e ispira), e che negli ultimi anni ha visto l'affermarsi anche elcatante di Bertrand Mandico, sotto l'egida del produttore Emmanuel Chaumet o, in ordine di tempo, i due autori delle Bêtes Blondes, Maxime Matray e Alexia Walther: ma è importante ora contemplare e cercare di concepire l'immaginario frastagliato, onnivoro, abbagliante di Ultra rêve, una sorta di epitome di questo cinema sonnambolico, e un diagramma dei vari gradi dell'onirismo.

Infatti il primo episodio After school knife fight di Poggi e Vinel si inserisce in un contesto che è quasi-naturale, in cui cioè la sopra-realtà si è appena sollevata da terra ed è evocata, riempita di atmosfera autunnale, da una forma tenue, volatile e dolente come gli animi e i volti trepidanti dei protagonisti, giovani alle prese con un futuro di distacchi, di mancanze, proprio di dissolvenze. Fantasmi mossi da una fragile, silenziosa emotività che trascolora in qualcosa come le partiture di John Maus, una musica proveniente da lontano, da un altro tempo: come se la musica fosse il motivo di questa emotività, lo shoegaze, la new wave, note fragili e misteriose, che si perdono nei prati, forse gli stessi diq uel finale straordinario che era de L'Âge atomique.

E da lì, con Gonzalez, la sopra-realtà subisce uno scarto decisivo verso l'onirico più spinto, intersezione di molteplici piani del racconto, dal palcoscenico al parco, agli interni in cui si aprono altri mondi chiusi da pareti e porte in penombra, come nel Carax di Holy Motors, fino a quelli che sono tra i titoli di coda più belli mai visti; ammesso che questo galleggiare di personaggi e situazioni siano ancora ascrivibili a qualcosa come il racconto, e non siano invece l'apoteosi del cinema per il cinema, cioè per la vita, l'unica che valga la pena di essere provata, una vita grondante di mito.

E poi c'è Ultra Pulp di Mandico, che si sviluppa in deliquio, in delirio, il grado massimo di sopra-realtà di questo rêve, di questo ultra-rêve che ora esplode in fosforescenze tumide, sfondi posticci, atmosfere apocalittiche in cui a muoversi sono i personaggi che hanno glorificato negli anni il cinema e la letteruatura di genere, da Joy D'Amato a Frieda Boher, ad Apocalypse. Un intrigo, un incastro, anzi l'incaglio di storie destinate a sciogliersi in fumi e fluidi ocra, di puri deliri che fanno l'universo avventuroso e terribile di ogni vicenda che viene dall'origine delle cose, l'immaginazione, ora finalmente priva di freni e tracimante come un'eiaculazione pastosa, dallo schermo.

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