Le Bêtes blondes, fuori dall'imperativo, dall'ansia di corrispondere ai caratteri di una realtà mimetica per via di sceneggiatura, narrazione, il disegno ponderato di soggetti, perfettamente agenti dentro la storia; sono spettri, fantocci cangianti che vagano in un interregno di segni, un caos di presagi, avvisaglie di una trama che non si realizzerà se non nel suo giocoso e macabro girare a vuoto, nella sua endemica, concentrica apertura a quell'universo di opzioni, virtualità, coreografie in immediato annullamento, che attende ai margini del mondo empirico per essere significato.

Sono nature morte in decomposizione, in marcescenza sui prati; apoteosi floreali che germogliano nella misura della contaminazione con le deiezioni, con il vomito, dentro un film che allora percorre la strada dell'ironia verso affettate e oscene coprofagie, così come di incantate fermentazioni (polpe verminose di frutti; fiori mortuari; funghi incastonati nel loro fiabesco, stupefacente apparire nel sottobosco) che si compiono in ambiente anti-parnassiano e post-simbolista. È quella contaminazione, effusione di materiali e registri disparati, tra comicità clownesca e vera disperazione (sia pure incarnata all'impalpabilità, evanescenza dei saltimbanchi), che viene direttamente da Rimbaud, dal bicefalo Lautréamont-Ducasse e soprattutto da Jules Laforgue, oltre che da quell'ambito novecentesco, dal Surrealismo a Roussel, a Klossowski, che ne assimilò la poetica. Del resto la tensione a sforare, sfondare (rompere il fondale) i limiti cinematografici così precisamente circoscritti da Maxime Matray e Alexia Walther, andando verso il letterario, sembra una costante di certo nuovo cinema francese, se si pensa a Yann Gonzalez soprattutto, e poi a Mandico, ad Héléna Klotz: l'intreccio, la compenetrazione di tono alto (versificazioni, féerie, improvvise meditazioni), e quello più basso costituito dal pulp, da certa spiccata, sfoggiata televisività, e ovviamente dal cinema di genere (da Jean Rollin fino al misconosciuto Jean-Denis Bonan), che ora pervadono queste Bêtes blondes immerse in un'incoerenza, una discontinuità di scherzo lugubre e sublime, risuonante nella prosodia del gioco di parole, sconfinante ad un tratto nella riflessione malinconica, poi nell'urlo di paura, e nelle note stralunate, ebbre di una musica elettronica antiquaria, che si smorza in qualche rumore, singulto di sottofondo, risboccia cristallina e poi appassisce in stonature, in specchi di pozzanghere acide.

È proprio per poter infrangere il metabolismo dell'immagine in direzione del letterario (e, al limite, del teatrale e del televisivo), che la vicenda si svolge imprigionata nei 4:3 del cinema delle origini che trascolora in una trita sit-com del 1991, protagonisti Patrice e Corinne, a dettare al film un senso di chiusura crepuscolare, mortuale, una claustrofobia di luci smorte, del sottaciuto smorzarsi di lumicini in veglia intorno alle tombe. In effetti Bêtes blondes è alla fine la metabolizzazione del lutto che si invera nella finzione più spinta e priva di senso, nell'ossessione di un telefilm demente di inizio anni Novanta, che dà forma alla follia, alla disperazione di un freak perso nel bosco linguistico, un bell'addormentato che incontrerà splendide streghe, neri maghi vaticinanti, rospi nella serra in cui era stata segregata Betty: cioè un ipertrofico apparato di forme, di farse, traiettorie grottesche che fanno affiorare solo in rare occasioni la carne viva, la verità del dolore, della disperazione di Fabien giacente sotto la spessa coltre di un normale delirio, di un deliquio bunueliano. Nelle poche occasioni in cui Fabien non è sopraffatto dal suo (dover) essere marionetta, giullare, risulta, per un momento, lucido, provato in volto, come reduce da sbornia, dall'ubriachezza del film: questa sghemba elaborazione del lutto; bulimico meccanismo di riesumazione e ruminazione di frammenti che non è più possibile ricomporre per via della narcolessia di cui è affetto, della dispersione del tempo, che s'incanta, s' incagliata ora sul piatto del giradischi mentre suona Sois pas triste, Patrice.   

Questo articolo è tratto dal catalogo della Settimana Internazionale della Critica 2018, della Mostra di Venezia.

Tags: