Se penso a film che rappresentino il nostro tempo, concitato, tecnocratico, eppure ancora ferino; e che lo mimino attraverso il linguaggio, il gesto cinematografico, mi viene in mente un'opera prima lucente, sonante, passata per il Festival di Locarno qualche tempo fa, Verão Danado del portoghese Pedro Cabeleira – estasi techno-pasoliniana di un'ultima estate, con l'ariosità e la trasparenza dell'immagine in trepidazione, respirazione, e cioè la sacralità della presenza, della movenza anche disperata, alla fine della giovinezza – e Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas, in concorso a Venezia lo scorso anno, attualizzazione di un'educazione sentimentale (che alla fine non è che il dis-adattamento dell'individuo alla vita) già abbozzata in Post Tenebras Lux, tra conflitti, impossibilità comunicative, perversioni propedeutiche all'eternazione dell'amore.

Il cui metabolismo del resto è strettamente legato alla definizione che ne dà Juan (il poeta-allevatore protagonista del film, interpretato dallo stesso Reygadas), qualcosa di «resiliente e soprattutto imperfetto», che scandisce i termini di un'ideologia, una poetica della contraddizione, della precarietà, alla base del film, dei personaggi come dostoevskiani, delle loro azioni, facendo confinare egoismo (puro istinto di sopravvivenza, animalesco) e altruismo (una sorta di pietas per gli esseri viventi), gelosia e voyerismo, sofferenza e pruderie in rapporto osmotico, come se inopinatamente (cioè matericamente, selvaticamente, poeticamente) uno nascesse dall'altro, uno si riversasse nell'altro mantenendone la matrice; così come in Luz Silenciosa violenza e generosità, piacere e sacrificio, erano racchiusi nel lasso di una recriminazione «puttana», una morte di crepacuore sotto un diluvio d'anime, e il dono finale, estremo, dell'antagonista che diviene bianca, quasi fantasmatica farfalla fuori dalla finestra e persa poi nella materia dei campi, una luce silenziosa, un sibilo in controluce, che non può che farsi tramonto e poi notte stellata, a muggire, com'era cominciata: nel campo lungo della natura, cioè nel campo di innumerevoli possibilità dell'immagine di essere materia in formicolazione, fermentazione per via dei germi temporali, nel temporale iniziale di Post Tenebras Lux dove il tempo appunto agendo sulla materia si fa atmosfera, tempesta, lampo notturno su persistenza rossa del titolo, proprio il carattere, la font che diviene stile (non semplice inscrizione di servizio), forma, come in uno dei titoli di Lisandro Alonso, magari il Los Muertos che rosseggiava a tempo di musica.

Del resto quella di Reygadas è un'idea di cinema (tra le più consapevoli in circolazione) che collima con le estetiche più oltranziste contemporanee, comprendendo letteratura, musica, tutta la prossemica inscritta nell'architettura. Dumont (il cui Hors Satan può essere considerato in dittico con Post Tenebras Lux), Alonso, Weerasethakul, Ceylan, Martel, con alcuni archetipi tra cui ovviamente Tarkovskij, e finanche il Terence Davies della trilogia, aggiungendovi, per ammissione dello stesso Reygadas, Frammartino e Minervini, magari quello estuoso di Low Tide: cioè quegli autori ascrivibili allo slow cinema nella definizione di Shrader. Un cinema di dilatazione delle situazioni (e non di attenzione alla narrazione), di reificazione perdurante e perturbante degli oggetti, che sottrae le cose e la realtà all'automatismo della società dei consumi e gli ridona la loro poesia perduta. Un cinema che si prende del tempo per farlo sentire, il tempo, e per far sentire la materia delle cose (che sono cose innanzitutto cinematografiche), intrise di tempo.

Non è allora la realtà documentale che interessa a Reygadas, quanto il sogno della realtà che giace, latita dietro le forme ottuse dell'esperienza: sono le forze profonde intrinseche alle forme della natura, che quando emergono, in questo cinema (perciò cinema espressionista, non certo realista), rivelano un'altra realtà, un'ultra-realtà, densa, spaziante, spiazzante. Questa natura, o dovrei dire, meglio, immanenza che sfolgora, rutila come nelle vertigini all'inizio e alla fine di Luz Silenciosa, già a partire da Japón è il luogo irriducibile ed estatico dell'emersione delle contraddizioni, anche delle cacofonie (in contrappunto ai cristalli degli scorci: ad esempio la fellatio di Battaglia nel cielo o l'amplesso con corpo vizzo in Japón) che si intrecciano, si fomentano a vicenda determinando l'equilibrio del cinema di Reygadas e ora di questo Nuestro Tiempo, ulteriore scarto verso un cinema in continua fermentazione, che non vuole chiudere gli occhi davanti a nulla e cerca di mettere in piena luce, di guardare anche là dove non si potrebbe – sul semiasse di un'auto in corsa o dentro il motore – e non si dovrebbe: gli amplessi di Natalia con altri uomini, spiati nel tentativo disperato di tenersi l'amore. Gesto cinematografico spudorato e angelico, apocalittico, come la voce di una bambina che commenta a tratti le vicende dei protagonisti insieme al diegetico Carpet Crawlers dei Genesis e, cosa inedita per le immagini silenti di Reygadas, l'affiorare come dalla polvere, da un cerchio di luce giunto da un graffio d'alba, di Inlands dei King Crimson, che sfuma nella battaglia lieve e selvaggia dei campi.

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